Umbrarma di Stefano Marino

L'introduzione di Giovanni Tesio alla recente silloge. E una scelta di poesie

 

L’editore Carabba ha pubblicato nel mese di settembre 2022 la silloge Umbrarma di Stefano Marino con una Introduzione di Giovanni Tesio nella collana “Diramazioni” da lui diretta e che qui di seguito siamo lieti di riproporre.

 

Stefano Marino: la vita (e l’anima) tra ombra e luce

Basterebbero i due nomi di Loi e di Tomiolo a fare macchia. Stefano Marino è “cresciuto” (cresciuto poeticamente, perché per il resto ha ben saputo fare da sé) all’ombra loro, o meglio, forse, sotto la loro ala, al loro esempio, allo stimolo che ne ha avuto, al pungolo che lo ha mosso a “dittare”. E a dittare nel suo calabrese asciutto, asciutto com’è la sua scrittura, che riesce davvero essenziale. Loi e Tomiolo, gente di vita dello spirito, uomini (e poeti, e artisti) “angelici”, persone di veggenza e fuochi di passione, e quindi un mondo dietro due nomi a fare il tessuto di un poeta vero.

Il calabrese di Marino ha profonde attinenze storiche con il messinese, visti i rapporti così stretti che lo Stretto – lungi dal separare – ha invece reso più fitte e vivaci: una sorta di dialetto-rema, se per “rema” si definisce – come annota Marino in un suo testo – il flusso e riflusso del mar Tirreno e Jonio nello stretto di Messina. Alcuni fonemi – dice Marino – appresi in una famiglia che obbligava i figli all’italiano – dai litigi dei genitori che disputavano nei loro dialetti; il padre di Bovalino Marina (ma di origini messinesi), la madre di Taurianova: striature e coloriture di provenienza provinciale, ma il tutto fortemente avvinto – consule il grande Rohlfs – alla dorsale reggina, e dunque diverso dalla mappa delle altre parlate della Calabria settentrionale.

Il libro si dispone in due sezioni: la prima, Amuri e malamuri, sembrerebbe affrontare un argomento che è essenza di vita, condizione di senso cui la vita resta aggrappata e a cui il verso dà voce: voce di gioia, voce di amarezza, voce di passione, voce di dolore, voce di abbandono, voce di accoglienza, voce di distacco, voce di nostalgia, voce di desiderio, voce di seduzione, voce di sbaglio, voce di abbaglio, voce di comunione, voce d’ombra, voce di poesia.

La seconda anta – la seconda sezione – è Bampugghi, che ha un valore assai diminutivo e allude a quei “trucioli”, che non si sottraggono al doppio senso: da un lato i trucioli della vita stessa, la falegnameria dei nostri gesti, dei nostri sentimenti, delle nostre indignazioni (facit indignatio…) convertite in satira, le piccole cose di cui è tramata la quotidianità in tutta la sua estensione di realtà; dall’altro lato la misura del verso, l’altra falegnameria, quella in cui consiste il “poiein” del poetare, il fare col poco, il fare a poco a poco, di volta in volta, cogliendo le occasioni che la vita offre, senza mai presumere (e forse nemmeno del tutto supporre) che i versi nati – scritti d’occasione – siano in tutto degni.

C’è tuttavia un sottilissimo legame tra le due sezioni, perché l’amore (con il suo sovescio) che pure è della vita così tanta presenza, finisce per risultare fatto anch’esso di trucioli, vale a dire per lasciare sul campo quel che resta di passione, di attrazione, di carnalità, di sensualità, di erotismo, di sentimento, di emozione, di fallimento, e tutt’insieme, dirò, d’anima e di cuore, endiadi spesso convocata.

Il libro di Marino è giocato così, quasi di controbalzo, con una discrezione che è certo dell’uomo prima ancora che del poeta, il quale altro non fa che corrispondere a una coscienza sgombra d’ogni presunzione. E in questo senso anche la scelta o l’elezione dialettale trova la propria dimensione, la propria collocazione, il suo habitat. E il confronto dell’autenticità è presto fatto, non tanto in ragione dell’assiduità con cui Marino ha coltivato quasi in segreto il suo orto o giardino (ricordo il lontano esordio di Umbri, 1992, avvenuto nell’accogliente collanina monregalese di Boetti&C. Editori, che allora dirigevo), ma piuttosto in ragione di un ductus poetico che si dispone secondo l’insegna di un orecchio avvertitissimo, ben dimostrabile a contatto con una traduzione italiana, che sempre o quasi sempre ne dispone diversamente le parti. Una traduzione, insomma, che rovescia più che spesso la disposizione delle parole dialettali, distinguendosene nettamente. Una traduzione, insomma, che non cerca corrispondenze e parità, ma che mira, al contrario, a stabilire differenze e alterità.

Il primo testo è introduttivo e dice subito ciò che conta mettendo in scena un tu indistinto, che è tuttavia così prossimo all’auto-vocativo, per via di quell’andare “ramingu” e “rintra”, che è poi l’andare della stessa poesia dello stesso poeta che convoca se stesso in un richiamo, che anche un avviso di poetica in esercizio: il suo ramingare dentro, il suo cercare nel “misteru ‘gghiommaratu”, il mistero aggomitolato che si nasconde, non parla, non si placa e non si scioglie, in quel mare (continuamente richiamato: “Ll’arma sana u mari calamita”: L’anima tutta il mare attrae), che è pieno d’onde, di vento, di estensione e di gridi, in un continuo gioco di luci e di ombre, in un disastro – anche – di vite ingurgitate, che spingono la poesia verso cadenze d’indignazione e di protesta, ma anche di alta – non patetica – trenodia.

Nell’interiorità degli sprofondi, “‘n cerca ri ll’arma ri picchì”, s’accende la coscienza di un rapporto di contiguità e di comunità, la prossimità che ci rende umani o che dovrebbe renderci umani in un comune sentimento dello scacco, e della necessità di farsi reciproci.  In questo universo così aperto e così intimo, “arma” (anima) diventa parola-chiave, una delle più frequenti, delle più impalpabili, delle più – forse – debitrici, se solo penso al testo di dedica a Franco Loi, che ne è stato – ripeto il forse – il suo portatore, colui che più deve avere alimentato il bacino di una riflessione poetica qual è quella di Marino. E che Marino riesca a coniugare nel più perfetto ossimoro, nella sua poesia altamente indiziario: “firrïa scura luci ‘nta so arma” (oscura luce fruga nella sua anima). Almeno quanto fa ossimoro un altro verso sintomatico: “O Carni chi si ll’arma ri stu mundu” (O Carne che del mondo l’anima sei).

Lui, Marino, non forza mai la metafore e segue piuttosto realistiche allegorie, simboli di forte legame realistico: la pietra, gli occhi (moltissimo gli occhi: un solo esempio tra i tanti, che è l’amore “per gli occhi” di lontana tradizione poetica: “Liggìa ll’occhi tò, sunnu facili”, Ho letto i tuoi occhi, sono facili). E ancora: il gheriglio, la mosca, due scarpe, lo specchio; un’adesione al comune sentimento delle cose, l’importanza che le cose hanno nella vita nostra. E così connaturato a un mondo che lo necessita mi pare che suoni un verso dall’apparenza estrema, quasi barocca: “ri munti muffa sup’ ê manu mei,/ i ddu niru chi nc’è sutt’a caddara” (muschio di monte sulle mie mani,/ di quel nero che c’è sotto la caldaia).

Aperta adesione alla vita  – in Marino – di cui l’amore è il legame, il comburente. Ed ecco che l’amore vive delle stesse vicissitudini che il mare della vita squaderna, vive nei rapporti che esultano, negli animi che condividono, in quelli che si attraggono, in quelli che si respingono, in quelli che si ingannano, in quelli che si annusano, in quelli che si sfiniscono, in quelli che non durano, in quelli che si disilludono, in quelli che protestano, in quelli che resistono.

Una casistica amorosa vissuta dentro un io che non si cela, ma si mette in gioco e che della propria storia amorosa fa confessione e denuncia, segnando tanto la sua energia quanto la sua pochezza e il suo errare: ancora il suo ramingo andare in una riflessione spietata, lontana – se non per eccezione – dall’incanto e dall’elegia, entro cui per altro consentirei ad annettere gli esiti dell’amore che mi pare di poter definire coniugale, ricordo straziato di una vissuta tragedia.

Ma di tutti vorrei dare un esempio solo, perché mi pare che stia tra i più alti esiti, tutto inciso com’è nei suoi salti visivi: immagini che s’intrecciano veloci in un’esplosione finale, risplendente: “A voci toi singa stu silenziu/ a murra viatu brìsciunu singati/ e si jettannu rìndini ri sghìnciu./ Na musica chi canta assicuta/ anita schetta duci tò parrata/ e poi ra tò ‘rrisata u prèju/ chi nta ll’aria n’ibiscu russu schiuppa” (La tua voce questo silenzio segna/ in massa svelte nascono figure/ e rondini si lanciano per sbieco./ Una musica che canta insegue/ la tua parlata assieme schietta e dolce,/ e poi dalla tua risata la gioia/ che nell’aria un ibisco rosso esplode).

Ancora e sempre la poesia di Marino scandaglia il pozzo dell’io con la consapevolezza di non poterne attingere il mistero, ma anche sa cogliere – nel gioco drammatico delle parti – il segnale di quella musica distante che di tanto in tanto può affiorare con i concreti colori di una gioia d’anima, di un silenzio che parla, di una luce che viene dall’ombra, di una voce che sa cantare.

Giovanni Tesio

 

 

II

 

Nta catrica ri mè occhi t’appuntasti

e chiḍḍu chi vivìa m’arricriau.

 

 

II

 

Nella trappola dei miei occhi ti sei fermata

e quello che ho vissuto di nuovo m’ha creato.

 

 

III

 

Jalusu ri mè occhi sugnu éu

ca quandu non t adduni ti talïu,

sbarrogu esti tò singari ll’aria

c’a tò figura linda chi m’ allampa,

’bbentatu sognu e mai chi vinni.

 

 

III

 

Geloso dei miei occhi sono io

che quando non t accorgi ti scruto,

stupore è il tuo disegnare l’aria

con la tua figura elegante, che mi intontisce,

un sogno presentito e mai avvenuto.

 

 

VIII

 

Vuliva pi rialu nu mumentu

nta ttia i mi levu tò pinzera,

com’umbri undi χàtanu n’ o sàcciu,

spïandu ntra sipala r’a tò arma.

Cogghiri ll’impossibbili ch’è spersu

i mi ndi fazzu pani r’u mè mundu,

chi na sorti ri mùffura scurdau,

sta mè palora o ventu lamprari,

chi non poti non sapi  mi s’ammuta.

 

 

VIII

 

 

Vorrei come dono un momento

dentro di te per rubare i tuoi pensieri,

com’ombre dove respirano non lo so,

spiando fra la siepe della tua anima.

Raccogliere l’impossibile ch’ è smarrito

per farmene pane del mio mondo,

che una sorte di nebbia ha dimenticato;

questa mia parola stendere al vento,

che non può e non sa zittirsi.

 

 

XVI

 

Quand’Angelu ti baḍḍa pàcciu rintra

i pinna ri fulea trantul’esti,

chi ndi faci prisuni ri nu spilu,

e si fora ri tia spatrunatu,

nu sonnu ch’esti mpisu supa n’unda,

palori ch’ammunzeḍḍa murr’a murra,

chi si stricanu strèusi ntra r’iḍḍi

brisciuti ri n’idia, leccu fundu,

stramenti vìgghia ll’arma semp’aḍḍirta

e spila toi certi ’ddivintaru.

 

 

XVI

 

Quando l’Angelo ti balla pazzo dentro

è brivido di piuma di nido,

che ci fa prigione di un desiderio

e sei straniero a te stesso senza padrone,

un sogno che sta appeso sopra un’onda,

che parole ammassa mucchio a mucchio,

che strambe limonano fra loro

nate da un’idea, eco profonda,

mentre l’anima veglia sempre attenta

e i tuoi desideri certezze son diventati.

 

Stefano Marino nato a Reggio Calabria nel 1936, dal 1961 vive a Milano. Scrive in dialetto reggino. Ha pubblicato nel 1992 Umbri (Boetti & C. Editori, Milano). Nel 2001, Parrasulu-Parlasolo, (Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003) e Mùffura (Interlinea Edizioni, Novara, 2013). È inserito in numerose antologie tra cui: Via Terra antologia di poesia neodialettale, a cura di A. Serrao; Il pensiero dominante. Poesia Italiana 1970-2000, a cura di F. Loi e D. Rondoni.