Stanza di confine di Ida Vallerugo

Nota di lettura e scelta di testi di Maurizio Rossi
Ida Vallerugo è nata nel 1941 a Meduno (PN), dove ha svolto la professione di insegnante, dopo essersi diplomata ad Udine. Scrive in lingua e ha cominciato a scrivere anche  in dialetto friulano, in seguito alla morte della nonna materna, avvenuta nella baracca per terremotati, dove l’Autrice viveva a causa del  sisma del 1978.  Ha pubblicato “La porta dipinta” nel 1968, per la Pan Ed. di Milano; “Interrogatorio” nel 1978, apparsa su “Quaderni del Collettivo R.” di Firenze. Ha vinto nel 1972 il Premio “David”, nel 1973 il “Venezia Mestre”.
Le sue poesie in dialetto hanno avuto numerosi riconoscimenti: “L’aurec” ha vinto nell’82 il Premio “Giacomo Noventa”; “Mistral” ha vinto il “Salvo Basso” nel 2011 ed è stato trai finalisti del “Viareggio” dello stesso anno.
Sue poesie sono state inserite da Franco Loi nell’Antologia “Nuovi Poeti Italiani 5” per la Einaudi, nel 2004.
 
La raccolta di Ida Vallerugo, Stanza di confine, Crocetti Ed., 2013 si suddivide in quattro sezioni: “Terra di dentro”, ispirata dalla sua terra, còlta in lunghi anni e interiorizzata; il poemetto in nove sequenze “Viaggio col padre” del 2001; “Stanza di confine”, profondamente segnata dalla morte del padre e dall’attentato alle Torri Gemelle; “Grecia” diario di viaggio reale e immaginario in questo luogo storico e metaforico.
La Poesia della Vallerugo è complessa, non ermetica: raccoglie le sue e le memorie di tanti, in un verseggiare estremamente libero e netto, tuttavia musicale. L’occhio attento, coglie ogni cosa; il cuore sa sanguinare, ma anche consolarsi e consolare.
 
 
La Poesia
 
Dormi, mi dico. Lei la senti bussare
anche nel sonno. Esce da te, poi si finge alla porta.
 
Dopo anni di assenza torna all’improvviso,
chiede dove ha lasciato la sciarpa
                        e di seguirla senza troppe domande.
 
Questo non è vivere. Ma senza di lei non c’è vita.
E vuole essere attesa.
 
“Come dio?” mi chiede il venditore arabo
dal quadro, oggi non ha fatto affari, ha spento la lampada
all’ingresso della tenda. Gli animali dormono.
Si accinge a scrutare le stelle lui, e a prostrarsi.
 
“Come dio?” insiste dal suo silenzio grande.
 
Lei vive e muore in questa scorza.
 
Questa lirica, tratta dalla sezione “Grecia” annuncia, mi sembra, il mondo poetico della Vallerugo ed esprime bene la “necessità” del poetare. Bello anche lo straniamento, espresso da “esce da te, poi si finge alla porta”, in una personificazione che dice lo sdoppiamento del Poeta. “Senza di lei non c’è vita”: il Poeta non smette mai di esserlo, lo sa bene chi sente quest’urgenza della parola “suono e senso”. Anche nel “silenzio grande” dell’aridità, delle domande senza risposta. Ecco allora… “La notizia” –  da “Terra di dentro”
 
 
La notizia
 
Correvo in sogno.
Portavo alla città in attesa la notizia della battaglia.
Io correvo nel petto di tutti.
 
Improvvisa la caduta. Lo smarrimento.
“Basta un respiro” mi dice l’ombra radiosa
china su di me, familiare. “Va’ ora”
 
Non ricordo se abbiamo vinto o perso.
 
“E’ questa la notizia da portare”.
 
E’ una metafora radicata nel “mito”, e per questo il messaggio è di forte impatto: emerso dal petto, dal respiro stesso,  raccoglie la necessità “del dire”: necessità nutrita, nella lunga storia dell’Uomo, da “l’ombra radiosa”. Se la memoria difetta, ci si perde; ma per non smarrirsi, soccorre ancora la Poesia, “mosto di questa bottiglia antica”. Allora ogni cosa si ricompone, torna al suo posto: si vede con chiarezza.
 
Fra stella e stella
 
Dunque, tra stella e stella, ti sei perso anche tu, astronauta.
 
Entra. Questo è il giardino. Qui la fioritura. Là la neve e le sue liturgie.
A stretto gomito sole e luna. Le stagioni, un po’ più confuse.
 
Bevi un sorso di mosto di questa bottiglia antica.
Bevi ancora. La sbornia la sa solo dio.
 
 
 
Il ciliegio
 
Dopo molti, molti anni
            mi sono a lungo incantata a un ciliegio.
 
E mi meraviglio di me, di quest’infanzia, andando.
Cerco di immaginarlo quello stupore.
 
Non ci riesco. Non ci riesco.
Eppure anche lui vive d’aria.
 
E’ passato il vento.
 
Non manca certo la nostalgia, questo “dolore del ritorno” che spesso si tramuta in sogno. La Storia ed il Mito, dentro il suo essere, si impastano con il proprio vissuto, con i viaggi e con l’andare quotidiano. Ma occorre la consapevolezza, una “scheggia” che rompe l’opacità, la chiusura, ciò che altri han definito “confine tra l’io e il noi”: allora il sangue può divenire fiore
 
 
Grecia
 
E’ bastata una scheggia
                        nel dito che segna l’orizzonte.
 
E’ Grecia quando lei appare.
 
(che sì, appare e scompare Grecia,
                        è questione di densità dell’aria
 
o del suo rarefarsi, l’aria
 
che respiri, dico, che sempre ti manca
                        quella che ti concede il ladro d’aria
che hai dentro, che ospiti
 
che, anzi, allevi), è bastata una scheggia, dicevo, e il sangue
ha trovato la foce, si allarga in fiore.
 
Psiche, psiche, opaca oggi, chiusa.
 
Eppure sono tutta aperta.
 
Ma forse come una ferita.
 
Ma talora, tra nostalgia e sogno, “qualcosa non torna” e chiede ai ragazzi (…la maestra!) “qual è la stagione del vivere”, quando la luce dell’esistenza si dissolve, come la vita, con un colpo d’ala. Se la vista può difettare, la “visione” è chiara, come è chiaro quel “pensiero antico” che  porta, al modo di una strada, dove “il desiderio guarda”. Le immagini sono dense, il linguaggio ricco, le assonanze, così come le visioni interiori che ci comunica questa bellissima
 
Qualcosa non torna
 
Pausa Padre. Pausa del dolore.  Siamo noi
                        ci precede la vita
            è di respiro il perfetto fiore.
 
Non dire che è ciò che resta
di una non voluta resa
                        lontananze, dissolvenze forse.
 
Siamo il giorno chiaro
lo spessore dell’ombra, il colpo d’ala in volo.
 
E ci porta la strada pensiero antico
                        che corre mattutino
 
felice vento, ragazzi, felice giorno
voi che correte dove il desiderio guarda
ditelo voi a questo nodo di età qual è la stagione del vivere
voi specchio     linea continua.
 
Le statue che scrutano non le guardare
qualcosa non torna qualcosa non torna
sempre in quest’ora qualcosa non torna
quest’aria quell’ombra quel punto di luce vagante
 
                                   grappolo spiccato all’alba
                                               Grecia negli occhi
non c’erano ieri quest’aria, quell’ombra
quel punto di luce. Qualcosa non torna.
 
Luce del mattino, sola luce del giorno
e per vedersi, padre, ha solo i nostri occhi.
 
Luce che sale   illumina
            e nel suo zenith scompare.
 
 
Acqua e luce, luce ed occhi, tornano e ritornano con i temi della natura e del paesaggio, sicuramente non inquinato nell’ esperienza della Vallerugo, da atmosfere, smog e miasmi cittadini. Certamente è questa limpidezza a suscitare in lei la limpidezza ed il nitore espressivo dei suoi scritti.
 
 
 
Sul bivio
 
Ho sempre nelle ossa
quel senso di attesa che c’era sul bivio dove ho vissuto,
enclave del mondo, bivio di vento
            e profondissimi silenzi. Sciolgono
 
povere tele mio padre e mia madre,
le sciolgono come seta per le vite che passano
e che hanno solo sé e l’andare. “Fermi, per la fotografia”.
Trattiene il riso mio fratello…
 
…E un’acqua scorre, un’acqua scorre.
Scorrere, è la forma dell’acqua? Sale a lambire le fondamenta,
le lenzuola, ci rapisce in sé nell’universo, nel chiaro mistero
del sesso. E un’acqua scorre nei limpidi mattini
un’acqua scorre e in quella luce noi, gli occhi immensi.
 
Dammi la forma. L’acqua scorre. Dammi la forma.
 
C’è sempre un’ombra giovane sul bivio alle prime luci
e alle ultime, e pur sapendo dove andare
            lei tutta si tende alle strade.
E se non c’è nessuno, lei si dice un nome.
Da qualche mondo risponderà qualcuno.
 
Finché c’è attesa, c’è vita; finché c’è movimento, vive la vita: certo, non si può com-prendere, de-finire, non ha forma, se non quella del suo “scorrere” come l’acqua. Questo grido “Dammi la forma” è forse segno di spaesamento? O piuttosto non è l’invocazione di chi vive “sul bivio”? Che sa andare avanti, ma anche tornare indietro; sa “tendersi sulle strade” come “un’ombra giovane”? …Ecco ancora La Poesia che dice un nome, e qualcuno – non importa chi o da dove – risponderà.
 

Ida Vallerugo, Stanza di confine, Crocetti Ed., 2013

 
Maurizio Rossi
 
pubblicato 2015-08-06