Ecco una Nota di lettura di Anna Maria Curci sullla raccolta poetica di Daniele Santoro, Sulla strada per Leobschütz (La Vita Felice 2012).
Ha in epigrafe quattro versi di Paul Celan, riportati nell’originale in tedesco, la raccolta di Daniele Santoro Sulla strada per Leobschütz. Titolo e versi palesano un programma preciso e coraggioso: il confronto della scrittura in versi con l’indicibile, l’inaudito, sterminio, Sonderkommando, marce della morte, Shoah. Quei quattro versi di Celan, da Cenotaffio, suonano così nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua che riporto qui: «Colui che qui dovrebbe giacere, non giace/ in alcun luogo. Ma giace il mondo accanto a lui./ Il mondo, il cui sguardo s’aprì / a tanti e tanti fiori.» Dire di chi non giace in alcun luogo – eppure il mondo giace accanto a lui – è l’obiettivo tracciato e perseguito con la tenacia della memoria, il rigore della ricerca, la profondità del sentire da Daniele Santoro.
Nella bella prefazione, Giuseppe Conte precisa che non ci troviamo dinanzi a un libro lirico, né a un libro narrativo, ma a un libro epico ed etico. Concordo con questa chiara affermazione e aggiungo che l’opera si compone di un insieme di quadri che portano con sé e trasportano, Sulla strada per Leobschütz, appunto, fino a noi che leggiamo e ascoltiamo, esattezza della ricostruzione storica insieme respiro e andamento drammatico. L’uso alternato di tempi verbali, imperfetto, passato remoto, passato prossimo e presente, ne è una prova. Nei due movimenti del testo che ferma l’attenzione su Joseph Mengele è l’imperfetto a prevalere:
joseph mengele
I
quegli accurato, solenne nella sua uniforme verde
dirigeva l’orchestra con abnegazione
grande
tre battute a sinistra, una battuta a destra
e mai che lo sfinisse il Melodramma
(p. 11)
nuda non ha reagito porta invece il passato prossimo già nel titolo:
nuda non ha reagito
lei si è lasciata fare, nuda non ha reagito
ma sonagliere d’ossa, senza un grammo
d’occhi, sfinita per la fame, indifferente.
quelli dopo aver fatto hanno tirato su
le brache se ne sono andati in ghingheri
ridendo sghignazzando dopotutto
lo sfizio era costato a ognuno una patata.
(p. 23)
In altri componimenti il passaggio dal presente al passato unisce la desolazione della disumana quotidianità alla irreversibilità della tragedia:
l’autocarro
arriva l’autocarro col cassone aperto e
sta a motore acceso, intanto che di fretta
salgono quelli senza fare storie, guardano
nel vuoto, come inebetiti
tra loro un Uomo e il suo affettuoso gesto della mano
– era mio padre e fu l’ultima volta che lo vidi
(p. 37)
C’è una ricerca molto accurata dietro ogni episodio, ogni testo. Il valore di documento storico di ciascun componimento nulla toglie, tuttavia, alla forza evocativa della scrittura. A chi legge può capitare, così, di operare collegamenti con altre testimonianze da Auschwitz. Questo è stato per me il caso della poesia
la sua preghiera
Calma
la sua preghiera a sera, viva fiamma
illuminava il cuore
e lo stringeva forte.
Peccato che durasse poco lo stupore
se dalla branda il tonfo della morte…
(p. 30)
Ho immediatamente associato i versi al la vicenda di Massimiliano Kolbe. Proprio su questo punto ho rivolto a Daniele Santoro il quesito circa la fonte di ispirazione del componimento e la sua risposta è stata un ulteriore passo lungo la strada per Leobschütz: «Sì, ho pensato anche a Kolbe e Neururer, anche se in effetti la poesia mi fu inizialmente ispirata dalla rilettura de “La notte” di Elie Wiesel: nel libro l’autore evocava, in un breve passaggio, il ricordo di Akiba Drumer, che a sera di rientro nel blocco cantava melodia chassidiche; era una voce così grave e profonda la sua che – scrive Wiesel – spezzava il cuore di tutti gli internati. Ho immaginato allora che quel canto rappresentasse per quei prigionieri un momento di straordinario stupore, una pausa di pace in tutto quell’universo di umana Malvagia e quivi ho immaginato – quello che poi dico all’ultimo verso – la fine di quell’incanto…ancora una volta il trionfo della Morte.»
Voci si alzano, sommesse o più forti, contro il latrato della morte e il sotterraneo incessante tentativo di negazione. A queste voci ha dato corpo e forma e storia Daniele Santoro.
la libertà dell’uomo
Straniero amico compagno di questa sciagura senza senso
è qui che si separano le nostre strade; addio.
Tu nella luce scegli, in luminoso viaggio e io qui nel buio
ancora qui nel buio che brancolo per martoriare
insanguinate terre appiccicato a cosa poi nemmeno io lo so
se è istinto di sopravvivenza o solo per paura della morte
o per vigliaccheria di non sapere opporre estrema libertà
al carnefice, la libertà dell’uomo ch’è sì cara, amico,
la libertà dell’uomo ch’è sì cara.
di Te che non conosco nome, nazionalità so quanto basta
so la parola dello sguardo millenaria antica nella sofferenza
e so la breve intensa gioia, l’incanto che si prova se a rapirci,
se a liberarci dall’angoscia è giusto una misura di stupore,
una bellezza che dia senso, amico, come quella sera
che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese
il pieno delle stelle immenso il firmamento
(p. 54)
Daniele Santoro è nato nel 1972 a Salerno, dove si è laureato in Lettere classiche, e vive a Roma dove insegna. Suoi testi poetici e di critica sono stati pubblicati in varie riviste, tra cui «Studi Danteschi», «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», «Caffè Michelangiolo», «Erba d’Arno», «Sincronie», «La Mosca di Milano», «Il Monte Analogo», «Italian Poetry Review». Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Diario del disertore alle Termopili (Nuova Frontiera, 2006); Sulla strada per Leobschütz (La Vita Felice, 2012).