CASTEL MADAMA (6375 abitanti, detti castellani. A 428 m slm). Fa parte della IX comunità montana. È situato sullo spartiacque fra l’Aniene e il suo affluente Fosso d’Empiglione.
IL DIALETTO DI CASTEL MADAMA:
- I vocabolari e le grammatiche
Avviamento allo studio dell’italiano nel comune di Castelmadama di Oscar Norreri, edito nel 1905, anche se indirettamente è “il primo passo per lo studio scientifico del dialetto castellano”, come sottolineano F. Sciarretta e A. Moreschini che ne hanno curato una ristampa nel 1986. Esso “doveva essere, almeno nelle intenzioni dell’autore, solo uno strumento, al quale si potesse ricorrere per imparare la lingua italiana”. Di fatto è “il punto di partenza per ogni studio sul dialetto”, dotato com’è di rigore e puntualità nella ricerca e nel metodo scientifico. Dal frasario norreriano (un’ottantina di frasi) citiamo solo: io e vistu ce sémo come fratéji cudì jémo sèmpre ’nzemmora (noi due siamo come
fratelli, perché andiamo sempre insieme); ju feraru lavora lo féru revocenatu (il fabbro-ferraio lavora il ferro arroventato); m’ha datu picciu a la camisciòla e no mme volea lassà (m’ha afferrato per la giacca e non mi voleva lasciare); viju chiattu s’ha a reppirizziricatu ’n-cima a vij’ arburu iavutu javutu pé pià ju nitu (quel bambino s’è arrampicato su quell’albero altissimo per prendere un nido); vóji só vinuti a stimà le mela a la vigna méja e m’havu dittu che me davu tantu, e io ce l’ho date pe viju prézzu (oggi hanno apprezzate le mele della mia tenuta e mi hanno offerto un prezzo conveniente tanto che le ho vendute).
Oltre 1500 sono poi i termini contenuti nel suo vocabolario.
In Cuturuni cuturuni pe lla pallatana di Alessandro Moreschini c’è un piccolo dizionario con 450 vocaboli. Nel 2005 lo stesso autore con Avviamento allo studio del dialetto di Castel Madama (La lingua dei nostri avi), Edizione de “Il Centauro, Tivoli, 2005, in 3 volumi (Grammatica, Antologia, Dizionario, pp. 232), fornisce una definizione completa della materia grammaticale collocando l’esito linguistico castellano nel contesto della sua derivazione latina, della sua distanza dall’italiano classico, della sua differenziazione dai vernacoli affini della zona tiburtina, tra i quali viene prescelto per un’efficace comparazione quello di Marcellina (pp. 70-72). È la vicenda di alcune consonanti: per esempio il suono gutturale o palatale della G a Tivoli si raddoppia quasi sempre (gghiesa, gghiessimo, ghiò: chiesa, andammo, giù), mentre a Castel Madama si converte quasi a diventare C (criju, cranu: grillo, grano) o in J (loja, fujine: loggia, fuggire) dove J ha valore e suono di semiconsonante o ancora più visibilmente nell’uso dell’articolo determinativo, che è Ju davanti a parole di genere maschile singolare, che iniziano per consonante, mentre, davanti a parole che cominciano per vocale si usa J’ sia per il singolare che per il plurale (ju biunzu, ju quinatu: il bigoncio, il cognato; j’omo, j’ommini, j’ommurro, j’ommurri, l’uomo, gli uomini, il gomitolo, i gomitoli), dove la distanza fonetica con l’articolazione in Lu, Lo di diretta ascendenza latina appare veramente incomprensibile (Roberto Missoni).
Quello di Moreschini è un “dizionario enciclopedico”. Basta infatti consultare la voce vecennara (massaia) per trovare una minuziosa descrizione, in quattro colonne, di come avveniva una volta la panificazione, o la voce erva per rinvenire le principali erbe commestibili e non, ed in più un rinvio all’Antologia (il II vol. della summa moreschiniana) e alla poesia “J-ortu de nònnema Pippina” in cui sono citati altri cento tipi di erbe. Alla voce libbru troviamo due pagine di notizie biobibliografiche dei principali autori castellani. Nei tre volumi dell’Avviamento…, secondo F. Sciarretta, “sono ricostruiti, quasi con ostinazione, abitudini, costumi, comportamenti dei castellani, che si avvalgono di un dialetto vivo nelle espressioni, efficace nelle descrizioni, puntuale nel cogliere aspetti particolari di situazioni”. Emilio Liberati è autore di Fòje, vocabolario di un castellano, pubblicato e curato dall’Associazione culturale Dedalo nel 1991.
Relazione di Alessandro Moreschini al Convegno di Anticoli Corrado DIALETTI A CONFRONTO NEI PAESI DEL MEDANIENE
Il dialetto di Castel Madama
L’idea di dare corso alla compilazione di un dizionario del dialetto castellano forse la ebbi quando nel settembre del 1948, dopo aver salutato con un forte abbraccio mia madre, varcai il portone d’entrata del collegio di San Francesco in Assisi per frequentare la prima media.
Mi sentii solo e, in qualche modo defraudato non solo dell’infanzia, dei compagni, dei luoghi del mio paese, ma soprattutto delegittimato bruscamente e irrevocabilmente della lingua materna. Mi ritrovai a dover apprendere un linguaggio nuovo per dialogare con i nuovi compagni. Le parole, soprattutto le prime settimane non avevano per me alcun sapore, sembravano vuote, dure come le pietre, insignificanti in quanto, sino ad allora, riuscivo a dialogare e a pensare solo e soltanto in dialetto.
Trascorsi alcuni mesi, iniziai a pensare in italiano e le parole mano mano si impregnarono di significati, di sentimento… J-abbisu divenne matita, conca divenne orcio, ditu nmatiju diventò mignolo, lestra diventò letto, parimu, marema, sorema divennero mio padre, mia madre, mia sorella… spassàrese divenne divertirsi, revejarese, svegliarsi prescia, fretta, vutu gomito, mancina, sinistra, lesca de pane divenne fetta di pane, mottaturu imbuto,…nzerà, aruvà, sbodà, fujì divennero, chiudere, gettare, svoltare, correre… La pietrarola si mutò in trappola di pietra, ju piccuru in trottola, la ciriminella in lippa, ju calemme in albero della cuccagna.
Forse dicevo, da quel traumatico accadimento, nacque nel mio inconscio la prima idea di salvaguardare la lingua dei miei avi, usi e costumi o quanto meno la spinta, anni dopo, ad una quarantennale assidua, attenta ricerca, dalla viva voce dei miei nonni, dalle testimonianze degli anziani, dagli innumerevoli collaboratori innamorati anch’essi del dialetto e delle tradizioni locali e soprattutto da una memoria che ancora oggi, dopo oltre cinquant’anni è ancora viva, direi vivissima dalla quale, consentitemi estrarne alcuni quadri, dove ho assunto centinaia di migliaia di lemmi dialettali del dizionario.
A quei tempi, ovviamente, ignoravo l’Avviamento allo studio dell’Italiano nel Comune di Castel Madama di Oscar Norreri pubblicato nel 1905; opera peraltro posta da me all’attenzione, con una riedizione con il contributo eccellente del prof. Franco Sciarretta non solo dei castellani ma anche di molti studiosi o ricercatori nel 1987
Oscar Norreri, non era di Castel Madama ma di Pergola una cittadina in provincia di Pesaro. Conseguì come si diceva a quei tempi la patente di maestro elementare di grado superiore a 22 anni; dedicò il tempo che avrebbe dovuto dare alla patria come soldato (inabile al servizio per insufficienza toracica) alla frequenza di vari corsi di aggiornamento presso l’università di Roma e all’età di 24 anni il 9 gennaio del 1899, venne nominato maestro supplente nella scuola elementare unica di Montebuono in provincia di Perugia sino al 1891. Dopo la nomina di maestro elementare per il biennio 1902-1904 nel comune di S. Lorenzo in Campo in provincia di Pesaro, il Provveditore agli studi di Roma nominò il 15 ottobre 1903 Oscar Norreri maestro elementare delle scuole inferiori rurali del Comune di Castel Madama dove rimarrà sino al 1908.
Con l’Avviamento allo studio dell’Italiano nel Comune di Castel Madama, che fu oggetto di particolare attenzione da professori, linguisti, dialettologi del tempo, l’autore, volle dotarsi, di uno strumento per poter insegnare l’italiano, visto e considerato che a quei tempi oltre che l’analfabetismo imperante, nei paesi si parlava solo e soltanto dialetto. Quale strumento migliore di comparazione e di riferimento nell’approntare una piccola grammatica e un lessico (1700 vocaboli) e distribuirlo a tutti gli scolari della Comunità?
Ebbene, incoraggiato e coadiuvato nella parte finale del lavoro, in tempi molto brevi (meno di un anno) come si evince dalla documentazione pubblicata in appendice alla mia grammatica, dall’allora prof. Ernesto Monaci docente ordinario di lingue e letterature neolatine della Università di Roma, il Norreri diede alle stampe il suo lavoro.
Non siamo di fronte ad uno studio dialettologico ma l’opera costituiva, mancando specifiche trattazioni precedenti, il primo passo verso lo studio scientifico del dialetto castellano. Peraltro il Norreri raccoglie l’invito fatto ai maestri d’Italia, da Ciro Trabalza, professore di Italiano e docente nella Università di Roma, illustrato nella sua opera “Insegnamento dell’Italiano nelle scuole secondarie 1903 “e soprattutto le sollecitazioni fatte da Alessandro Manzoni
(1863) sulla importanza del ricupero delle parlate municipali che, come sottolinea il Trabalza nel suo trattato conosciuto dal Norreri, vennero concretizzate solo qualche anno più tardi (1890) attraverso un concorso ministeriale a premi e menzioni onorevoli con Regio Decreto.
Dovrebbero essere grati soprattutto i castellani a questo Maestro. (Io sicuramente. Di esso oltre che una copia dell’opera, conservo un suo personale biglietto da visita.) Fu, per chi lo conobbe, uomo colto, intelligente, tra l’altro umile, autore di altre due pubblicazioni; e pertanto ho voluto con la mia opera Avviamento allo studio del dialetto nel comune di Castel Madama a distanza di 100 anni, fare eco anche con il titolo alla sua opera, quale omaggio dovuto, e chiudere, se mi si consente, un cerchio sul dialetto di Castel Madama.
Il mio libro è indirizzato anch’esso alla scuola e tiene conto, certamente della grammatica del lavoro del Norreri sviluppando gli argomenti più approfonditamente e con maggiore materiale disponibile. Attraverso la comparazione della parola castellana con quella latina e con quella italiana per consentire ai ragazzi di comprendere più facilmente il rapporto della lingua castellana con l’italiano e la lingua latina. Ho ritenuto opportuno a volte comparare il dialetto castellano anche con alcune parlate dei paesi confinanti tra i quali Tivoli mettendo in risalto le peculiarità e la differenziazione, le variazioni di carattere morfologico e fonetico.
Come ad esempio il suono gutturale o palatale della G che è molto evidenziato nel dialetto di Tivoli e dei paesi confinanti che si raddoppia quasi sempre, mentre nel dialetto castellano si converte in J e a volte in C ed a volte in V. Vediamolo nelle parole: Andammo, masnada, olio, foglia, grano. A Tivoli si dice gghiessimo, rattattugghia, ogghiu, fogghia,gghió, gghiettà, A Castel Madama: jemmo, rattattuja, oju, foja, jò, jettà. È evidente quasi il rifiuto della G mentre a Tivoli è preminente e raddoppiata.
Il suono gutturale o palatale della G, è molto evidenziato nel dialetto di alcuni paesi confinanti mentre a Castel Madama si converte quasi a diventare C criju, cranu (grillo, grano) o in J: loja, fujine (loggia, fuggire) juntu (giunto), jennaru (gennaio), jnestra (ginestra). A volte la G italiana muta in V Es: vutu, varzone (gomito, garzone) Il nesso italiano GL si muta in J consonantica in castellano moglie/moje, mentre a Tivoli muta in figgi (figlio) e in tanti altri mantiene il nesso italiano. La J conserva per lo più il suono del lemma latino (pejus /peju; juvencus/jencu).
2) Nel mio libro la parte antologica è composta di sonetti, versi sciolti, testi anonimi, brani di prosa, bozzetti . Questa è il frutto, chiedo scusa ma mi si passi l’epiteto, di un poeta che ha cercato di ricomporre il dialetto, mondandolo del banale e senza allontanarlo dal popolare, ricondurlo ad una unità espressiva nella quale la parola potesse giungere, come quella italiana, alla misura poetica con le sue immumerevoli e ricche immagini, con le sue peculiari visioni tutt’altro che comiche o umili.
3) Nella prefazione all’opera, secondo il prof. Sciarretta, più che di vocabolario (circa seimila lemmi) data la mole delle informazioni contenute e per la sua complessità, si dovrebbe parlare di dizionario enciclopedico. E in effetti c’è di tutto: dialetto, storia, usi, costumi, tradizioni, fatti accadimenti, personaggi illustri del luogo, toponomastica urbana e rurale, ornitologia, botanica, i mestieri, le sorgenti del territorio, i soprannomi, i proverbi, gli indovinelli, i giochi, descrizione di siti archeologici, leggende, favole ed altro.
Ho ritenuto pertanto far seguire al lemma dialettale spesso l’etimologia, la classificazione grammaticale, a volte inserendo un sinonimo o un contrario; quando è servito ho inserito il plurale; per i verbi il paradigma alla latina. Importante citare una frase come esempio per spiegarne bene il significato. Spesso ho posto delle notizie riguardanti la parola definendole curiosità.
Per averne una esatta riprova basterebbe consultare voci come: Affumicatu, Ambijuni, Buzzicu rampichinu,Festarolu, Libbru, Remmediu, Sumpalazzu, Sinnacu. Sparagnu, Vecennara. Si potrà pure trovare il modo di zappare la terra, come mietere il grano, come macinare i frumenti, come raccogliere le olive, come potare o insertare un albero da frutta, come si faceva il vino, come si molinava l’olivo.
In definitiva non cimitero delle parole, ma un dizionario che guarda al futuro, ameno, che si potesse leggere piacevolmente, come un romanzo o la storia di una Comunità.
È stato un lavoro di tanti anni di assiduo, attento, continuo lavoro da parte di tanta gente, direi di tutta la Comunità Castellana: io conservo migliaia e migliaia di “pizzini” con lemmi, proverbi, modi di dire, nomi di luoghi, di fiori, di piante, di sorgenti, di soprannomi …che la gente mi ha fatto recapitare dal 1956 a qualche anno fa. Pertanto, ancora una volta posso dire che, come lo fu per Norreri, questo “Avviamento allo studio del dialetto nel comune di Castel Madama” appartiene a tutti i castellani con la speranza che possa essere per i futuri cittadini un brano di storia e per i ragazzi delle scuole un ottimo mezzo per conoscere non solo la lingua dei loro antenati ma anche i loro usi, i loro costumi e le loro tradizioni.
- I proverbi e i modi di dire
Da Casteju bbeju tuttu vantu di Moreschini riportiamo alcune colorite ed efficaci espressioni idiomatiche castellane:
Na svista e na sparza (qualcosa che appare un attimo e svanisce subito), a mmènte santissima (a mente chiara), tisci-llà (spostati più in là; si diceva ai maiali), fà la majese a i cici (morire, andare al camposanto), fetane atruju (fare le uova altrove), me sse vòta ceru (mi vengono le vertigini, mi gira la testa), a llacciu prisu (di sorpresa), canno fubbe la dine e l’ora (quando fu il giorno e l’ora), tené la frève magnarèlla (mangiare molto e spesso), temé temé (guarda guarda), reppe reppe fiume (riva riva fiume), tè la sparacara ’n-zaccòccia (avaro, sparagnino), tè la tète (trema per nervosismo o altro), pià la zzunna (prendere lo slancio), ficiru ’m-prazicoccu (fecero una merenda), a cchi le dea e a cchi le promettea (persona litigiosa), tu no’ ju té giammattista (sei senza cervello), lècia lècia (lenta, molle, viscida), futu futu (foltissimo), a ccapu jone, fittu, sune (a testa in giù, a capo fitto, in su), ci-a-re-c’è (ci risiamo), a ròllo (all’assalto), ’ncuru sine ’n-capu nnòne (si dice a persona che non vuol capire), ’sta sèmpe a patuju (di persona che sta in ozio).
Dallo stesso libro, tratti da 541 proverbi, quelli che qui citiamo:
La Vacca de la Comune è na gran vacca / e bbeatu chi la sa mogne; pe lo piove e lo cacà / ’n-z’ha da precà; sappite co la tèra ’nnustrecane / che nne ricchezza da la tèra vène; a’stu munnu ce stavu tre spècie d’ommini: / ommini, bisommini e cazzabbubbuli; tre ccose so’ pericolose: / ju criditu, lo custà pocu e lo piòve pianu; sinu a la bara / sèmpe s’empara; chi vò sapé i fatti de j-ari / ha da pratecà barberi, sarturi, cazulari; lo vinu è la zinna de i vecchi; jennaru zappatore / febbraru portatore / marzu broccolaru / abbrile fiorellaru / maju cerasaru / giugnu fruttarolu / luju metetore / austu briccocolaru / settembre ficoraru, / ottovre ivaru / novembre vinaru / decembru frittellaru; chi cambia pajese / tròva furtuna; j-asinu s’encòlla la soma / ma non la soprassoma; la moje te ratta puru a-ddo’ n’arivi; j-amore, la rogna e la tosce / ’n-z’agguattanu; dibbiti, tempu e mmòrte / non respettanu pòrte.
Nel libro A chi sgòbba la gòbba a chi arobba la robba… A. Moreschini ha raccolto e risistemato oltre 900 proverbi e circa 500 modi di dire e frasi idiomatiche castellani. Nello stesso volume sono elencati 186 termini di paragone e similitudini da cui preleviamo solo: allappea comme le sòreva virdi; borbottea comme na pigna de fazoli; chiaru comme l’acqua de i maccaruni (ironico); durimì comme ’na crina; facea le cose nascusci comme la tramontana; tenea cento facce comme la cipolla; tinniru comme ’na joncata.
- I toponimi e i soprannomi
Oltre 500 sono i soprannomi elencati nella poesia “Ju chiameanu” (in Cuturuni cuturuni…) dedicata appunto ai soprannomi castellani da A. Moreschini che, oltre alla sterminata lista, ci offre anche il perché di alcuni soprannomi:
Ju chiameanu Cacazzu, / pe’ ddì ch’era lentu, / che stea n’oziu, / pè dilla bbène: ’n-cacazzatu… Ju chiameanu Zaganèlla / cudì s’attacchea le scarpi / né co jaleri né co la lecaccia, / ma co la zagana… Ju chiameanu Mezzu prète / cudì ju misiru ’n-collèggiu a Viterbu: / piati i vuti se spojane / e la messa no’ la cantane… Ju chiameanu Senzacianchi / mica che non le tenesse: / anzi le tenea truppu longhe… Ju chiameanu Malvasìa / n’era quistione d’uva o d’ara cosa:
/ diceanu che ’n-tenea fantacia de lavorane… Ju chiameanu Sgarone / che ccanno ggiochea a ruzzicu / a ju Pratareju, / ’n-ciazzecchea mmai a ttiraju: / sgarea sèmpe… Ju chiameanu Bbandièra / cudì de Santantònio / vencea le corze co i cavai / e pe ppremiu, a la compagnia / ’i faceanu portane la bandièra… Ju chiameanu Scafittu / cudì ju pare e la mare / eranu grossi, j-avuti e ppaccuti: / do’ sansistuni… / Issu, ’mmece, nascine, miccu miccu, / comme nu scafittu… La chiameanu Longarina / n’era ne j-avota, ne llonga, / ne ffina fina: / era paccuta e ggròssa… La chiameanu Palontona… / ’N-facea a ttempu a metterese / n’abbitucciu che ssubbitu ju palognea… // Ju chiameanu Farmacista… / Diciu che reguarì / ’m-brancu de pècora con la pitartima… / verzu Marcosimone… Ju chiameanu Manchittu / cudì dicea sèmpe: / “ce vedemo lòco…!!” / e-ppo’ ’n-ce jea mmai… La chiameanu Tinchiribbèlla / cudì se credea d’èsse bbèlla / jessa sòla…
Tra quelli più curiosi raccolti dal Moreschini citiamo da Avviamento allo studio del dialetto nel comune di Castel Madama (vol. III, Dizionario) questi soprannomi:
Sparatore, Zampacorta, Palaccia, Pasallombra, Cucuzziju, Me stò, Ammazzacappeju, Zimichittu, Sordacchiò,Ciccia-porcu, Strozzone, Pappante.
Nella poesia che dà il titolo alla raccolta Casteju bbeju tuttu vantu, A. Moreschini elenca molti toponimi castellani: San Chiricu, Sant’Anna, Sammastianu, le cruci, Sammicchèle, la Cchiesa Nòva, l’Ostarìola, la Cécora, Pisciuvincuru, ju Cantone, i Curiciji, ju Stallone, la Pallatana, ju Pulennone.
Altri toponimi sono citati nelle raccolte poetiche e nel Dizionario, III volume del suo Avviamento allo studio del dialetto di Castel Madama. Nella poesia “Cant’è bbona l’acqua de Casteju” in Cuturuni cuturuni… sono nominate pressoché tutte le fonti dalle quali si poteva bere in tutte le maniere (a gannarella, / a putiji, / co la fronna, / co ju canniju a la cupèlla, / co ju soreju; / attacchènnome a la conca / e a ffiume comme ’n cavaju): Fonte Canòro, Casamaria, dell’Òro, Bucìa, Chiovata, Ventresca, Tre Ffunti, Coperchiata, Rancittu, Detale, Casone, Cavaju, Sant’Òcco, Arcaru, Bbianca,
Juca, Ricci, Lubbiggi, Rampinu, La Roscia, la Mòla, Sant’Acustinu, Frommeju, Sammucu, Valle, j-Arci, Vignol’ ’Ana, Pierina, Curicuni, Turnina, Gabbidiju, Furopana, Bbruna, de j-ulimu e dde Sciò, puzzu Costarnaru, Valle-lungu, rivu
Piducchiusu, Fragnòzze, de le Fratti, Funnu de ll’Acqua, fòsso de la Noce, Ambijuni, le Cèse, fòsso de la Valana, Sant’Ufemia, de Ciccione, ’Nfròcio, Tècla…
Ma, fra tutte – conclude Moreschini – de ll’acqua de Casteju / la ppiù bbòna è vella de ju Pisciareju / addo’ bbeze marema da chiattarèlla…
- Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
Feste e sagre. La Festa patronale di San Michele (8-9 maggio, affiancata da giochi popolari e fiera), la Festa di San Lorenzo (10 agosto), Castello in Fiera (seconda domenica di luglio, con mostre di antiquariato, collezionismo e artigianato e degustazione di prodotti tipici), la Sagra della pera spadona (3° fine settimana di luglio, con mostre della civiltà contadina e manifestazioni folcloristiche).
4.1 Canti
Da segnalare Festa longa, canti popolari di Castel Madama, stampata a cura della Biblioteca comunale nel 1980 che contiene testi antichi e testi originali del Gruppo Bella Piazza. Gli stornelli (storneji), secondo Moreschini che ne riporta 33 in Casteju bellu… sono “una composizione poetica-popolare, arguta e improvvisata, breve ed incisiva dove trovano spazio i più disparati sentimenti dell’anima: odio, amore, rabbia, invettive, dispetti, costernazione… il componimento
va cantato ed accompagnato con strumenti per lo più a corda”. Esempi:
Fiore de canne / te vòio fa ’n-dispettu granne granne / te vòjo da nu bbasciu tra le zinne // Fiore de pane / so’ bbrutta è veru, lo saccio da mene, / tu che ssi bbeju “che mme vardi a ffane?” // Fior de ’nzalata, / canno che mme ju da ’m-maritu, tata? / Doppu mitutu e ffatta la recòta.
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Dal libro di Oscar Norreri riportiamo un’antica invocazione di Castel Madama (presente anche in altri comuni della Valle dell’Aniene):
Sant’Anna, santa Susanna, santa Lisabetta, / scampece de furmini e de sajetta. / Gesù Cristu mèju pia ssa lampa / portala da na crótte scura / addó ’n-ze vede nuja criatura.
Alcuni indovinelli:
Io tenco na copertaccia / ppiù reppèzzo e più se straccia (le nuvole).
Io tenco ’m-manicutu d’ova: / la sera ce le mette, / la demà ’n-ce le retrova (le stelle).
PRIMU – Tu che ssi ’m-profeta còccia tòsta, / sappime ’stu dubbiu dichiarane: / nzógname na montagna senza còsta / ’n cellu che cce vola senza l’ale / ’n-alimale che cce cammina senza capu, / chi ce tomà ju primu cavaju, / chi ce tomà ju primu giujencu, / chi ce commese ju primu fallu / e chi ce nzanquinà ju primu cortéju.
SICUNNU – Io che só ’m profeta de valore / stu dubbiu te ju saccio dichiarane: / ’n-célu ce sse vane senza scala, / Iddio ce vola senza l’ale, / lo ranciu ce cammina senza capu, / S. Giorgio ce tomà ju primu cavaju, / S. Sidoro ce tomà ju primu giujencu, / Adamo ce commese ju primu fallu / e Cainu ce nzanquinà ju primu corteju.
(tomà: domare)
Da Casteju bbeju tuttu vantu, riportiamo una deliziosa cantilena di A. Moreschini (“Da na vecchia cantasilena”):
Èsso Pasqua / èsso Pasqua, / ce recresce / lo pa’ a ll’arca; / a la votte / lo bon vinu / a la bròscia / ju quattrinu… // Ndirindòne / ndirindòne / da ju lettu / scigni jone… // La cajina / st’a-ppatuju / co ju curu / miss’a-mmuju; / feta feta / tante òva / e la jòcca / cova cova… // Ndirindòne / ndirindòne / da ju lettu / scigni jone… // Su appiana / ’a prituricchia; / taja taja / la zazicchia; / taja taja / ’m-po’ de lonza / e la mosca / ronza ronza… // Ndirindòne / ndirindòne / da ’ssu lettu / scigni jone…
Nello stesso libro sono riportati 21 indovinelli, 4 scioglilingua tra cui: ’n-cozzu, ’n-chizzu, ’n-zassu / trascina la baròzza e ’ndò ’n-te ’ntuntì ’ntantu tu / t’ha da ’dattà a ttuttu… Ed ecco come un padre (quello del poeta Moreschini, in “Parimu” da Cuturuni cuturuni…) poteva minacciare suo figlio:
Canno facea ca’ ddannu, / ’ncrifatu redignea i denti… / perdea i sentimenti / e principiea a ddì: / se tte pijo / te trincio, / se tte pijo / te scacchio / te scincio, / te revasto, / te recciafrogno, / te squajo, / te scinico, / te spalanco… // E ppo’, / passatu viju mumentu, / se ’i passea tutta la rabbia / e da la mènte / e, n’èra, / n’èra ppiù nnìente.
Taratabassuca… (1995) di Moreschini è una preziosa raccolta di conte, filastrocche, cantilene, scongiuri, indovinelli e giochi di Castel Madama. Nell’originale romanzo di A. Moreschini L’ultimo degli Equi (2000), sono presenti nove deliziose favole in dialetto castellano.
4.3 I giochi
Ecco appunto il segreto dei giochi di una volta: “ogni cosa era un gioco” e si era contenti “del poco che passava il convento”. Tutt’altro che poco se si considera che i tanti giochi di Castel Madamaelencati e descritti da A. Moreschini in Taratabassuca (1995) e nella poesia “Cann’ero miccu” in Cuturuni curutuni…: a ppace, a vuttuni, a battucchittu, a bbattimuru, a ccòcci, a spica, a quatrucciu, a rica, a santucciu, a ciriminèlla, a ppiccuru, a piastrèlle, a bbricci, a ggirèlle, a buscia, a bbuccinu co le palline, a piripirì, piripirà, a la catà, a tippiritì-scuntì, a zirumatiju, a zicchiuvale, a ccòrda, a campana, a ju schiaffu, a ppicca, a la vècchia a la vècchia, a ccilu, a ’ncazarèlla, a cianchetta, a ju fazulittu, a tiritiribbotti, a bbuzzicu rampichinu, a barba Girolimo, a acchiappa-fuji, a ttòpa tòpa, a quatru cantuni, a mazzaròcca, a zompa-cavaju, a ssarda la quaja, a luna luna, a ju cucuzzaru…
Ogni stagione aveva il suo gioco:
ju circhiu, l’èlica, ju ruzzicu, le spadi, ju monopattinu, la caròzza, ju suffittu co’ i scartocci, ju scuppittu de sammucu, ju ciufalu de canna, ju carammatu co la ruzzichetta, ju talefanu co la scatoletta, ju fischiu co j-ossu de pèrseca, le lòffe co lo sapone e ju canniju, la mòrte co la cocozza e na cannela, ju tutu co le penne de cajina, i picchiritti co lo carburu, arcu e ffrecce co ’i feri de j-ombreju, le stelle co le canni e la carta vilina e j-ommuru de cottone, le tajòle, le fionne, le mazzafionne, e infine le tajòle, le pretaròle pe’ pijà i cillitti.
4.4 La gastronomia
Mangiare, una volta era un’impresa. E lo si comprende molto bene dalla poesia “Ju ddijunu”, tratta da Cuturuni cuturuni… di A. Moreschini:
Do’ gnocchi, / do’ maccaruni, / do’ tajurini, / do’ pisciallunghi, / do’ cannulicchi, / do’ cucchiari de sagne ’nfosse, / do’ frascareji, / lo pane cottu… // La pulènna co ll’arenga / calla calla la dema’ / o rescallata a la raticola la sera… // ’N-tocciu de pane summu ’ntintu a ll’acqua; / ’m-pizziju de turcu o dde cranu / co ’i brucculitti, do’ rapi / o ddo’ favi ricce piene d’aruji… / De le dine / ’n-ce stea mancu ju cacione / e allora dài a rebbelà patane / a ccòce cici / e ppigne de fazoli. // Se ppo’ ’n-ce stea propiu niènte, / allora ce remanea / na cosa, na cosa sòla: / ju ddiujunu solamènte (cacione: specie di pane di forma allungata fatto con farina di granturco).
Oggi le ciliegie, non più frutto di stagione, le importiamo, a scapito delle numerose tipologie nostrane che A. Moreschini rievoca nel libro citato in “Le cerasa”:
Cantu me piaciu le cerasa… / (Velle de Sammarcu se le magnea / solu ju Papa…) / Nne annu me ne faccio n’attrippata / ’n-cima a j-arburu / co ttuttu j’ossu / e cale vòta puru co ju pirnucciu. // ’Nconenzo co ll’assaggià le quarantine, / via via le majuline, / ’m-putiju d’acquarole, de palummine, / de marpenza… / ppo’ passo a le bastarde, / a velle de buscia, a le morette, / a le Sangrecorio, l’inzide e… / … cale vòta, na manicciata / de velle di Sor-Elidio. // Appressu me ne magno / ’n-zicchiu, accolematu de ravènne, / mèzza spòrta de damianèlle / e… panza meja fatte capanna / joppe a j-arburitu, / de crugnaline, de pretare, de saccòcce, / craffiuni e sampetrine… / Pe ffinine, / tantu pe ffamme la vocca amara / dài a mmagnà visciuli e marasculi / a ttutta callara.
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
Nel II volume (Antologia) dell’Avviamento allo studio del dialetto… di A. Moreschini c’è un’ampia sezione dedicata alle prose (sei racconti tra i quali un ricordo del nonno, “Nónnimu”, e del padre, “Pàrimu”, la descrizione di un pecoraro “Ju pecoraru”, la parabola del figliol prodigo, “Ju fiju scialacquone”).
Nella parte finale dell’antologia figurano sette bozzetti teatrali: “Ju tozzottu”, “Le vecennare” (le massaie), “La recòta de le pera”, “Femmone a la fontana”, “Matalèna e Peppe”, “Luisetta e Ninu”, “Ju sdiruzzu” (il battibecco). L’Ultimo degli Equi, di Moreschini è infine un singolare romanzo bilingue permeato dai ricordi, dalle vicende di un mondo contadino, lacerato da un processo di trasformazione, e dal dialetto castellano, di cui l’autore è profondo conoscitore.
- I testi di poesia
Alessandro Moreschini, di Castel Madama, autore di tre sillogi in italiano: Camminare (1971), Sazio d’erbe amare (1977), Il canto della memoria (opera inedita, 1980) e di altrettante in dialetto: Cuturuni cuturuni pe lla pallatana (1983), Casteju bbeju tuttu vantu (1986), ed E come chi non pare (1993), è senz’altro, per ispirazione e capacità espressiva, il poeta più rappresentativo di quest’area, meritevole di una maggiore notorietà sia in campo regionale che nazionale.
Le sue raccolte in lingua hanno avuto il conforto di lusinghieri quanto incontestabili giudizi di valore da parte di critici quali Umberto Marvardi (“è l’uomo del Camminare, dalla voce orizzontale e verticale; il poeta della gioia e della sofferenza; l’anima del sentimento e del divenire. (…) Poeta della trasparenza espressiva, dallo stile scarno ed essenziale”), di Marco Testi (“Poeta con un forte ascendente ermetico, il cui stile gli deriva da un dettato interiore che sfugge a tentativi decorativi, crepuscolari e lamentosi per risolversi in modulazioni di profonda liricità”.
Un solo esempio, “Sulla Collina”, da Camminare:
Sulla collina / mi sono ritrovato bambino: / l’erba, i sassi / ed il silenzio perduto da anni. // Ho ritrovato i ciottoli del fiume / nascosti nelle crepe, / la palla tra gli spini, / l’agnello imprigionato nel fossato. / Ho ritrovato la luna, / le notti illuminate, / i limpidi mattini e le rugiade. // Sulla collina, / in mezzo all’erba, un uomo / fa le capriole.
Sottolinea Franco Sciarretta:
“Le qualità liriche individuate da Marvardi trovano voce ancor più piena nella seconda raccolta Sazio d’erbe amare, in cui ritorna il tema di un’esistenza difficile, rischiarata tuttavia dalla luce della speranza, la quale non si rivela se non per lampi attraverso il buio della notte. Il Moreschini (…) è sempre proteso alla ricerca di immagini che emblematicamente possano farci intuire il male del vivere, anche se l’impossibilità di raggiungere la felicità non fa svanire mai il desiderio disognarla. Così può dirci: Muore dissanguata / la luce del giorno, / supina sul mare appiattito. / Muoiono le vie che portano / ai monti, in silenzio. / L’antico mio sogno viaggia / esanime in uno stormo di nuvole / verso ponente. / Frana, nei crepacci della notte, / l’anima turbata; ma, con l’agile speranza, anche comunicarci: Il mio pianto / è un sorriso tenero / erba dei prati, / dove un bambino / rincorre / la nuova farfalla oppure approdo / dove nave raminga / si distende; / sento dirmi parole / antiche dentro l’anima; / nitide profondità / rifioriscono / alghe stellate.”
Nella terza raccolta in italiano Il canto della memoria, conclusa nel 1980, anche se inedita, commenta ancora F. Sciarretta: Moreschini fa trasparire più chiaramente, attraverso un linguaggio maggiormente decantato, le asperità della vita, che pongono l’uomo nell’ansia continua del domani, nutrito di paure, nella trepida attesa di un giorno liberatore che stenta a venire. L’immagine più emblematica di questa umanità è quella delle pecore assediate dai lupi: A branchi scendono urlando / dai boschi sommersi di neve / i lupi… / Mute le pecore nel chiuso / ascoltano / l’ululato del lupo / l’urlo dell’inverno. Il poeta tuttavia non precipita in una visione pessimistica del mondo. Anzi: Quando mi carico di dolore / divengo un arcobaleno / dove la gente si specchia / e vede il sereno.
E la stessa morte è annunzio della successiva rinascita, come la notte prelude al mattino.
Così in “Dal tramonto all’alba”: Disarcionato / per sempre te ne stai, / fuori dalla storia, sulla collina. / L’inverno è prossimo a rubarti / l’ultimo sole; tra breve / scomparirai / all’orizzonte / di un fiume in piena. / Sarà il fluire / di un tramonto all’alba.
Si manifesta (precisa ancora Sciarretta): un desiderio forte di comunicare con gli uomini, di non rimanere solitario, di superare quel muro reso aspro dai cocci di bottiglia : Esigua luce / s’annotta nella tua distesa… Alate dolcezze / mi portano per mano. / E tu m’accordi.
Il tema dell’accordo, legato all’urgenza di una armonia con l’umanità e con l’universo, è come un fiume sotterraneo nella lirica del Moreschini, il quale scorre alimentato fondamentalmente da due esigenze, una cristiana ed una sociale. L’ispirazione cristiana:
Barattami, mio Dio, / con un fiore / e riapri i miei occhi / sopra le stelle… oppure: Era Sabato Santo: / la Pietà crocifissa sul Sinai / lamentava l’ultima ferita, / martoriata. / Rantolava l’inquietudine / spalancando le braccia / al deserto… / Era Sabato Santo… / la speranza imbrattava / di sangue gli ulivi… / Era Sabato Santo, / e qualcuno moriva / era l’ora nona / del Sabato Santo…
Oppure ancora: E domani / seduti / ad aspettare / l’omnibus celeste, / vorrei che potessimo cantare / l’Amore che ci esalta / e ci accomuna: / tu, Chiara, / come la luna / ed io, Francesco / come il sole.
L’istanza sociale trova la sua più compiuta espressione nella poesia in dialetto. Moreschini, dopo aver compiuto un raffinato percorso di studio nella lirica del Novecento, con predilezione per la lezione di Ungaretti, Montale, Quasimodo, Betocchi e Caproni riversa, tutto il suo lungo apprendistato poetico durato almeno un decennio di preparazione stilistica e filologica. Un laboratorio che ha portato il poeta ad approfondire una piena conoscenza del dialetto castellano, centrando due obiettivi: l’aderenza alla tradizione linguistica locale ed il raffinamento dello stesso attraverso precise scelte poetiche, attinte nel confronto con i maestri del Novecento poetico nazionale ed internazionale. Giacinto Spagnoletti, scrivendo all’autore, dichiara:
“Mi ha interessato innanzitutto la mancanza di provincialismo, nel senso che non c’è alcuna differenza fra poesia dialettale (che noi tutti amiamo) e che conta oggi per la storia delle lettere italiane, e il suo dettato lirico che resta immune da compiacenze d’ordine locale. Ho gustato la singolarità della sua voce e i temi che sviluppa di proposito, della pace, bene sovrano di tutti.”
Livio Jannattoni precisa che la poesia del Moreschini è: di straordinario vigore, senza concessioni, irrobustita da un dialetto forte, fatto di parole ed espressioni scolpite nella pietra, alimentata, oltretutto dai ricordi e dalle nostalgie. Cuore ed anima fisse a ‘Casteju’. Ma dopo l’amore per la propria terra, anche i grandi motivi umani, le meditazioni sulla vita. I ritmi ripetitivi, primordiali, di una esistenza stentata, molto spesso spietata, il tutto attraverso l’essenzialità così accessibile e rappresentativa, che costituisce la forza ed anche uno dei privilegi del dialetto.
Per Cesare Tomei nelle poesie di Moreschini “tra un brano e l’altro di profonda liricità s’inserisce stupendamente il mondo della tradizione popolare.” Egli è uno straordinario raccoglitore di parole evocanti un mondo, quello dell’infanzia e quello contadino, fin dalla poesia, dedicata a se stesso “Era ju tempu…” che apre Cuturuni cuturuni pe lla pallatana (Alla chetichella, seguendo l’erba muraria che cinge il muro del Castello per riscrivere la storia dalla parte degli sfruttati): …La dine fuiji a-ppedi a le lanze, / a ’i criji, a’i zippuncuri, / a le fraffralle, a le frucètte… // De sera, / circhiji le zizziripenne / pe le strettore / o tte mittiji a la lòggia / a contà le stelle: // era ju tempu / che ’m-pinziji a nniènte.
(Di giorno rincorrevi i maggiolini, / i grilli, le libellule / lucertole e farfalle… // La sera / inseguivi le lucciole / nei vicoli / o salivi alla loggia / a contare le stelle: / era il tempo / che non pensavi a niente).
Poi inizia ad evocare “L’ore, le dine, i misci, j-anni” di quel tempo attraverso le cose, gli oggetti, i sostantivi senza gli aggettivi:
’N-curziju d’acqua piovana / e na barchetta… // Na scatoletta vuita de magnesia / co daventru na nicheletta… // ’N-tocciu de specchiu virdu de bbuttija / e na buscetta… // Nu lasticu / e na ruzzichetta… / ’N-curtijuzzu, ’m-mottone / na bajocchèlla, na pallina, / ’n-zassu, la porbere, la nvanga… / Na palla de carta, ju ruzzicu, / ’m-piccuru, ’n-circhiu, la ciriminèlla… / …na stella… // Na taccatavora, na gnaccola, / na racanèlla… // ’N-curiju de pane assuccu / con nu milu puzzu… / … e l’ore, le dine, i misci, j-anni // e la giuvinezza meja.
In “Stella una, stella dova, stella trene…”, appare la nonna coll’invito accorato: ’N-te nne jne. // Remani a ffà pazzie / n’ara schianta. // No’ ji de prèscia / che la via è llonga… // Statte co nnònneta / n’aru pocu a reccontane le fanfaluche… // ’N-te nne curà d’arupì la pòrta / e jretenne: / cammina ju munnu, / ’n-ze nne fuje.// (…) Remani, se ppone, / n’ara sera a ’sta loggetta, / pe’ ddine l’utima vòta da chiattareju: / “Stella una, stella dova, / stella trene…”
Poi sua madre:
Marema, / femmona senza scòle… // …era pe la ggènte scavoza, / pe ’i senza casa, / pe viji che teneanu solamènte / ’n-tocciu de pane tostu / e na minèstra. // Dicea sèmpe: / “temete Ddio / e camminete a capòccia javota / pe la via ritta…” // Na sera ce chiamane / accantu a ssene… / ce strenze fòrte fòrte a ttutti vanti / e-ppo’ ce disse: / “fiji me’, / vajo a j-arburi pizzuti a repusamme… / …pe ddòte, / ve lasso stelle e ssòle…”
Sua madre, ancora, in “Se nn’angosceanu…”, una di quelle contadine che avevano un gran desiderio di tutto e di niente, che avevano un gran desiderio di vivere e al tempo stesso erano segnate dalla rassegnazione, e instancabili:
Rezeleanu, / laveanu panni e mmattuni; / stenneanu, stireanu, / faceanu la cazetta / e sse fijeanu… // Annaticheanu / sfasceanu e renfasceanu / le criature; / affezzeanu, / ajommoreanu, / allappucceanu, / arennacceanu / e se fijeanu… / Faceanu la vucata, / ammanneanu, / spicceanu, / puleanu, / tribbuleanu… / e ffra na cosa e ll’ara / se refijeanu… / e se sconceanu puru, / comme le vestie. / Peneanu, / pieanu le bbòtte, / piagneanu, / suppurteanu, repiagneanu, / s’abbotteanu, / se resottometteanu, / se demagreanu / e ppo’ se rengrosseanu, / nne òtto o nòve misci… // E viveanu fijennose / sett’ott’are vòte, / senza rebbellasse mmai, / senza pusasse mmai, / senza mmai ride… // …e se nn’angosceanu, de tuttu e de niènte…
La condizione dei contadini era miserrima, lo sfruttamento dei padroni insostenibile e senza pietà: i patruni se ’i piji a ddijunu te sse fiaranu… se ’i piji attrippati te rejettanu sope (I padroni quando sono digiuni ti si avventano contro, se sono satolli ti vomitano addosso). Aspro e stridente è il confronto tra i padroni e i contadini nella poesia “Issi, issi soli…” dalla tonalità epica (l’epica dei vinti), che riportiamo per intero nell’antologia e di cui citiamo il lapidario inizio:
Issi, / issi soli, / chivej-aru… // Appresceanu l’òpere, / le gnurieanu, le murtificheanu / d’alimu e de corpu. // Eranu i patruni de le Palazza / e de lo Fòre / e ’n-tutte le manère, / senza verevogna, / se nn’apprufitteanu nne dine. // Nune, / bbuttari, facocchi, repiscini, reparaturi, / bbocci, gargari, varzuni, cannavari, / carusini… co le mujure sèrve, / sèrve de issi. // Issi / magneanu, bbeveanu, rotteanu, / curijeanu / rejetteanu… / …remagneanu a curu sturatu / e sse faceanu pia’ ju sulluzzu. // Nune, a ppatì la fame, / a rocecacce l’òssa, / i revanzi e lo pane ’ncuzzurunitu. (Loro, / solo loro, / nessun altro… // Mettevano fretta agli operai, / li ingiuriavano, li mortificavano / nell’anima e nel corpo. // Erano i padroni dei palazzi / e delle campagne / e in ogni modo / senza vergogna / se ne approfittavano ogni giorno. // Noi / bovari, carraioli, pastorelli, raccoglitori di sterco / manovali, cavallai, garzoni, / portatori d’acqua ai mietitori, tosatori di pecore… / con le mogli serve / serve loro. // Loro, / mangiavano, bevevano, ruttavano, / scorreggiavano, vomitavano… / …rimangiavano a culo sturato / fino a farsi venire il singhiozzo. // Noi, a patire la fame, / a rosicchiarci ossa senza carne, / gli avanzi e il pane malriuscito).
In “Casema” Moreschini con un’enumerazione-evocazione mostra gli oggetti di una casa contadina ed in mezzo, una tavola, un boccale di vino annacquato, un bicchiere, e la nonna spossata su una panchetta / il nonno su una sedia / impagliata con l’erba del canneto. // Una gallina sul trespolo / proprio dietro la porta / e un gatto che fa le fusa / gli occhi chiusi / di fronte alla brace. Quegli stessi nonni cui il padrone prestava la misura di grano piena rasa e la pretendeva piena colma (a rasu te la dea / e colema la revolea / la còppa de cranu, / de prima staggione…).
E così nonno Luciano, ogni anno, ci rimetteva pure qualcos’altro: la pòra Chituccia, la nonna, sfinita dal lavoro della casa e dei campi. A lui è dedicata una poesia straordinaria “Nònnemo” che riportiamo in antologia. Cuturuni cuturuni (alla chetichella) muoiono stremati di fatica e di stenti i contadini, come l’amico “Pippinu”: Te nne si jtu, pure tune, / cuturuni, cuturuni / da vistu munnu micragnusu, / lurdu, schifusu / e, come diciji tune, / scriscimignatu… (come pane passato di lievitazione). Peppino diceva pure sempre: “Il mondo è bello / per poca gente; / quelli come me sono nati per tribolare / come le bestie”. La sua vita, come quella di Franciscu (“Comme ’n-fisculu”), altro personaggio castellano, è stata:
una vita penata / rencovata, / sfrajata, / recciafrognata, / scarabbozzata / ammuzita… perché come diceva: “la tèra è bbassa e tte vo’ mortu… / lo vive allappa: / è na refota che t’affòca… / e nune, semo limuni sfriati… / fisculi sott’a la prèssa. / Ju munnu te scannuria / a ppocu a ppocu, dine pe ddine / e’n-te nn’accorgi…”
(una vita di pena, / sacrificata, / spergolata, / accartocciata, / scarabocchiata, / acerba… // “La terra è bassa e ti vuole morto… / il vivere allega i denti: / è un mulinello che ti affoga… / e noi altri siamo limoni spremuti… / fiscoli sotto la pressa. / Il mondo ti scanna / a poco a poco, giorno per giorno / e non te ne accorgi”).
Si viveva (“Pe’ ttira’ a campane”) di povere cose e di baratti:
na foja de basilicu / pe na cipolla; / nu spicchiu d’aju siccu / pe ’m-peparuncinu; / ’n-cucchiaru de sale / pe ’m-putiju de farina; / ’m-pizzicu de farina / pe na fascina. // N’ovu pe ddo’ patane; / ’m-muccicu de pane / pe ’n-tocciu de zazicchia; / na schianta d’oju / pe na manicciata de cici o dde linticchia… // …e tanti cagni, / tanti baratti / tantu prestane / pe’ ttirà a campane!…
In “Me sonnea…” i sogni proibiti d’un bimbo: Me sonnea sèmpe na pagnòtta / de pane bbiancu, senza tritiju, / sana sana… / …’m-paru de scarpi a pponta / pe la domenica… / e na bricichetta / co ju manicu da corza. Ma non c’era niente: Me litichea i murcilusi e la crispigna / co le vacchi; co le pècora / i ramuracci; co le cajine / la ’nzalata; co ju porcu / la cocozza… (…) Vivea dine pe ddine, / co ppocu e nniènte, / co ju temore de Ddio / e de la ggènte. (“’N-ce stea niente”) Sono proprio i valori della solidarietà, del rispetto, della sobrietà quelli che, memore della dura esperienza della “gente scalza” stanno più a cuore al poeta e, con pudore, affiorano qua e là e di rado si dispiegano come in “Cantemo a mmucchi”:
Cantemo a mmucchi / come cantanu i cillitti. // Che ssirìa / se ju racciu meju / stesse sottu a ju teju / e dde mill’ari…! / Cantemo a mmucchi / come cantanu i cillitti. // Caru frateju, / ju munnu sirìa ppiù bbeju / se ju pisu fosse ’m-pò pir unu / e ttantu e ttantu / lo bbeve e lo magnane… // Cantemo a mmucchi / come cantanu i cillitti.
A tre anni di distanza, con Casteju bbeju tuttu vantu (Castello bello tutto quanto), la rabbia della denuncia sociale della prima raccolta si placa mostrandoci il poeta quasi riappacificato con i compaesani, anche con gli anonimi sfruttatori dei miseri, contro i quali si era elevata la sua denuncia, teso alla ricerca d’una superiore armonia, di una convivenza pacifica. Il nuovo atteggiamento si dispiega in forme metriche di ballata e in filastrocche, dalle quali emerge il sentimento del tempo che fugge, dopo la caduta dei sogni dell’infanzia, verso l’inevitabile morte. La più significativa delle poesie di questa raccolta è “La ballata de la vita” con un andamento caproniano, evidente già nell’esergo (Un tratto / ancora, poi la frontiera / e l’altra terra), dall’incipit (Matalèna / veramènte, / ’n-zavveratu / propiu niènte…! // N’è remasa / na paròla / de lo scrittu / de la scòla), fino alla bella chiusa: Addio tempu / de ggiuchitti, / de i niti / de i cillitti…! // C’è remasu / acqua e ventu / e ’nangosciu / pe daventru…! // Matalèna tette fòrte, / io la sento: // è la Mòrte.
Nella terza raccolta E come chi non pare (cioè: come cosa che non fosse verosimile) del 1993, preceduta dall’antologia poetica E tu m’accordi, del 1986, il poeta, secondo F. Sciarretta: “non esprime protesta sociale, semmai solo individuale, e non tende a colpire una persona o una classe sociale in particolare; esprime invece rimpianto per una vita più serena, in mezzo a gente tanto diversa da quella odierna, che si accontentava di poco per essere felice, che lavorava senza protestare, che sapeva aspettare coltivando, come la ragazza de “La parma fiurita”, dolci illusioni.”
Quella ragazza co ju penzeru fissu a ju recazzu / stea renchiusa ’n casa onne dine; / mo’ ’nu lenzolu, mo’ ju matarazzu / oppuru a j-ommorà o a cuscine. E sfacchinava da mattina a sera ed in premio, quando era terminata la lunga giornata
lavorativa se reffiatea ju còre co ’m-bascittu / accantu a ju focu tutta la serata / da vera Castellana co ’u spusittu.
Oggi invece (“La fameja spariata), purtroppo, canno ’n-fiju / se refiara / o ’na fija / te responne… / stanne certu, / ’n-te convonne, / la fameja / è spariata. E se la famiglia è spariata, sparpagliata, anche la natura e il territorio sono in rovinosa progressiva cementificazione che in “Ballata” lascia sgomento il poeta:
Ch’è successu da ’ste parti? / Cose turche, senza scarti…! / Jò la jva, mòrte a ll’òrta, / su palazza d’onne sòrta. // Pera, mela, fallacciani / no ’n-zo ppiù pe i castellani; / sette sèrve ’n-ovu o ’n-aju, / và ’u mercatu a comparaju. // Addò stavu le leveta / bbèlle e bbòne de Perzeta? / L’ara dine l’ho cercate… / …vasci tutte accimentate…!
Antonietta Marcelli annota:
Avverte il poeta un ritorno alla miseria, non quella antica, ma una miseria peggiore, quella morale. Amante del focolare domestico, delle idilliche rappresentazioni della natura, dei luoghi tutti della sua terra, delle persone, degli animali, non tralascia nulla della realtà castellana, anche ciò che non desidera, come il dramma dell’uomo solo o l’indifferenza o ancora l’oblio della propria identità di chi (in “E come chi non pare”, vedi nella nostra antologia) da miccu te chiameanu ju ’mbiastru, / ma mò si deventatu spezialittu / de ’stu pajese orfanu de mastru / a ffòrza de stincà lo binidittu, o ancora la duplice apparenza di chi un giorno esterna familiarità e amicizia e un altro diventa un estraneo, o un giorno è simile a un angelo e un altro a come vijiu che stà sottu a Sammicchèle, un giorno è un buon uomo e un altro ’n-alima de fèle.
Del paese resta il ricordo (“A ddo’ ju sole”, dove splende sempre il sole): le casi bbasse strette còre còre / comme ’i’nnamorati favu j-amore, / nuvacchie (nude) sia de fòre che daventru; la loggetta (“Ma ppo’ la sera”) dove può sedersi a rimirare ju celu granne tuttu arejumatu di stelle vicine e lontane:
E monto ’n-cròppa a una e dicio “Aah…” / e me ne vajo a zunzu pe ju munnu; / a vòte stò là llane pè cascà / ma prima de toccane ju sprufunnu // revengo ’n-me e, mòrta fantascìa, / de ’n-trattu me retròvo a la lojetta / co ’n-cane che abbaja pe la via. E quindi: straccu, sdiundu comme ’na vecchietta / me metto a llettu co ’n Avemmaria / mintri da ’n-ortu canta ’na ciuvetta.
Non mancano i momenti di quiete e di pacificazione come in “D’abbrile”:
D’abbrile canno l’aria se rescalla / e le cerasa cercanu maritu / fra rundinelle e ’n-vulu de fraffralla (…) // io redevento vasci ’n-chiattareju… / E vajo vajo ’n-giru tra lo bbeju / fattu de virdu e fiuri, senza pisu.
Infine, torna (“La mare è sempre mare…”) il ricordo della madre:
La mare è sèmpe mare, una sòla…! / Pe’ ’n-fiju no ’n-z’ajotte ju miccone; / pe lo conchè no ’n-zente ju bastone / se pija i torti senza fà parola. // La mare è sèmpe mare, procacciola…! / Pe’ ’n-fiju se retrova tanta tigna; / abbenge a la casa e a la vigna / co’ tanta fede ’n-Dio, senza scòla. // La mare è sèmpe mare, abburente…! / De ’u fiju dice solu – “ è sangue meju; / sta bbène issu, ju munnu è sèmpe bbeju…!” – / Sa solu dane e no ’n-vòne niènte. // La mare canno è mare e m-mare sèmpe.
Sopra ogni altra lo avvince una cosa, che è ppiù mare de la mare nostra (l’italiano), ed è la lingua castellana (“Lengua meja”, vedi in antologia) alla quale eleva un’invocazione appassionata: O lengua meja, no’n-te renfrascane, / remani sinché ppo’ vella de jeri, / simbrice e bbòna comme ’n-tocce ’e pane.
Dall’ultima produzione poetica di Moreschini (III vol. dell’Avviamento…), riportiamo la bellissima poesia “Ju suvaru” (Il sughero):
E sarda / restarza / s’affonna / reffiora / sta’ a galla / cammina / qua e là // E ffuje / rellenta / a mmuménti / a mmuménti / s’avventa / rallenta / se stà… // E zomba / rezomba / rebballa / s’empiccia / se spiccia / se ggira / qua e llà… // E spare / reppare / reggira / ’ntròppeca / siquita a jne / qua e llà… // qua e llà / sòpe a la pèlle / de fiume… / qua e llà…
Antologia
ALESSANDRO MORESCHINI
Nònnemo
Spissu
a ll’appummissu,
a la piazza d j-ulimu,
stea l’ore mutu a vardà
le cose e la ggènte che jea e venea
co ju sicaru ’m-mocca.
Ca’ unu, passènno,
ju chiamea pe nnòme…
Issu ’i responnea co j-occhi
e sbattea ju pède pe ttèra
come pe’ ddine:
So’ vivu,
ancora ce stòne.
MIO NONNO – Spesso, / dove la piazza dell’olmo è più al riparo, / stava per ore muto a guardare / le cose e la gente che andava e veniva / col sigaro in bocca. // Quando uno, passando, / lo chiamava per nome… // Lui gli rispondeva con gli occhi / e sbatteva il piede per terra / come per dire: / Sono vivo, / ci sto ancora, io. (trad. V. Luciani)
Issi, issi soli…
I patruni se ’i piji a ddijunu te sse fiaranu…
se’i piji attrippati te rejettanu sope…
Issi
issi soli,
chivej-aru…
Appresceanu l’òpere,
le gnurieanu, le murtificheanu
d’alimu e de corpu.
Eranu i patruni de le Palazza
e de lo Fòre
e ’n-tutte le manère,
senza verevogna,
se nn’apprufitteanu nne dine.
Nune,
bbuttari, facocchi, repiscini, reparaturi,
bbocci, gargari, varzuni, cannavari,
carusini… co le mujure sèrve,
sèrve de issi.
Issi
magneanu, bbeveanu, rotteanu,
curijeanu, rejetteanu…
…remagneanu a curu sturatu
e sse faceanu pia’ ju sulluzzu.
Nune, a ppatì la fame,
a rocecacce l’òssa,
i revanzi e lo pane ’ncuzzurunitu.
Issi,
satuji, ’mbriachi,
ggireanu e sse la spasseanu per ju munnu…
… nune,
ciunchi, picuruni,
a lavorane da la demà a la sera,
da la sera a la demà,
co ju ventu, co lo friddu, co ju sòle.
Le mujure de issi,
co le pollacche nòve,
steanu n’oziu,
a ride a chiacchiarane…
Le mujure nòstra,
a ffà ju rivu,
a sciacquà piatti,
a remonnà patane,
a ppulì scali, a rezelà lètta,
cammore e cammirini.
Jesse porteanu a ju coju
tanti patantiffi…
…le mujure nòstra,
mancu ’n-coraju,
na piruzza, ’nu spillu…
e, s’arennacceanu, canno poteanu,
ju stissu abbitucciu.
Issi,
avizzi, appasemati,
dormeanu, croffoleanu bbiati,
sope a ju matarazzu de lana
a na bbèlla cammora de ju palazzu…
Nune,
co mmujure e ffiji,
a la stalla co le vestie,
sope a ’i scartocci, na lèstra,
fra lo pisciu, lo stabbiu
e le cacate de vacca.
Nune,
pascèmmo, zappèmmo, metèmmo,
mognèmmo, arèmmo, scortechèmmo,
accorèmmo, ce sdirinèmmo, cregnèmmo,
sudèmmo sangue…
…le mujure nòstra,
laveanu, revalicheanu, serveanu,
ammasseanu, ammanneanu, coceanu,
suffreanu…
Jesse, le signòre, rucheanu,
comanneanu, ciuvetteanu…
… issi, magneanu, bbeveanu, rotteanu,
rerotteanu, remagneanu a curu sturatu…
…gnurieanu… e,
cale vòta frusteanu…
…issi,
issi soli,
chivej-aru.
LORO, SOLO LORO – Loro, / solo loro, / nessun altro… // Mettevano fretta agli operai, / li ingiuriavano, li mortificavano / nell’anima e nel corpo. // Erano i padroni dei palazzi / e delle campagne / e in ogni modo / senza vergogna / se ne approfittavano ogni giorno. // Noi, / bovari, carraioli, pastorelli, raccoglitori di sterco / manovali, cavallai, garzoni, / portatori d’acqua ai mietitori, / tosatori di pecore …con le mogli serve / serve loro. // Loro / mangiavano, bevevano, ruttavano, / scorreggiavano, vomitavano… / …rimangiavano a culo sturato / fino a farsi venire il singhiozzo. // Noi, a patire la fame, / a rosicchiarci ossa senza carne, / gli avanzi e il pane malriuscito. // Loro, / satolli, ubriachi, / giravano e se la spassavano per il mondo… / noi, piegati, carponi, / a lavorare dal mattino alla sera, / dalla sera alla mattina, / con il vento, il freddo, il solleone. // Le mogli loro, / con i vestitini alla moda / oziavano / ridevano e chiacchieravano… // Le mogli nostre, / a fare il bucato al fiume, / a sciacquare i piatti, / a sbucciare patate, / a pulire scale, a rifare letti, / camere e camerette. // Loro portavano al collo / costose collane… / …le mogli nostre, / neppure una collana di corallo, / un orecchino da un soldo, una spilla… / e, si riadattavano, quando potevano, / lo stesso abituccio. // Loro, / avvezzi, rimpinzati, / dormivano, ronfavano beati, / sopra il materasso di lana / in un bella camera del palazzo… // Noi, / con moglie e figli, / nella stalla con le bestie, / sopra i cartocci di granturco, una lettiera di paglia, / fra il piscio, lo stabbio / e le cacate di vacca. // Noi, pascevamo, zappavamo, mietevamo, / mungivamo, aravamo, scorticavamo, / uccidevamo il maiale, ci sderenavamo, raccoglievamo il grano, / sudavamo sangue… // …le mogli nostre, / lavavano, setacciavano, servivano, / impastavano, ammannivano, cuocevano, / soffrivano… // Loro, le signore, si davano delle arie, / comandavano, civettavano… / …loro, i padroni, mangiavano, bevevano, ruttavano, / riruttavano, rimangiavano a culo sturato… / … ingiuriavano… e, / qualche volta frustavano… // loro, / solo loro, / nessun altro. (trad. V. Luciani)
Lengua meja
O lengua meja, te nne vòjo tantu…!
Tu si ppiù mmare de la mare nòstra;
si stata sèmpe vocca, pocu ’nchiostra
de vesta schianta ’e tèra, tuttu vantu.
Tu ne revene da ’na fonte antica
che ffà ’nu rivu d’acqua che respèra;
la voce teja è ddoce, franca, vera…
…de cròsta bbòna e ppuru de mujica.
’N-te fa convonne da ’ssi furasteri
e tantu minu ’n-fatte ’bbavozane
da certi picuriji pocu seri…
O lengua meja, no ’n-te renfrascane,
remani sinché ppo’ vella de jeri,
simbrice e bbòna comme ’n-tocce ’e pane.
LINGUA MIA – Oh lingua mia, ti voglio tanto bene! / Tu sei più madre della mamma nostra*; / sei stata sempre bocca e poco inchiostro / di questa poca terra, tutto vanto. // Tu discendendo da una fonte antica / dai vita a un rivo d’acqua che rispera; / la voce tua è dolce, franca, vera… / di crosta buona e anche di mollica. // Non farti confondere da parlari forestieri / e tanto meno non farti ciancicare / da certa gente di poco valore… // Oh lingua mia non farti adulterare, / rimani finché puoi quella di ieri / semplice e buona come un pezzo di pane. (trad. V. Luciani) *La lingua italiana
E come chi non pare
E come chi non pare me saluti
’na dine e ll’ara io pe’ tte so’ ’n-aru;
mancu m’aggènita canno te muti
a pparu de ju tempu de febbraru.
E mmo’ me pari j-ancilu bbeatu,
mo’ j-aru che stà sottu a Sammicchèle;
mo’ si’ ’m-bon’òmo, ’n-essere senzatu
e a ll’imbrusiva,’n-alima de fèle.
Da miccu te chiameanu ju ’mbiastru
ma mo’ si deventatu spezialittu
de ’stu pajese orfanu de mastru
a ffòrza de stincà lo binidittu.
O Dante meju, mittiju a ’u ’ncastru
e spigniju a ’u ’nfernu rittu rittu.
NON SEMBREREBBE, EPPURE – Non sembrerebbe eppure mi saluti, / da un giorno all’altro non mi riconosci; / io non accetto che tu sia volubile / come lo è il tempo di febbraio. // A volte sembri l’angelo beato, / altre il demonio sotto a San Michele; / a volte sei un buon uomo, assai sensato / e d’improvviso un’anima di fiele. // Da piccolo ti chiamavano l’impiastro / ora sei diventato lo scopino / di questo mio paese senza guida // a forza di recidere tutto ciò che va bene. / Oh Dante mio mettilo alle strette / e spingilo all’inferno dritto dritto. (Trad. V. Luciani)
Cenni biobibliografici
Emilio Liberati, nato a Castel Madama nel 1909. Animatore della Filodrammatica di Castel Madama, ha messo in scena nel 1959 “La Leggenda della pera spadona”, un testo del quale è autore. Ha pubblicato nel 1991 Fòje, vocabolario di un castellano.
Alessandro Moreschini è nato a Castel Madama nel 1938 e vive a Tivoli da molti anni. Ha svolto attività lavorativa a Roma. È assessore all’Istruzione al Comune di Tivoli. Ha pubblicato le raccolte poetiche in italiano Camminare (1971 e, Sazio d’erbe amare (1976); e in dialetto Cuturuni cuturuni pe lla pallatana (1983), Casteju bbeju tuttu vantu (1986), E come chi non pare (1993), preceduta nel 1988 da E tu m’accordi (antologia poetica) in lingua e in dialetto, seguita da Taratabassuca (1995) e nello stesso anno da A chi sgòbba la gòbba a chi arobba la robba… (Proverbi, modi di dire, frasi idiomatiche, termini di paragone e soprannomi…). È autore del romanzo L’ultimo degli Equi (2000) e dell’opera in tre volumi Avviamento allo studio del dialetto nel comune di Castel Madama (2005).
Oscar Norreri, (Pergola, Pesaro 1875 – Cambiano, Milano 1945), nel 1903, venne nominato insegnante titolare nelle scuole inferiori rurali di Castel Madama, ove restò sino all’ottobre 1908. È autore del fondamentale Avviamento allo studio dell’italiano nel Comune di Castel Madama (1905; ristampato nel 1986).
Franco Sciarretta, è autore de Il dialetto di Tivoli. Nascita e sviluppo dall’età classica ad oggi (1999). Attualmente è il più profondo conoscitore del dialetto di Tivoli.
Bibliografia
Liberati, Emilio, Fòje. Vocabolario di un castellano, Associazione culturale Dedalo, Castel Madama, 1991.
Moreschini, Alessandro, Cuturuni cuturuni pe lla pallatana: poesie, Tivoli, Il Centauro, 1983.
Moreschini, Alessandro, Casteju bbeju tuttu vantu: poesie, testi anonimi, stornelli, proverbi, indovinelli, frasario, Tivoli, Il Centauro, 1986.
Moreschini, Alessandro, E tu m’accordi: antologia poetica, Tivoli, il Centauro, 1986.
Moreschini, Alessandro, E come chi non pare: poesie, Tivoli, Il Centauro, 1993.
Moreschini, Alessandro, A chi sgòbba la gòbba a chi arobba la robba: proverbi, modi di dire, frasi idiomatiche, termini di paragone e soprannomi…, Tivoli, Il Centauro, 1995.
Moreschini, Alessandro, L’ultimo degli Equi (romanzo), Castel Madama, 2000.
Moreschini, Alessandro, Avviamento allo studio del dialetto nel comune di Castel Madama (La lingua dei nostri avi), Edizione de “Il Centauro, Tivoli, 2005; in tre volumi: vol. I Grammatica, vol. II Antologia, vol. III Dizionario.
Moreschini, Alessandro (a c.), Statuto di Castel Madama, Tivoli, Edizioni Il Centauro, 1997.
Norreri, Oscar, Avviamento allo studio dell’italiano nel comune di Castelmadama, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1905.
Norreri, Oscar, Avviamento allo studio dell’italiano nel comune di Castelmadama, ristampa a cura di F. Sciarretta e A. Moreschini, Castelmadama, 1986.
Sciarretta, Franco, Il dialetto di Tivoli. Nascita e sviluppo dall’età classica ad oggi, Tivoli, Tipografia Mancini, 1999.
Luciani, Vincenzo, Dialetto e poesia nella Valle dell’Aniene, Roma, Ed. Cofine, 2007
Webgrafia