Cettina Caliò di Catania, perito commerciale, ha compiuto i suoi studi presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Roma e la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Catania. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni: le raccolte poetiche Poesie (Ibiskos, Empoli 2002), L’affanno dei verbi servili (Foggia, Bastogi 2005), Tra il condizionale e l’indicativo (Imperia, Ennepilibri 2007), Sulla cruda pelle (Edizioni Forme Libere, Trento 2012) e l’opera narrativa Gravidanza emozionale (Imperia, Ennepilibri 2008).
Con la silloge I paroli nichi nichi, in dialetto catanese, nel 2013 si è classificata terza al premio nazionale “Città di Ischitella-Pietro Giannone”.
Nella raccolta Sulla cruda pelle che si articola in quattro sezioni (Punti sospensivi, Altre note, Apertis verbis, Stazione centrale) l’Autrice, che esprime il suo mondo interiore attraverso intense metafore e con un linguaggio distillato ed essenziale, canta del viaggio della vita che si compie tra pause e ripartenze, in strade segnate da attese e disinganni.
Nel suo percorso il tema dell’amore è particolarmente insistito. Legato spesso alla riflessione esistenziale, è narrato nella sua dimensione sensuale, ma anche nella difficoltà di intesa e di comunicazione.
Le liriche sono brevi, il procedere spezzato, con pause forti, mai segnato dalla punteggiatura. A sottolineare l’intensità di alcune riflessioni si segnala un uso insistito dell’anafora e, a volte, un martellante ripetersi di parole. (Ombretta Ciurnelli)
La Prefazione al libro di Giuseppe Condorelli
Quello che si agita nelle pagine di questa plaquette è uno scontro tellurico: le placche dei sentimenti e dell’armonia contro quelle della crudezza e del dolore di vivere. Tutta questa geologia poetica riversata nei paesaggi angusti dei versi, sotterranea come un fiume carsico e sostanzialmente immobile come la pozza del cuore è tracciata all’interno di una gerarchia espressiva che rifugge dal puro calligrafismo (anzi le liriche possiedono uno spessore, come dire, interiormente haiku) e che, quantomeno nelle sue forme, rimanda ai due precedenti libri, “L’affanno dei verbi servili” e “Tra il condizionale e l’indicativo”, configurando così una grammatica personale scandita tra devozione e sottomissione da un lato, tra possibilità e realtà dall’altro.
L’offrirsi poi della parola quasi ex abrupto, configura la raccolta come ripresa-ritorno da un dove ambiguo e contrastato – cui rimandano appunto “I punti sospensivi” della prima sezione – verso un imprevisto adesso sgraziato e crudele.
Emerge l’inerzia di un cammino solitario – confortato nel sottotesto da una presenza percepita nel suo lento disfarsi, nel suo inesorabile commiato – irrinunciabile per il dire poetico: la scomposizione si declina nella completa identificazione di essere e di parola: sono ormai soltanto/quell’ultima frase/taciuta/ richiudendo piano/ la porta.
Nella seconda sezione si dispiega comunque una ostinazione a resistere al gorgo dell’annullamento, a farsi voce: la parola risale ma per tragitti incoerenti cui rimanda, pur nella consapevolezza delle misure mancate, il denso campo semantico: trasversale/volo basso/ giorno obliquo/aggrappati. Anzi a tratti la parola si flette nella memoria e negli affetti più remoti, in un ricordo di bimba per esempio, all’interno di un lessico divenuto improvvisamente “materno”, che nel successivo segmento lirico, con parole esplicite (Apertis verbis appunto), riannoda i momenti cruciali di una reciproca appartenenza.
Ma al di là delle intenzioni del titolo, questa prospettiva intima e sostanzialmente paziente sbiadisce: il tempo non concede tempo/per colmare con un gesto pieno/il vuoto di voce. Dunque la rassegnazione e il desiderio restituiscono alla scrittura poetica l’unica necessità, ovvero tramutarne l’esperienza nel versante più intimo e inaccessibile: sono rimasta straniera/ alla fermata di ieri.
Ritorna poi nell’ultima parte della silloge il tema della sosta forzata, dell’attesa che si consuma nella sua stessa consapevolezza. Ogni colloquio diretto rimane sospeso anche se i versi, che possiedono la continuità di un breve poemetto (il cui titolo è quello della stessa sezione, Stazione centrale) paiono scardinare l’impasse, testimoniare la possibilità di uno spiraglio: e comunque il congedo da un vissuto che può trovare altre ragioni per il vento.
In questo senso “Sulla cruda pelle” è quasi un piccolo romanzo poetico nel quale la densità di pensiero e la tensione al rigore non solo formale – il verso rastremato, la brevità incisa nella misura degli accenti lirici di senari e settenari – rivelano una parola intimamente oracolare che si volge verso l’autocoscienza. Ci pare insomma che questa poesia si diriga verso qualcosa di aperto, magari verso un “tu” a cui si possa rivolgere. Quel “tu” lettore, sfidato all’attenzione, alla compassione e all’ascolto.
Le poesie
Fiato ancora
Qualcosa tra le note
si è rotto
altre stanze da viaggiare
necessitano
altre porte da chiudere
sulla faccia di chi
ti fa corto il fiato
e non aspettare
la primavera
che è un inganno di colori
deperibile
Siamo senza mai essere
Siamo senza mai essere
in questa anomalia di occhi infranti
nel distacco di silenzi appiccicosi
che sempre vestono
il freddo che verrà
siamo senza mai essere
nel tutto completo di una frase fatta
che si posa dura
dove la giuntura più non tiene
siamo senza mai essere
nella stanchezza del tutto è spento
ma fingiamo la luce
perché il buio che vogliamo
ci spaventa
Là dove
Sei come palpito
là dove
silenziosa curva piano
la via
che sempre conduce precaria
oltre il riflesso duro di ieri
e
si commuove postumo
il rimpianto
per quella porta chiusa
quando
sul crinale perplesso
di un’ora ostile
sei come patria
sulla cruda pelle
Binario 5. Ore 10.03
le tue braccia intorno
il tuo sorriso addosso
si può smettere di contare
la carne che manca all’osso