Voce del verbo mare di Simone Consorti

Nota di Anna Maria Curci

 

Il lamento incessante del mare

la più sorda la più disattesa

di tutte le preghiere

(p. 64)

 

Voce del verbo mare

Sta nel segno della voce inascoltata del mare la raccolta più recente di Simone Consorti, Voce del verbo mare (Arcipelago itaca 2022).

Presenza costante in tutte le opere del poeta, narratore e drammaturgo romano, l’acqua, distesa sterminata, onda lenta o burrascosa, superficie riflettente o, in una pozzanghera, istantanea di mondi e di storie, l’acqua si addensa qui sugli orli e nelle profondità del mare.

Al suo fluire sommesso oppure fragoroso, il mare – sostantivo maschile in italiano, femminile in francese, come ricorda l’autore nella sua Nota – attraversa, lambisce, bagna e oltrepassa, aggiungendo motivi ulteriori, i temi e i topoi della poesia di Simone Consorti.

Il repentino rovesciamento del senso comune, la capovolta ironica, la battuta che scaturisce spesso dal cambio di consonante o di vocale, dalla sottrazione o dall’aggiunta di una sillaba, sono manifestazioni di una quieta, ma perseverante ribellione alla direzione unica del pensiero e del suo lavoro/lavorio di decodifica, classificazione e interpretazione delle percezioni, di ciò che il nervo ottico, per esempio, coglie e invia al ‘sistema’ cerebrale per essere rielaborato.

Se ci si fermasse, per riassumere il tratto distintivo della scrittura poetica di Consorti, alla de-finizione (e, di conseguenza, de-limitazione) di gioco di parole, gusto per il calembour, si ignorerebbe volutamente, e colpevolmente «il lamento incessante del mare/ la più sorda la più disattesa di tutte le preghiere», l’interrogazione permanente, dunque, l’appello, la chiamata, l’invocazione che è anche esortazione ad osservare attentamente, più attentamente, a cambiare prospettiva o, ancor più precisamente, a moltiplicare le prospettive.

Il titolo della raccolta coincide con quello di un componimento presente nella seconda delle due sezioni (che si intitolano rispettivamente Ti ho dato appuntamento senza dirtelo e Mentre Dio faceva il suo dovere) nelle quali è articolato il volume: Voce del verbo mare (p. 86).

Qual è il vero infinito? Questo si dibatte nelle due strofe della breve poesia. Quale infinito? Quello leopardiano o il modo del verbo? Davvero una scelta esclude l’altra? E se c’è un verbo “mare”, esso è forse “amare” senza alfa privativo?

Il mare è motore inesauribile di percezioni e interpretazioni, agisce come lievito formidabile sulle evoluzioni delle immagini, come nel celebre quadro di Hokusai, che balza in primo piano nella poesia di p. 85, Hokusai (La grande onda): «Con tutta quella schiuma come neve/ certe onde mi sembrano un monte/ anzi la valanga/ di un intero mondo che un po’ nevichi/ e un po’ pianga».

La rima finale, consueta per chi frequenta la scrittura poetica di Simone Consorti, oltrepassa la similitudine iniziale “spuma del mare – neve” e, come onda irrefrenabile, si fa allegoria di un mondo sballottato tra precipitazioni atmosferiche e irruzione del dolore.

Eppure il mare sa opporre somma, olimpica indifferenza a chi si ostina a studiarlo con devozione costante: Presente soltanto a se stesso recita il titolo della poesia di p. 92. «Più lo studio e più lo invidio e più lo odio/ perché il mare è sempre uguale/ indifferente ad ogni contrattempo/ anche quando un aquilone abbozza il sole/ o l’uccello che sfidava il cielo/ viene trattato da Icaro/ arso in pochi istanti come un sigaro» ne è l’attacco eloquente.

Nella terza delle Tre riflessioni nel mare, “sua enormità” il mare contrappone l’insaziabilità delle sue onde alla precarietà delle impronte dell’io lirico: «Eppure per saziare le tue onde/ hai bisogno di mangiarti le mie orme».

La prospettiva ‘privilegiata’ al cospetto del mare non ottunde, ma, al contrario, arricchisce la prospettiva dinanzi alla storia, al suo fluire e alle sue contraddizioni.

Già nella prima sezione il testo Hindenburg, con l’anafora del «Tutto sta» (p. 17) ripercorre le tappe di ‘sfruttamento di tempi, di crisi e di occasioni’ da parte di colui che, dal primo conflitto mondiale alla fine della repubblica di Weimar, tanta parte ebbe nell’esercizio repressivo del potere.

Sempre nella prima sezione, le poesie Lorca (p. 20) e Thomas Bernhard (p. 31), composte come se fossero scritte rispettivamente dallo scrittore spagnolo e dallo scrittore austriaco, mettono in evidenza che la testimonianza della poesia nella storia è traccia di un pensiero divergente, e come tale perseguitato e punito, nel caso di Garcia Lorca fino alle estreme conseguenze, nel caso di Thomas Bernhard con una emarginazione di fatto, dal periodo trascorso allo Steinhof – di cui è possibile leggere, tra l’altro, nel suo libro Il nipote di Wittgenstein – agli ultimi mesi della sua vita, in cui si metteva in scena l’opera teatrale che rappresentava l’atto d’accusa più lucido ed esplicito al nazismo permanente e pervasivo dei suoi conterranei: Heldenplatz, “Piazza degli Eroi”.

Un altro personaggio storico offre una visuale ‘dall’alto’. Dal punto di vista di Gagarin (p. 30) la Terra «in fondo è solamente un quadro astratto/ senza uomini o donne che spuntino/ fuori dalle loro ombre di soppiatto». Anche qui, come nelle poesie ‘storiche’ precedenti, la morte si affaccia come cancellazione, in un dissolversi di consistenza e di coscienza: «E mi sembra già di non vedermi/ quasi fossi incapsulato nello spazio/ o mi avessero mangiato i vermi».

Al protagonista di uno dei più scottanti tra i misteri d’Italia, una vicenda che divenne punto di svolta tragica della nostra storia negli ultimi venti anni dello scorso secolo, dà voce L’ultimo sogno di Moro: «Hanno preso Dio in ostaggio/ e chiesto me/ in cambio» (p. 62).

A una morte forse meno famosa, a una fine repentina e drammatica si riferisce una poesia tra le più significative della raccolta, dacché essa ne tesse insieme efficacemente molti filoni tematici: le biografie individuali, le letture, la Storia che entra di prepotenza nelle singole esistenze, le opere dell’ingegno umano, lo slancio, alto e profondo, dell’azzurro. Incentrata sulla vicenda di Concezio Petrucci, architetto “del regime” durante il ventennio fascista, ma con scelte nella vita pubblica e privata che lo portarono a essere visto con sospetto, è La Torre di Abele. Un ribelle, un dissidente in sordina, con una fine tragica; dopo essere riuscito a proteggere dalle persecuzioni la moglie tedesca, Hilde Brat, ebrea, facendola passare per l’istitutrice francese della figlia Flaminia (che nel 2004 narrerà la vicenda in Uova di luce; già nel 1975 suo marito, Enzo Siciliano, ne aveva scritto in La notte matrigna), dopo essere sfuggito a chi voleva vendicarsi del suo rifiuto di entrare nella Repubblica di Salò, Petrucci morì tragicamente il 25 marzo 1946, colpito da un lancio di sassi dal ponte, mentre vogava sul Tevere. Ma la sua Torre di Abele – la disobbedienza alla prescrizione del regime fascista, secondo la quale la torre littoria doveva essere l’edificio più alto, non superato da altri – rimane: «Ma una cosa l’ho fatta alla luce del sole/ costruire un campanile più alto/ di una torre littoria// Nel cielo capovolto/ l’azzurro non cola/ ma vola». Come la coscienza storica si accompagna sempre alla coscienza narrativa, pungolo irresistibile alla creazione di storie nella scrittura di Simone Consorti, così questa è resa più vivida dal gioco di impressioni e riflessioni, messe a fuoco e capovolgimenti, così che le geometrie delle architetture geniali e disobbedienti di Petrucci (si pensi, per esempio, a Segezia, a 10 km da Foggia) si incontrano con gli amanti in volo e il cielo di un quadro di Chagall.

Simone Consorti, Voce del verbo mare, Arcipelago itaca Edizioni 2022