Nel chiedersi se la Resistenza abbia ancora un senso testimoniale, in grado di sfuggire al giogo delle interpretazioni partitiche e alla volontà di ridurre il ruolo primario che essa assunse nel forgiare una nuova identità nazionale – seppur, ancor oggi, sfrangiata e claudicante –, giunge in soccorso una breve antologia, fresca di stampa, curata da Giovanni Tesio: 25 poesie per il 25 aprile. I testi più belli (Novara, Interlinea, collana Lyra, 2025, pp. 68).
A rileggere gli autori che la animano (Umberto Saba, Corrado Govoni, Giuseppe Ungaretti, Carlo Betocchi, Salvatore Quasimodo, Carlo Levi, Cesare Pavese, Alfonso Gatto, Roberto Rebora, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Bino Rebellato, David Maria Turoldo, Franco Fortini, Primo Levi, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Pier Paolo Pasolini, Luciano Erba, Giovanni Arpino, Giovanni Raboni, Antonio Porta, Silvio Ramat, Erri De Luca), appare subito evidente come gran parte della poesia italiana dall’immediato dopoguerra ai primi anni del Duemila sia innervata da una costante, inesausta spinta di ritorno a quel tempo di ferite, nel tentativo di renderlo in minima parte decifrabile (e con esso, il presente toccato in sorte). Il sottotitolo – I testi più belli – potrebbe destare sospetti di faziosità ed arbitrio in merito ai criteri di selezione, ed invece si esce dalla lettura di questo regesto con la vivida sensazione che il curatore, nell’allestirlo, abbia pienamente rispettato la natura polimorfa della Resistenza e della sua resa lirica: una varietas impastata di realismo storico, venature retoriche, trasfigurazione metafisica, allusività e tragica coscienza civile.
In esergo all’antologia, non contemplato nella corona dei venticinque testi, uno dei vertici della poesia del Novecento: La primavera hitleriana di Eugenio Montale. La visita di Hitler, ricevuto il 9 maggio del ’38 a Firenze da Mussolini e i suoi scherani, diviene presagio del sabba notturno degli anni a venire, ove nessuno fu più “incolpevole” ([…] la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue / s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate, / di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere / le sponde e più nessuno è incolpevole […]). L’arazzo narrativo che ne segue è un affondare di mani nella rovina, nella perdita, ma altresì nella superstite memoria (si veda Raccontino di Saba: “[…] Erano cari amici quando rompere / tu li vedevi esterrefatto a calci: / un’antilope e un mulo. // La casa è devastata, / la casa è rovinata. / Ma i due ragazzi sono vivi ancora; / vive ancora, imbianchite un po’, le madri”); al contempo, è riflessione sull’esercizio della democrazia nella nascente Italia repubblicana, come in 1946 di Betocchi: “Viva la Repubblica, sorride all’anima / bambina il monito che non dice nulla: / siamo pietre repubblicane… forse / sarebbe meglio: siamo eretti da secoli // in città, in abituri, è questo il concreto […]”.
“La desolata forza di allora, / un segno da serbare / salvato dalla storia” (Una sera, Rebora), diviene per alcuni l’emblema della necessità di ricondurre l’esperienza resistenziale a patrimonio culturale collettivo condiviso, da custodire e da tramandare, di generazione in generazione; talvolta, tramutandola, con peccato di ingenuità, da fenomeno storicamente strutturato in uno specifico contesto a categoria dello spirito (come ha osservato lo storico Santo Peli nel suo La resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004). Per altri, invece, essa tende a disperdersi nel disincanto; si veda Rebellato in Resistenza: “Nascosti nelle macchie e nelle pozze / del mio gelido Brenta, / poveri illusi / armati solo delle nostre idee. // Giorni d’ingenua fede / giorni di sogno / e redenzione; // giorni spenti, / giorni distrutti, / giorni di nessuno; / arida sabbia e sterpi”.
Ma la Resistenza fu soprattutto risalita dall’abisso, come insegnò Pasolini:
Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce […].
“Tante quindi le modalità di rivivere un momento storico fondamentale per un risveglio di democrazia, in altre parole per le sorti di una realtà – finché si voglia faticata – che siamo noi oggi ad abitare, nella speranza che non sia un buio futuro a smentirne i tratti essenziali, le conquiste costate lacrime e sangue”, sostiene Tesio.
Nella speranza che non sia già il presente ad incupirne il tratto, falsificando progressivamente il suo portato valoriale e ingenerando un ulteriore vulnus in seno alla coscienza civile nazionale ed europea.