Tenebrezza di Davide Cortese

Prefazione al libro e scelta di testi di Anna Maria Curci

 

Sono molte le immagini evocate dal neologismo Tenebrezza, scelto dall’autore Davide Cortese come titolo di questa raccolta; sono immagini volutamente contrastanti, giacché alla tenerezza dello sfogo del cuore e dell’effusione si affianca la «triste tenebra» della malinconia, della mestizia che offusca lo sguardo, dall’interezza del dire non è disgiunta l’ebbrezza della luce sorgente di amore.

È in questa varietà di immagini, suggestioni e sentimenti opposti e complementari, che si manifesta uno dei tratti più importanti di Tenebrezza. Allo stesso tempo, c’è un tratto che conferisce unità a questa varietà, vale a dire la costante presenza di un alter ego, di un’altra dimensione, di una qualità o un’entità che è il rovesciamento, il contrario, il “compagno segreto” di ciò che di volta in volta si palesa (l’io lirico, l’interlocutore) o viene posto all’attenzione.

L’alter ego dell’io lirico, come esso viene mostrato già nel terzo testo della raccolta, «ha negli occhi una triste tenebra/ a cui il sole ha confidato un segreto».

Ancor più decisa dell’ombra, la tenebra, come «il sole nero della malinconia» nella poesia di Gérard de Nerval El Desdichado, è segno, marchio doloroso di una rappresentazione della quale l’io lirico così come il suo doppio, la marionetta, non conosce il disegno completo, ma dalla quale riceve impulsi che agitano profondamente e che si rispecchiano nella mimica facciale e nella gestualità. Eppure il tremore è quello dell’attesa e sulle labbra è adagiato un canto.

Allora lo stigma può farsi risorsa, perfino ribellione. A chi? A che cosa? In nome di che cosa?

Sicuramente in nome di un io poetante che, se dichiara di non conoscere («Nulla io so del mio spettacolo»), ha tuttavia una precisa nozione dei propri strumenti e dei baluardi da issare, delle reti di nomi da intrecciare a propria difesa, del fitto fogliame in cui preparare la propria resistenza o della pietra scabra che saggia la sua solitudine: «Difendi il tuo sorriso,/ nada más./ Di’  nomi che fanno bene./ Di’ Lucignolo,/ Cosimo Piovasco di Rondò./ Sii tra le foglie.[…] Riposa nell’azzurro./ Taci nel verde».

La marionetta, alter ego, è presentata inoltre come «la tua marionetta». C’è un “tu”, dunque, che afferma la propria presenza attraverso il battito, il canto, il sogno dell’io. Battito, canto, sogno, che assumono sembianze e sfumature diverse nel progredire dei vagabondaggi, vissuti e contemplati («e c’è a vagabondare nell’aria/ un atomo della tua luce»), nello snodarsi della meditazione, strada facendo, su forme e modi che l’io darà a quel che intende dire al tu: «Verrò a darti l’addio/ senza dirti addio mai».

È la natura la testimone silenziosa ed eloquente dell’inquietudine dell’io («Sono un inquieto./ Non c’è di me/ null’altro da sapere» e ancora «Dormo un sonno d’inquieto poeta./ Addormentato appaio in sogno a un elfo»). Un prato, la pietra, il «fondo del mare/ una nuvola in posa da flâneur» accompagnano l’alternarsi di schermo ed esposizione (“exposure”, “allo scoperto”,  nel senso che Seamus Heaney dà a questo termine nella poesia che porta proprio il titolo Exposure) dell’io, un avvicendarsi reso con metafore che rivelano la consuetudine di Davide Cortese con la poesia che lo ha preceduto, con il Novecento, con alcuni nomi di autori esplicitati – Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino – e, a ritroso, con l’Ottocento squarciato da Baudelaire e rinnovato da Nerval, per risalire fino al Cinquecento francese, che Nerval fu tra i primi a rivalutare. I versi che seguono sono un autoritratto dell’io lirico nel suo essere insieme inquieto nell’animo e preciso nel dire: «Ma il mio scudo è di vetro soffiato./ Ogni lembo di me/ è offerto al taglio della lama,/ al colpo della pietra,/ alla spietata parola».

Il tu al quale l’io si rivolge è così presente nei testi di Tenebrezza, da avere il potere di occupare la coscienza e di concedere la grazia di un sorriso, temporanea interruzione al flusso del dolore.

Eppure l’io prosegue nel definirsi in risposta, talvolta anche in contrapposizione al tu. Se quest’ultimo muta – amante, madre, terra natia (la Sicilia) o straniera (la Namibia di un componimento) -, l’io e il suo alter ego restano un elemento costante, prospettiva sul mondo, ponte, mano tesa per la preghiera, l’aiuto, il perdono, il bene operoso, come nella poesia, centrale, nella quale l’io articola desideri, intenzioni, sentimenti, progetti ripetendo per ben sette volte «Chiedo». «Chiedo di poter sempre/ guardare gli uomini negli occhi/ e di vedere nell’iride di chi temo/ l’amore che cammina come un dio/ sulla superficie della mia paura./ Chiedo di poter sorridere nella notte/ e mettere come fossero orecchini/ le ciliegie alle orecchie della morte»: in compagnia degli ‘universali’, amore, morte, paura, notte, natura, l’io sceglie, ancora, l’incontro con il ‘fuori da sé’ e con gli umani lungo il cammino comune, nell’esistenza, con uno sguardo che si muove tra i poli opposti, tra riflessione e relazione, tra immanente e trascendente.

Anna Maria Curci

 

Respiro

e le mie narici sono i piatti della bilancia

dove in ogni istante si pesano

il mio cuore e la piuma.

Io respiro

e non c’è niente che mi scagioni

dall’accusa di essere vivo.

 

 

 

Sono un inquieto.

Non c’è di me

null’ altro da sapere.

Mi trema dentro

un ruggito d’oro.

Splende in me

l’adolescenza del buio.

 

 

Ho negli occhi il sigillo del buio.

Porto un nome tremendo di luce.

Ti incontro nello splendore di un attimo:

il solo in cui siamo eterni.

Nel pugno il dado di un demone antico.

Perdona.

Il mio nome

è addio.

 

 

 

Li vedo inabissare le radici

fino al cuore di fuoco del mondo.

Nelle loro corolle rosse

– gonne leggere

stropicciate dagli adolescenti –

i papaveri cullano nel vento

il cuore di carbone dei morti.

 

 

 

Le fiamme che bruciarono

il libro dell’innocenza

non erano che gigli

guardàti attraverso la carta rossa

di una caramella.

 

 

 

Davide Cortese, Tenebrezza. Prefazione di Anna Maria Curci, L’Erudita 2023