Ariccia (412 m slm – 17865 ab. detti Ariccini – sup. 18,36 kmq). A 26 km da Roma, nell’area Appia dei Colli Albani, a sud del lago di Nemi, circoscritto dal fosso di Cancelleria e dal fosso di Montagnano, presso la sorgente di Malafitto.
Il dialetto di Ariccia:
L’ariccino. Nella prefazione al suo Il dialetto di Ariccia Mario Leoni sostiene che la sua conservazione si deve innanzitutto alle asperità del territorio che hanno impedito una frequentazione con i paesi confinanti: “Questo relativo isolamento ha inciso nel dialetto tanto che nette sono le differenze tra la parlata di Ariccia e quella di tanti paesi vicini”. Importanti nella sua storia sono i Savelli che ricostruirono il Borgo e che con i nuovi abitanti provenienti dai loro feudi della Sabina hanno contribuito a far si che Ariccia, Albano e Castel Gandolfo hanno molto in comune nei loro dialetti che “si discostano nettamente da quello dei paesi della cerchia Nord, Nord est quali Marino, Frascati, Rocca di Papa, Nemi, Genzano e Lanuvio”.
Il Lorenzetti nel suo Progetto “I dialetti dei Castelli Romani: ipotesi sull’origine delle differenze”, Università degli Studi “La Sapienza”, Roma, 1999, avanza l’ipotesi della doppia suddivisione dei Castelli comprendendo Albano, Ariccia e Castel Gandolfo fra quelli che hanno dal punto di vista linguistico condizioni più vicine al romanesco. Poi, dice Leoni, “molte famiglie emigrarono ad Ariccia apportando tra l’altro diverse parlate che si sovrapposero al sostrato savelliano” e altri influssi esterni furono dovuti al ripopolamento effettuato dai Ghigi, successori dei Savelli, favorito da allettanti agevolazioni fiscali. Aggiunge Leoni: “la genuinità del dialetto ariccino è persa per sempre con l’avvento dei mass media; si assiste sempre più ad una sovrapposizione del romanesco, specialmente quello televisivo, sull’originario
dialetto.” E tuttavia il libro del Leoni raccoglie “una elencazione di quella che è (o era) la parlata degli abitanti di Ariccia almeno fino alla fine degli anni ’50 del XX secolo”. Il libro contiene elementi di fonetica. I più tipici: l’assenza di suoni dolci; l’indurimento di suoni esistenti e la trasformazione di altri rendendoli più aspri (malva/marva; la z è sempre dura in inizio di parola e raddoppia: zzampata, zzózzo); fa sempre scomparire la vocale i in inizio di parola se seguita dalla consonante n (’ncatena, ’nfangato); il raddoppiamento delle consonanti all’inizio delle parole elidendo la vocale; la fusione in una sola parola di due o più fonemi (nta do, ha ditto, ncia caccia: non te la do, lo ha detto o le ho detto, non ce la fa). Nella trascrizione di alcune poche parole Leoni fa uso della K: cannolikki (cannolicchi), canokkiera
(canottiera). L’elemento più vistoso è infine contrassegnato dal fatto che nessuna parola temina con la u a differenza dei paesi vicini di Nemi, Rocca di Papa, Frascati, Marino.
- I vocabolari e le grammatiche
Nel libro Il dialetto di Ariccia di Mario Leoni figura anche un vocabolarietto dal quale preleviamo i seguenti vocaboli:
accia (pezzo di filo), ammìccio (miccia), ancinàra (sbarra di ferro dove agli uncini sono appese le carni macellate), bbarco (parco), beccamollo (persona che mangia spesso), bbrandano o bbrandanaccio (secchio rotto), bbruciaculo (piccolo malanno), bbrigakkiere (brigadiere), cacalippa (paura molto forte), calìma (scintilla di fuoco, fiammella), cannafòja (foglie della canna che servono per lavori di legatura delle viti, dei pomodori e per altri lavori agricoli), caperchióna (persona sciatta, mal vestita), capiskiére (tavola rettangolare con i bordi rivolti in dentro che serve per trasportare pane e legumi in genere), cardìni (foglie carnose del carciofo), càrtica (foglia di pianta acquatica che, seccata, serve a tamponare le piccole perdite che escono dalle fessure delle botti o ai tappi delle stesse botti), catrinaccio (catenaccio), cavalletta (scorciatoia), ’ccantoscià (accostare, avvicinare), cenìce (carbone tritato), cercellétto (ramoscello di un grappolo d’uva), chiacchiera (malignità, novità), ciancinèlla (orecchino singolo), cianfróni (scarponi), coderóne (osso sacro), commànno (piccoli servizi espletati dai ragazzi; va a fa ’n commanno a mamma), fallétta (favola, favoletta), fascétti (fascine, in genere di castagno, che servono per riscaldare il forno per la cottura del pane), ffétta (fetta; filagne spaccate in due e usate per reggere le tegole del tetto), fichi (di san Giovanni, che maturano a giugno, gentili, primaticci che maturano a giugno, coccioluti, dalla forma rotondeggiante con buccia molto dura che maturano in agosto settembre, i secondi, fichi piccoli che maturano a fine agosto dallo stesso albero dei fichi di san Giovanni, settembrini o velletranelli, fichi san Pietro, rotondi, maturano a fine giugno), fitta (solco fatto con la vanga), fórco (misura di circa 10 cm che va dal pollice all’indice della mano), frégna mamma! (ma guarda un po’!), frégna moscia (gatta morta), fucèrdola (lucertola), garafóne (grosso bicchiere pieno di vino), gómmido (gomito), grastatelli (razza di lumache con il guscio verde-marrone di dimensioni medie), gregaròla (botte con capacità di circa 500 litri), iàcchelo (persona molto sporca), irre órre (parlare con poco costrutto), jótta (acquolina), lampà (lampeggiare, essere arrabbiato), lengherétto (spiritello benigno con sembianze di bambino che, in altri tempi, si aggirava per la casa facendo dispetti),’lluscà (intravedere, scorgere), luccicarèlle (lucciole), magnattara (brutta paura, riferita soprattutto a bambini), mazza (interiora umane), meróllo (frutto del gelso e fiore dell’olmo), manacca (manata a palma aperta), mmannato (fico che non matura perché è stato toccato o ha battuto contro i rami), mollìcolo (ombelico), ’mpicciagnùmmeri (persona che tenta di guadagnare usando mezzi poco leciti), ’ncrudolito (vivande cotte a metà che non possono raggiungere la cottura vera e propria), ’n culo’n culo (vicino vicino), ndovelle? (letteralmente: dove sono loro? per contrazione si ha: dove sono? oppure: fammele vedere), nzunzurrì (illudere), òpra (giornata di lavoro oppure unità di lavoro), pacca (mezzeria di confine tra due filari di viti), paparèlla (frutti neri del sambuco; venivano usati un tempo per rinvigorire il colore del vino rosso), pettignóne (parte bassa della pancia), pezzùco (legno appuntito e ricurvo che serve per fare buche nel terreno per poter poi piantare semi e/o insalata), pianàra (rivolo d’acqua che scorre quando piove a mo’ di fiumicello), pìttima (persona rompiscatole), pizzétto (genitale maschile, anche celletto), plotò (cassetta per frutta), ppallottà (fare a pugni), primótico (frutto che matura in fretta o bambino più sviluppato degli altri della stessa età), quélla fé!, quill’ò! (esclamazione: signora! signore!), ribbelà (sotterrare, coprire con terra), ribboccà (colmare, in genere botti e damigiane con vino), ribbudicchià (avvoltolare, arrotolare), ripitèlle (scuse; che va pe’ ripitelle?), ristrégne (purificare il vino mondandolo dalle fecce), riverzina (rovescio del lenzuolo sulla coperta), rógo (parte legnosa del rovo che spaccata ed essiccata serve per legare le viti), róncio (svecchiamento della vigna), rosichino (invidia), rosura (rabbia), rraganito (roco), ruzzicone (capitombolo), sbrillentato (allentato), scacàrcio (diarrea violenta), scafo (fava fresca), scafóni (fava secca), scantoscià (scostare qualcosa), sciacquatore (lavello), scincià (guastare i connotati), sciorno (persona sciocca), scurso (scivolato dalle mani), scutrinà (curiosare, spiare), sensélica (ascella), sfrajà (sbriciolare), sfrustà (defilarsi, non farsi vedere), sgofonato (persona di grosso appetito, anche sfonnato), sgorzata (quantità di liquidi, acqua o vino, da inghiottire in una sola volta), sgriciolatura (lesione superficiale della pelle), sguià (avere le membra a pezzi), sperà (sperare; guardare le uova in controluce per accertare che siano fresche o il vino per controllarne la limpidezza), spelluccà, togliere i petali dai fiori dai gambi. Tagliare le pellicine delle mani e togliere i peli superflui), spiano (abbattimento periodico ogni 15-20 anni di una parte del bosco di castagni), spuntèrbo (pezzo forte esterno delle scarpe), stracino (carro trainato da più bestie con timone snodabile), stregolà (strofinare con forza; rotolarsi per terra), strina (tramontana), subbìsso (molto), subbullìto (prodotto agricolo deteriorato dal troppo caldo), susta (corda che serve per stringere il carico sul carretto), svacolà (liberare i legumi dal baccello), tata (mio padre) terraccióne (terreno arido da lavorare), tresesmarino (rosmarino), tritèllo (mangime per polli), trubbiangiallo (trebbiano giallo, tipo di vitigno), tùtero (pannocchia di mais), va freghènne! (Ma lascia perdere! Non ti interessare!), zzàcchera (terra che si attacca alle scarpe in quanto umida), zzappo (becco, maschio della capra), zzazzà (stare allegri), zzicchià (sobbalzare, sussultare).
- I proverbi e i modi di dire
Modi di dire tratti da Il dialetto di Ariccia di Mario Leoni:
A Fa’, è inutile che fa, tanto ssé fava tèe nun me fao (O Fabio, è inutile che insisti tanto le tue fave non mi piacciono); a quilla casa tèo puro ’o latte d’a formica (in quella casa non manca proprio nulla); a quillo cé féta puro ’o gallo (a quello anche il gallo fa l’uovo. Si dice di persona molto fortunata); ce batte pure de ruga (vuole insistere per forza); che te s’è scioto’o mollicolo (come mai hai tanta fretta?), che te vò fa tirà a carzetta? (che vuoi che faccia per convincerti?), curre comme o cavallo di Quinzio (chi, pur avendo delle qualità, non riesce a superare un’impresa, come il cavallo di un certo Quinzio Giuliani); è bello de piazza e triduo de casa (fa il bello in piazza e il mascalzone in casa); è mejo fa a cure co ’n lepre che a parlà co ttì (è più facile battere una lepre nella corsa, che avere la meglio discutendo con te); è più farzo de scarpe che porta (persona molto falsa); è stata ’na zzinnàta gattiva (quello è cresciuto male); fa comme Agabito che partì ’o lunedì e tornò ’o sabbito (allusione all’irritante lentezza nel fare le cose, proprio come tale un Agapito); fa comme ’o sumaro de Giachimone (essere ripagati in egual misura in seguito ad un torto ricevuto. Come il somaro di Giachimone che dava e riceveva calci in egual misura dai suoi simili); fa conto a tre castagne a riccio e trovà solo cucchiarelle (preventivare di trovare tre castagne per riccio e invece trovarne solo due. Essere sconfortato per il fallimento di un lavoro); gente nnominata, sta longa ’na sassata (le persone delle quali si parla, sono proprio vicino a noi); ha fatto l’abbìsso (ha dato in escandescenza); ha fatto ’o fume (è scappato via di corsa), java currènno a cappèllo ’n pètto (correva velocemente); l’acqua vè ggió a campane doppie (piove a dirotto); l’hao bbadizzato! (l’hano battezzato cioè l’hanno suonato!); me pàreno Pacì e Carò (sono due amici inseparabili); mèttese a panzétta (mettersi supino, con la pancia rivolta verso il sole); mettete a zzezzè (rivolto a un bambino: mettiti a sedere); ’ncia caccia (non ce la può fare). ’ntanto tu opri ’a fitta (intanto prepara il terreno); o cucco scucca (ti ho visto anche se cerchi di nasconderti; si allude al cuculo che cerca di passare inosservato); o culo me fa cacalìppa (dalla paura mi si stringono i muscoli); oggi tira ’o sgrignarèllo (oggi tira un vento di tramontana); quillo me pare’n cecio rifatto (si dà delle arie. I ceci messi in acqua aumentano di volume); panza piena’n crede quella vòta (chi sta bene non sa cosa sia la miseria); pé gattivo nno lascià, pé bbòno ’n t’o pià (non lasciare una persona che sembra cattiva per un’altra che giudichiamo buona perché le apparenze possono ingannare); quillo puzza d’ammiccio (persona di carattere facile ad infiammarsi); rimanè come a gallinaccétta de sóra Nunziata (la quale aveva un tacchino che super nutriva per fargli la festa, ma l’animale morì per indigestione; significa che una persona fa fatica ad alzarsi dopo una gran mangiata); sa che fascettàra fa oggi (chi sa che caldo farà oggi).
E dalla stessa fonte i proverbi:
’chi consèrva quanno tè, magna quanno vò (chi conserva quando ha, mangia anche nei tempi di carestia, ovvero è meglio fare la formica); chi scassa disegna, chi prapàggina vennégna (è meglio l’uovo oggi che la gallina domani); è mejo lavorà con chi ’nte paga che parlà con chi ’nte capisce (è meglio lavorare con chi non ti paga che con chi non ti capisce); nun èsse troppo amaro che te spudo, nun èsse troppo dorce che te sugo (cerca di essere una persona equilibrata); va ’n piazza a pià conzìo, torna a casa e fa comme tè pare (prendi consiglio e decidi da solo).
- I toponimi e i soprannomi
Nel suo Il dialetto di Ariccia Mario Leoni dedica alla toponomastica tre capitoletti:
1) vecchie località ariccine che sono citate nel libro di Emmanuele Lucidi del 1796 Memorie storiche dell’antichissimo municipio ora terra dell’Ariccia e delle sue colonie Genzano e Nemi. Citiamo: Fajola, il Bove, Formale Orto dei Selcioni, Il Gallinaro novo, Il Ghetto, La Braccheria, la Tenuta di Postinadanni, La Conigliera le tenute di Conca e Campomorto;
2) località ariccine attuali. Tra queste segnaliamo ’o Stallone, ’a Croce, ’a Portella,’a Concia, ’a Cilindrata, ’i Scaloni;
3) terreni e boschi di proprietà dei Principi Chigi in Ariccia nel sec. XIX che hanno cambiato denominazione nel XX secolo.Tra queste Pascolaretto o Fontanile, Fontana Nuova e Pascolare, Papale, Mola, Quarticciolo, Porche, Lunghe, Santóni, Vitellara.
Ecco una scelta di soprannomi ariccini:
L’Assodecoppe, a Babbiona, Bbadecacca, o Baoso, Bbellagiornata, Bbiecchebiecche, Bboccademachina, Bboccaderospo, Bboccatafani, Bbottagallinacci, Bbrandano, Bbruttafera, Bbuiaccarodepaluzzi, Cacabreccia, Cacamiracoli, Cacanoi, Cacasigheri, Carci’npetto, Cartavelina, o Catronzolo, Cazzo ’nzomma, Cianche de fava, Ciancicarecchie, Corna d’oro, Culolento, Dominusteco, Fammentrà, Ficanera, Fionnammerda, a Fregna elettrica, Fronfro, o Gufo de Montagnano, Gullegulle, Lippeloppe, a Loffantica, Manina ndru ndru, Mariadetutti, Millezecche, Mizzamozza, Muccodebronzo, Nanettodepizzosecco, Nanninelladaetrezinnette, Nasodubbotte, Neppeneppe, Nucchenucche, Occhi de cotone, Panza de vermi, Passerozzuppo, o Pperipperò, Peppedemamma, Pisciarosoglio, Pompammerda, Pupacjuca, Schiattapechera, Sciacquapippe, Setteculi, Sgruppamentuccia, Spanzasumari, Spisciabottije, Tinghetetonghete, Tripparsugo, Vagadepiommo, Zzigorondinoscocciacojoni.
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
4.1 Canti
Stornelli riportati in una descrizione del 1910 della processione a Galloro chiamata della “Signorina” (in ricordo della liberazione della peste del 1656) il giorno dell’Immacolata, ad opera di don Girolamo Pecchiai:
A la melella / ’Faccete a la finestra càndita stella / Chè ll’aria dé sera té fa bbella. Fiore d’annéto / Chi tté sé goderà, ssangue bbeato? / Chi tte lo metterà l’anello ar déto. // Le stelle de lo cèlo so quaranta / Lo pecoraro le pecore cunta / Quella che ccerco io sempre ciamanca. // Vova che cciabbitéte pe’ la piazza. / Lo sentéte l’arloggio quanno tòcca, / Sentéte ’r vostro amore quanno passa. // Vova che ssete palida dé viso, / Vé cé vorebbe un amoroso bacio / Pe’ ffave mette’ li colori ar viso
Alcuni stornelli tratti da Canti popolari Romani di Giggi Zanazzo, Torino, Società Tipografico-Editrice Nazionale, 1910:
979 – Jo dé stornelli ne saccio ’na brocca; / vajo stillanno chi vvò ll’acqua fresca, pe’ ddà’ la minchionella so’ fatt’apposta. 982 – E mme ne vojo i’ verso Livorno, / ’ndove le dònne dé bbôn cor la danno / a cchi la bbôna sera a cchi ’ bôn giorno. 984 – A Roma, dico / a Roma ce lo tiengo lo ’nnammorato; / ma sse n’annam’ Arbano a ppïa marito. 995 – A lo mi’ amore cé s’è ritirato / tutto lo corpettino dé velluto, / perché la madre nun ce l’ha stirato. 996 – Fior dé granùcoli (ranuncoli), te rissomiji a ccaca miracoli, / s’è ito a Vvallericcia (il cratere presso cui sorge Ariccia) a ccoje i tùteri. 999 – Dé ritornelli ne saccio ’na grégna, / mé l’ha ’mparati mamma a la vampagna, / pe’ ccantévveli a vvoi, bboccuccia degna. 1000 – Dé ritornelli ne saccio un bigonzo / mé l’ha ’mparati nonna da Porto d’Anzo, / e io li canto a vvoi, mucco (viso) de bronzo. 1002 – Tutti li sassi che stann’ a la Rocca (forse Rocca di Papa) / Te li vojo tirane tutti ’n faccia, / Marchicianaccio, de la Marca sporca. 1008 – Fiore d’anchènne (anchina), / vé sere messa a ttemperà’ le penne: / Pe’ ttemperà’ la mia, quannno sé spenne? 1009 – Zitelle, nun vé pijete (sposate) l’Arbanesi: /fanno li ggiuramenti sprepositati, / danno le moje a vvettura (in affitto) a l’ingresi. 1010 Fiore dé céci, / li ’Ricciaroli so’ tutti arrabbiati / de’ ffasse ’na magnata ad’Arbanesi.
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Esclamazioni e imprecazioni da Mario Leoni:
Bbùttete a nnùmmero nove! (buttati dal punto più alto del Ponte di Ariccia, all’arcata numero nove); ’o mpicchéssero all’ancinàra! (l’uccidessero e l’impiccassero agli uncini come i maiali); ma datte ’na chiodata ruzza! (Cerca di farla finita! Letteralmente: datti una chiodata arrugginita in fronte); te piésse ’n corpo a tì e quanno ribbatti l’òcchi! (potessi morire subito, da non aver tempo nemmeno di battere ancora una volta le ciglia); té caccio’o fritto e tó métto mmane! (ti apro il ventre e ti metto le interiora in mano); ma chi te sé ’ncula a Banca Romana? (Non ti filo proprio. Allusione al fallimento della Banca Romana agli inizi del XX secolo).
4.3 I giochi
Battifónno (gioco di carte con tre coppie di giocatori. Giocano prima due coppie e la vincente incontra la terza che, nel frattempo, è stata a guardare).
Caròzza (gioco che consiste nello scivolare da un pendio su un asse piantato su due legni trasversali sui quali alle estremità sono stati montati due cuscinetti a sfera).
4.4 La gastronomia
In Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, ricordiamo un brano giustamente noto e apprezzato sulla porchetta di Ariccia.3
3 “Fàmese avanti co li baiocchi a la mano, sore spose! Chi nun magna nun guadagna. Uno e novanta l’etto, la porca! Carne fina e dilicata, pe li signori propio! Assaggiatela e proverete, v’ ’o dico io, sore spose: carne fina e saporita! Chi prova ciariprova, er guadambio è tutto vostro. La bella porca de li Castelli! L’emo portata a balia a la macchia: a la macchia de Galloro, l’emo portata, a mmagnà la ghiandola de l’imperatore Caligula! la ghiandola der principe Colonna! (…) La bella porca, signori! porchetta arrosto cor rosmarino! e co le patate de staggione!”
- I testi in prosa: il teatro, i racconti
Non trovato materiale
6. I testi di poesia
Mario Dell’Arco, di fronte alla chiesa berniniana dell’Assunta, ricca di angeli di stucco e di una cupola che si rifa al Pantheon (la Ritonna) così canta:
Sopra a una bancarella de casuppole / scucco la più minuta de le cuppole. / Un cocommero. Ar primo temporale / un lampo ce fa er tasto e sorte fora, / coll’ale aperte, ancora / incerte ar volo, un angelo de stucco.
Mario Cianfarelli, è autore di Poesie dialettali di Ariccia (1984).
Mario Cianfanelli, è autore di Poesie dialettali di Ariccia (1984). Nel sonetto proemiale, in italiano, della sua silloge si definisce“Mario il Gigante di Ariccia” e della sua poesia dice: È in dialetto ariccino chiaro e bello / che dolcemente talora s’intreccia / con quello semplice d’ogni Castello. // Son versi liberi, spontanei, sciolti / senza velleità di ritmi o rime. / Così dal cuore mio tutti li ho colti.
Un brano da una poesia scelta dalla raccolta e intitolata “Nun se chiama più la Stefer ora se chiama A.CO.TRA.L.”:
"A li tempi che ce steveno li tranvi / che ce porteveno a Roma stessime tutti seduti / e l’ari tranvi faceveno servizio pe i Castelli // lo tranve cammineva in cima alle rotaglie / era elettrico e c’era la motrice e lo rimorchio / teneva n’asta de ferro che se chiameva trolle // a ogni paese c’era la sala d’aspetto / po quanno isso teneva da arrivà ’n cima so palo ce steva ’n blocco / che segneva giallo quanno isso era partito / e segneva roscio quanno era in arivo // da quanno avo cambiato li tranvi, mo ciavo messi l’autobusse / so sempre pieni perché ’na vettura è poca / e chi te da ì a Roma non trova mai da sta’ a sedene // quanno c’ereno i tranvi iavi posato / nun c’ereno le frenate che te deveno mo ’n pulmann / nun c’era tanto sbattimento e iavi posato // mo ’nvece che stemo all’era de o modernismo / stemo a spettà ’n piazza o pulmann che è pieno / stemo a batte i piedi da lo freddo // le pensiline stavo pe le città e no pe li paesi / perché novatri paesani pe a maggior parte semo contadini / e alla società nun ce ne frega niente…"
Da Mezzaluna di poesia dialettale. Premio di poesia dialettale Sabina, a.c.d. Osvaldo Scardelletti, Mentana, Centro sportivo Mezzaluna, 1989, una poesia, classificatasi seconda a quel prestigioso premio, della poetessa ariccina Maria Bozzi:
“’Na staggio’ de la vita”: L’autunnu s’avvecina. / L’arberu de li sogni / già se spogghia / e pe’ ’gni fogghia / che s’aretorcina, / lu core s’acciagogna / e vasi more. // Po’, rassignatu / s’appennnicherà, / pe’ poté sognasse / lu primu sole / che l’aresvigghierà!
(s’aretorcina : si accartoccia; s’acciagogna: si sgualcisce)
Antologia
Cenni biobibliografici
Bibliografia
Leoni, Mauro, Il dialetto di Ariccia, 1999
V. Luciani e R. Faiella, Castelli Romani e litorale sud. Dialetto e poesia nella provincia di Roma, Roma, Ed. Cofine, 2010
Giovanni Papanti(1830-1893), I parlari italiani in Certaldo, Livorno, coi tipi di Francesco Vigo, 1875; versione della nov.I, 9 del Decameron, alle pp. 392-3
Webgrafia