Pubblichiamo l’introduzione di Pier Mattia Tommasino a Tunnicchje. A poddele d’a Malonghe. Interpretazione lucana
di Le avventure di Pinocchio, di Assunta Finiguerra,
con illustrazioni di Francesco Mario Tumbiolo,
LietoColle (Como, 2007), pag. 170, euro 23.00.
Con Tunnicchje di Assunta Finiguerra, il
“genere” della traduzione dialettale di Pinocchio assurge a dignità letteraria.
Fin dagli anni Cinquanta, e in ritardo rispetto alla traduzione in lingue
straniere, la favola collodiana, scritta in un bell’italiano regionale toscano,
è stata tradotta nei diversi dialetti d’Italia (dal romancio al ladino, dal
sardo al napoletano, dal romanesco al padovano, dal formiano al triestino,
etc.) sia in versi che in prosa.
Un “genere”che si è formato tra i cultori dei vernacoli, spesso uomini di
scuola, spinti dalla volontà di dimostrare la ricchezza e l’autonoma duttilità
del dialetto di fronte all’egemonia della lingua nazionale; e che vive ancora
oggi (dal 1956 si registra una traduzione ogni tre anni) sul confine tra
letteratura dell’infanzia e parodia vernacolare dei classici in lingua.
Un vero e proprio “genere”, quindi, che ora la poetessa lucana di San Fele,
riconosciuta (da Achille Serrao, Franco Loi, Mario
Grasso, Milo De Angelis, etc.) come una delle voci più originali della poesia
in dialetto degli ultimi anni, con le raccolte Puozze arrabbià, Rescidde,
Solije e Scurije, sceglie per il suo primo esperimento letterario in prosa.
Questa interpretazione lucana di Pinocchio – come ama definirla l’autrice – si
propone, dunque, come opera autonoma di letteratura. Non persegue nessun fine
pedagogico, non nasce con l’intenzione di insegnare dilettando, dietro la
maschera del burattino nazionale, una varietà linguistica in regresso, né
intende soltanto far conoscere ai più giovani l’universo di un’infanzia
scomparsa e mai vissuta fino in fondo.
La Finiguerra resta ben salda nei confini del “genere” prescelto, seguendo
fedelmente il modello della traduzione interlineare, ma investe il “genere”
stesso con lo spirito della sua poesia neodialettale, traghettandolo verso la
sponda colta e letteraria dei pastiches di Pinocchio, come le scritture
parallele di Manganelli le Moviole di Bàino o, più vicini, gli esercizi
babelizzanti di Luigi Compagnone.
Lo fa attraverso un procedimento molto semplice: agisce all’interno del testo,
traduce e non sconvolge l’intreccio. Rispetta la lettera e allo stesso tempo
reinventa lo spirito della favola collodiana, attraverso la vulcanica e
floreale naïveté della sua poesia.
Si legga, a titolo di esempio, la fine del primo capitolo. In Collodi: «Questa
volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli
occhi, si trovò seduto per terra. Il suo viso pareva sfigurato, e perfino la
punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina
dalla gran paura.» E nella Finiguerra: «Stavote u Neusse è cadute nderre cume
nu muorte. Quanne ha repegliate i sienze, s’è sedute nderre cu nuase ca le
pessciaje cume na funduane, e l’uocchje
falbe facienne accuwature sotte a re zìzzele arrevendate janghe p’a paure.» Che
così possiamo tradurre: «Gli occhi strabici di Neusse (Mastro Ciliegia)
giocavano a nascondino sotto le ciglia diventate bianche per la paura».
Se nei versi la poesia della Finiguerra (folta di «erbe, alberi, culle,
germogli, maggesi…» come scriveva Franco Loi presentando Solije) si costruisce
per accumulazioni metaforiche, qui si scioglie in similitudini luminose e in
brevi invenzioni narrative, disseminate a caso nel testo, ma che spesso trovano
la loro naturale e pacificante collocazione in fine di periodo o di capitolo.
Ad esempio la chiusa del nono: «Tunnicchje ha capite quere c’avije fatte attane
pe idde, s’è appese o cuodde, e l’ha date tande de quiri vase nfacce ca
Barbette sembraje c’avija avute nata vote russciuasceme.» Che traduciamo:
«Tunnicchje, capendo quello che il padre aveva fatto per lui, gli s’è appeso al
collo, e gli ha dato così tanti baci che Barbette sembrava avesse di nuovo il
morbillo.»
Sottolineiamo naturale e pacificante, poiché gli interstizi in cui la poetessa
nasconde le sue schegge di poesia seguono spesso, come pause di quiete, il
nucleo duro del narrato, costituito dai dialoghi accesi tra Tunnicchje e gli
altri personaggi. Attraverso la forza del dialetto, la Finiguerra sviluppa le
potenzialità dialogiche del testo collodiano, già sperimentate, del resto,
nelle numerose riduzioni teatrali e cinematografiche (come quella comenciniana,
che qui è fonte preziosa per l’ambientazione della favola in una San Fele
affamata e “neorealista”).
Le linguacce e le cocciute ripicche verbali di Pinocchio diventano in
Tunnicchje un concerto – veramente
corale – di botte e risposte da orbi, di insulti ai morti e alle mamme altrui,
di imprecazioni ai santi patroni, di sfottò surreali (totoisti, scriverebbe
Bonito Oliva) costruiti sullo sberleffo e il gioco linguistico. Si scorrano le
battute del secondo capitolo, tra Mastro Ciliegia e Geppetto. Prima in
Collodi: «- Buon giorno, mastr’Antonio,
– disse Geppetto. – Che cosa fai per terra? – Insegno l’abbaco alle formicole.
– Buon pro vi faccia. – Chi vi ha portato da me, compar Geppetto? – Le gambe!…»
E poi in Tunnicchje: «Maste Pè, buongiorno – ha ditte Barbette – che faje
nderre? – Mbare re tabbelline a re furmiche. – Azzo Sì nu muaestre speciale, sì laureate in
formicologgije e nun é maje ditte niende! – Barbé, qualu viende t’ha fatte
arrevà a ccasa mije? – U viende de dd’anghe…». Un passo che non ha bisogno di
essere ritradotto e che mette in luce due cose: il calembour che fa la
pernacchia ai sapientoni delle accademie e la viva immagine “il vento delle
gambe” che resuscita, in un baleno, la metafora del “qual buon vento ti porta”.
Si aggiunga a tutto ciò lo spaccato di un paese contadino che nasce (come
spesso accade negli artisti che si avvicinano a Pinocchio) dalla ricerca di
un’infanzia perduta e dal costante scavo nella lingua che ne era l’espressione
più piena: il dialetto. Da questo viaggio, della e nella memoria, nasce così un
mondo molto lontano da quello descritto dal laico e progressista Collodi.
Ugualmente affamato e misero, ma diverso. Nell’infanzia della Finiguerra una
presenza chiara e centrale è quella della Chiesa e dei suoi riti. San Vito,
Sant’Antonio, la Madonna, la Pasqua, con i suo dolci e le sue campane,
percorrono tutto il testo e calano le avventure di Tunnichje in un’atmosfera
dominata da una religiosità pagano-cattolica che pervade ogni cosa. E che porta la Finiguerra, ad esempio, a
descrivere così il suo piccolo eroe, salutato dagli altri burattini nel Teatro
di Ceccellone (Mangiafuoco), nel decimo capitolo: «Tutte quande u vusuanne,
sembraje l’agnello pasquale nda chiazze d’i peccature». Cioè: «Tutti quanto lo
baciavano, sembrava l’agnello pasquale nella piazza dei peccatori».
Un mondo panmeridionale, insomma, che spera nel Lotto, maledice la Sorte e
sopravvive sognando di emigrare in terre ricche e lontane. E in cui Barbette
(Geppetto) veste Tunnicchje (Pinocchio), con «nu foglje de carta verde c’avija
luwate da tuorne a nu puacche c’avija avute da Mereche» e in cui Tunnicchje, disperato alla ricerca del padre
Barbette – che più volte chiama u bosse mije – lo cercherebbe anche in America:
«s’è mise ngape de te cercà pure a Mereche, de scì a Brucculine, a Wasscindonne
e pure o Cuanadà…» Un mondo di dolci e di pane, intriso di proverbi e
cantilene popolari, di trottole e cavatelli, d’api sui fiori di cardo, ma anche
di malelingue, di zingari, di medici praticoni e aggiusta-ossa.
Ed è in questo mondo che Tunnicchje-Pinocchio raggiunge un ulteriore stadio
della sua metamorfosi letteraria. La Finiguerra trasforma «la creatura
cinetica» del burattino toscano in A poddele d’a Malonghe, la farfalla del
bosco della Malonga. Se in Collodi, infatti, la marionetta maratoneta si
divertiva «più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a
prendere gli uccellini di nido». Nelle campagne di San Fele vuole «piglià
abbuole accussì pozze acchiappà re ppatepattésse, re ppoddele d’a Malonghe…».
Vuole spiccare il volo, involarsi per sempre e non restare a terra come i
«peddelune ca nun putienne cchiù vuluà, pecché s’avienne vennute quere belle
asscedde pendijate e pe nun s’a piglià a fforte candanne: u chiuande nuoste,
adda fa na vesta janghe, a quiri biangospine, ca stanne accere a sole» Non
vuole vendere le ali e consolarsi cantando: «il pianto nostro faccia un vestito
bianco per i biancospini al sole» Tunnicchje e la sua mamma lucana non vogliono
– ripetiamo – consolarsi cantando ma volare e essere felici.
Sembra proprio che la Finiguerra, che già in una delle sue raccolte si definiva
Rescidde ‘scricciolo’, cerchi, con questa riscrittura, una via di fuga per
prendere il volo lei stessa, un filo d’Arianna per liberarsi dal labirinto
delle sue fragili follie d’amore e evadere, finalmente, dal carcere erotico
delle sue quartine ricche di assonanze. Con Pinocchio si può riuscire anche in
questo.
Da Tunnicchje. A poddele d’a Malonghe
De lèvene massicce cume a Pinocchje
nda panze d’a balene e cu Geppette
na lime, na raspe, nu chiuove e n’accette
só fenute cu tutte sta ricchezze
l’acedetà de stomeche che grattacape!
me sturdissce sott’o purpe ssciambagnone
se trove ddà da quann’ere nu guaglione
e sscije futtenne sicce p’i sette mare
mane mane ca sscénne re stendine
u spettàcule ca vede è allucinande
alice sarde tonne salmune e sgumbre
s’a repetéjene ca nu só sottuoglje
cumbuà delfine me face proprje pene
ha mise u musse nda quire de nu pesscespade
e ddà se torcene sierpe nnamore
facenne paure a cchi passe ucine
e mmarionette de nome e de fatte
re ggendure accummènzene a ffà trecche
e Geppette cu nu file d’uoglje Necche
re mmette a pposte prime c’a balene cache
Di legno massiccio come Pinocchio / nella pancia della balena e con Geppetto /
una lima, una raspa, un chiodo e un’accetta / son finita con tutta sta
ricchezza // l’acidità di stomaco che grattacapo! / mi stordisce sotto il polpo
scialacquone / si trova lì da quand’era guaglione / e seppie fotteva per i
sette mari // man mano che attraverso l’intestino / lo spettacolo che vedo è
allucinante / alici sarde tonni salmoni e sgombri / rimpiangono di non essere
sottolio // compare delfino mi fa proprio pena / ha messo il muso in quello di
un pescespada / e si contorcono serpi in amore / facendo paura a chi passa
vicino // e marionetta di nome e di fatto / cominciano a scricchiolare le
giunture / e Geppetto con un filo d’olio Necchi / le mette a posto prima che la
balena cachi