Ben quattordici sezioni mi sembra compongano la raccolta, che già nel titolo mostra un’atmosfera ricca di radici e temi. Non a caso la sezione Idromele introduce e la Moksa, con le sue vie, chiude. L’idromele, bevanda cara agli dei, inebriante, nata dalla fermentazione del miele, conosciuta da diverse culture, già dall’età antica; un elisir che inebria e addormenta “beviamo l’idromele che addormenta/ fino a non riconoscere più il volto/ di ardesia che si mostra/ solo sotto un costume di pavone//” una pozione che si riteneva desse fecondità, saggezza e poesia.
Dall’altra parte, la sezione posta a chiusura – Le vie della Moksa – richiama, in tutte le concezioni spirituali indiane, la liberazione, attraverso le successive reincarnazioni, dalla realtà mondana ed egoistica dell’io ad una condizione spirituale indicibile e soprasensibile: “le valli stendono azzurre campiture/ e le braccia rinunciano a trattenere,/ l’adesso coincide col sempre e il qui/ è ovunque.//” E ancora “…l’uomo impara/ a volare solo quando si disfa/ della crisalide che lo fa credere/ protetto dal freddo e dai predatori/…” Segue la sezione Gamelan Balinese, (nella lingua di Giava un’orchestra composta di metallofoni, xilofoni, tamburi e gong.) “vorremmo che durasse/ tutta la notte, quella danza ipnotica/ che ha come palco le costellazioni,/ e che fa il sonno superfluo, uno spreco. /” Quindi, Il grande imbonitore “Dio dev’essere pazzo, oppure è un bullo/ codardo, non ha altro passatempo/ che seviziare con le lenti ustorie/ piccoli insetti e fiori; “; con la logica conseguenza de I fantocci; poi, Ketayak, la danza delle scimmie “imitiamo una scimmia, che rivolge/ ai passanti, dietro una tapparella,/ boccacce e smorfie sconnesse e insensate,/ e fa sfoggio di pose “; Macchina scenica “Quasi le sei, puntuale il gazometro/ si accende: decine di bruciatori/ all’unisono entrano in funzione/ e con perfetta sincronia respirano” ; La maschera di Rangda (Rangda, nella mitologia balinese è considerata la regina dei demoni del male) “Intanto, in un solaio chiuso da anni,/ il ragno aspetta che prendiamo sonno/ e concepisce il piano di espansione/ del suo ambizioso impero.” E ancora, Stelle di cartapesta “Le stelle sono imbonitrici scaltre;/ le luci della città, in tangenziale,/ ingannano, sono bugiarde” ; Presentimento del crollo “La spora degli incendi/ cova sotto spessi strati di stoppa/ ammassati nei nidi,/ pianifica deflagrazioni in grande stile” ; Zona sismica “Trema, fin nelle fondamenta,/ per le raffiche ogni costruzione/ che si protenda/ sui bordi della scogliera.” ; Due pagine dello stesso libro “Sembra un palazzo delle fiabe, e invece/ è la facciata di un albergo a ore”; Figure e simulacri “e anche noi,/ e così i nostri edifici a più piani,// siamo incroci di linee a pennarello,/ su una superficie a due dimensioni” ; Tempo del sogno, “ Forse eravamo preda/ di un certo eccesso di sonnambulismo,/ ma ci dicono che eravamo noi/ quelli ripresi dalla telecamera.”… prima della sezione finale.
Nell’insieme organico e ben versificato, Aprile affresca un “Giudizio Universale” senza i Beati; riscrive la “Sinfonia Fantastica” di Berlioz con i soli movimenti “Marcia al supplizio” e “Sogno di una notte di Sabba”; in equilibrio sul filo della sua prima raccolta, volge più spesso lo sguardo all’abisso; si disseta con l’Idromele, ma non rinuncia all’Elleboro, ispiratore di una precedente silloge.
Più che un poeta-Cassandra, Aprile conferma, nell’esasperazione poetica di una lettura negativa della realtà e dell’umanità, il suo intento di spingere quest’ultima a prendere coscienza della morte degli ideali e degli dèi; ad andare oltre la superficie delle cose e delle condizioni umane“l’intera casa è incrinata, è guasta; /una lenta cancrena la divora /dall’interno, ma gli ospiti lo ignorano:/ non guardano oltre /il pregio dei suoi stucchi…” ; a guardare negli occhi il male, per evitarlo aggirandone l’ inganno.
Fai come il vento
Mai stanco il vento, mai pago
di plasmare le nuvole e disfarle;
ricominciare ogni momento è il vero
piacere del suo gioco.
Riflesso sull’acqua
il repertorio delle sue evoluzioni,
più lieve e più profondo
di tutte le saggezze;
vasaio del cielo, demiurgo della pioggia,
egli beato ignora
le cavillose risse di mangrovie
e il labirinto di mota e di sabbia
che invischia le specie della palude.
Siamo i pensieri di una nuvola
Quello a cui con una certa enfasi
demmo nome di sole, era nient’altro
che un cerchio tracciato su un foglio
da un bambino; e anche noi,
e così i nostri edifici a più piani,
siamo incroci di linee a pennarello,
su una superficie a due dimensioni:
abbozzi senza pretese, tentati
da un disegnatore volenteroso
ma alle prime armi, e di doti modeste.
Sul grande quaderno che non riporta
il nome del distratto proprietario,
una mano malferma, poco esperta,
scarabocchia qualcosa, a tempo perso,
e poi strappa la pagina per noia.
Rimozione
Non è ufficiale, ma il rogo che stanno
di notte in notte alzando
al centro della piazza, è proprio a noi
che è destinato, a breve. Intanto
il nostro gemello ebete
il nostro perfetto sosia
il nostro alter ego mal riuscito
va in giro a riempire le strade
delle sue frasi fatte preferite,
beatamente ignaro
che in cima alla lista dei contagiati
c’è scritto anche il suo nome.
Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive e lavora a Verona. È autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Il dio che vaga col vento” (Puntoacapo Editrice), “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle), “Calypso” (Oedipus); “Il talento dell’equilibrista” (Ladolfi); “Elleboro” (Terra d’ulivi). Per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.
Guglielmo Aprile, Teatro d’ombre, Ed. Nulla die, P.zza Armerina (EN) 2020
Maurizio Rossi
Pubblicato il 26 maggio 2020