Loredana Bogliun nasce a Pola nel 1955 da famiglia italiana di Dignano d’Istria. Laureata in psicologia a Lubiana, ha ultimato gli studi alla Facoltà di Filosofia di Zagabria. Ha operato a Buie come psicologo scolastico, professore e preside della Scuola media superiore in lingua italiana. È stata ricercatrice nel settore della psicologia sociale presso l’Istituto di Sociologia dell’Università di Lubiana e docente al Dipartimento di Italianistica e di Scienze dell’Educazione della Facoltà di Pedagogia di Pola. Scrive in italiano e nel dialetto istroveneto dignanese. Si occupa di traduzione letteraria ed ha pubblicato testi di saggistica.
Ha ricevuto numerosi e significativi riconoscimenti per la sua produzione letteraria, tra cui tre Primi e quattro Secondi Premio nel concorso Istria Nobilissima.
Sin dall’inizio le sue composizioni sono state contrassegnate dalla predilezione per l’antico dialetto dignanese- che ha curiose assonanze con il romagnolo – pur non trascurando l’italiano.
Ha pubblicato diverse raccolte di poesie: Poesie (tradotto anche in romeno) – 1988; Masere – Muretti a secco (tradotto anche in macedone) – 1993; La trasparenza – 1996; Approdi – Antologia di Poesia – 1996; La peicia – 1997; Istrianitudini – 1997; Soun la poiana – 2000; Graspi- Grappoli – 2013.
Franco Brevini ha incluso suoi testi nell’antologia “Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo” (Torino, Einaudi, 1990), affiancando già allora il suo nome a quelli di Franca Grisoni e Ida Vallerugo. Con Sfisse si è classificata al terzo posto nel Premio “Ischitella” 2013.
Il Poeta, con la sua arte, incide delle fessure, spiragli, che mettono in comunicazione il mondo reale e quello dell’immaginazione, entrambi autentici; il travaso osmotico tra queste due realtà della condizione umana, fa sì che si possa vivere, ma è anche causa di quel “male di vivere” – inquietudine, spaesamento – che spesso si finge, per necessità pratiche, di non avere. Forse per questo, molte persone dicono di non capire la Poesia, come se il punto fosse “non capire” piuttosto che “non ascoltare” la Poesia: il suono e il senso che accende l’animo umano.
La Bogliùn apre questi spiragli, che non sono però ferite, anche quando il suo verso si fa accorato e malinconico: nella sua poesia si cela sempre un sorriso, non fosse altro per il suono del dialetto dignanese, culla e conforto, come la voce della risacca, o quella della campagna.
smagnà
La campagna strenso la radeiga
me couca sulo gireini e musculeini
luri i crisso in ciapo, i se guanta
de tei ouna tinerissa reiva
ch’a me palisa
cumo imbriaga i stenti a tacame
i soin restada franca ma straneida
me senteivi fourtounada
a me pronti par sta notolada longa
douto me se impeissa e cumanda
a se distreiga al me pensir staco
ancui i vuravi cuntentame de gnente
soffrire La campagna stringe la radice/ mi sbirciano solo girini e moscerini// loro crescono in gruppo, si sostengono// di te una tenerezza arriva/ che mi svela// come ubriaca indugio a far presa/ sono rimasta libera ma turbata// mi sentivo fortunata// mi preparo per questa lunga notte insonne// tutto mi si accende e comanda// si riordina il mio pensiero stanco// oggi vorrei accontentarmi di niente
il poetare frammentato evoca il ritmo che è nel respiro, del quale ogni atto è rinnovamento, causa ed effetto dello svolgersi della vita; altresì richiama lo scambio tra realtà e immaginazione che contiene il soffrire e il comprendere “ di te una tenerezza arriva/ che mi svela”…”sono rimasta libera ma turbata”. L’Autrice, qui, come in altre liriche, rivela anche un desiderio di “comunicare” con la natura, che a tratti diviene desiderio “incontenibile” di “com-prendere”, per fondersi con essa
brama
I vuravi seighe drento a sto arboro
e faghe crissi le fuie nunsiandoghe
la me ligreia cumo par riverensia
a duoti sti misteri de la veita meia
de sempro ghe seivi dreio
a quil ch’a me incurioseiva
cumo se al bel fusso de ciapalo
tigneisselo strito strito vissein
magari in tala scarsila imbotunada
coussei par cumpaneita
ch’a nol sguli veia
e cun sta brama de capei al mondo
me vidi peicia ogno sorno de pioun
anca ancui se distouda in tal scour
al me pensir de capeighe qualco
desiderio vorrei andare dentro in questo albero/ e fargli crescere le foglie annunciandogli/ la mia allegria come per riverenza/ a tutti questi misteri della vita mia// da sempre rincorrevo/ quello che mi incuriosiva/ come se il bello fosse da afferrare/ tenerselo stretto stretto vicino/ magari nella tasca abbottonata// così per compagnia/ che non voli via// e con questo desiderio di capire il mondo/ mi vedo piccola ogni giorno di più// anche oggi si spegne nel buio/ il mio desiderio di capirne qualcosa
Il finale troncato in “qualco” esprime un’esperienza di comprensione che non si esaurisce mai, tanto vasto il mondo e le sue stagioni; come pure “me vidi peicia ogno sorno de pioun” dice della pazienza e dell’umiltà di chi, conoscendo, scopre di avere ancor più da imparare e conoscere: “da piccolo tutto ti sembra grande/…il bello è che solo da grande/ sai di essere piccolo” …eco di quel “so di non sapere”- saggezza di ogni tempo
ven
Cun sufio e dispoi si noto
la man se pusa a vudio
cumo per caressà oun recordo
begna vulighe ben a sto mondo
ch’el se impeissa e distouda
douto turna e se dismeissia
ma sei, de nuvo, oun altro fià!
Sta veita si fata de tanti ancura
de peicio te par douto grando
anca al puliner de le galeine
al bel si ch’al sulo de grando
tei sé de issi peicio, oun stafaneicio
ghe vuravo spalancà al sacramento
cul sul ch’a reiva de le sfisse larghe
el ne scalda al cor
ven al mar si quito
vieni Un soffio e poi è notte// la mano si accosta a vuoto/ come per accarezzare un ricordo// si deve voler bene a questo mondo/ che si accende e si spegne// tutto ritorna e si risveglia// ma sì, di nuovo, un altro po’!/
questa vita è fatta di tanti ancora// da piccolo tutto ti sembra grande/ anche il posatoio delle galline// il bello è che solo da grande/ sai di essere piccolo, un fagottino// si dovrebbe spalancare il sacramento/ col sole che arriva dalle fessure larghe// ci scalda il cuore/ vieni il mare è calmo
“bisogna voler bene a questo mondo” è tutt’altro che un imperativo: è necessità, non poter fare altrimenti, nel “frattempo” della vita, prima che il “soffio” si spenga e arrivi la notte; bisogna voler bene al mondo per i suoi ritmi, per i suoi tanti “ancora”, per il sole che riscalda e il mare calmo. Ma soprattutto per la meravigliosa scoperta che si diventa grandi, quando si sa veramente di essere piccoli; allora si apre un altro spiraglio, una sfissa e il mondo del sogno entra in questo mondo, silenziosamente, ma efficacemente
in squara
I vuravi seighe vissein al sul
ciapalo in seima al monto
par deighe ch’el si bel
col se culura de russo
e la campagna inguanta
la sira squasi inciucheida
a si co le galeine stà sa drento
preima ch’a in tale case
a se impeissi le lampadeine
a stà firmi se vido a lonsi
e no stà cridi ch’a sto mondo
no seia fato cu l’insegno
varda dreito inseina seighe
in tondo a quil ch’a te reiva
al sul taso
la tera taso
me vuraivi stà seita
armonia Vorrei avvicinarmi al sole/ prenderlo in cima al monte/ per dirgli che è bello/ quando si colora di rosso/ e la campagna accoglie/ la sera quasi stordita// è quando le galline stanno già dentro/ prima che nelle case/ si accendano le lampadine// a stare fermi si vede lontano/ e non credere che questo mondo/ non sia fatto con l’ingegno// guarda dritto senza/ dubitare di quello che ti arriva// il sole tace/ la terra tace// io vorrei stare zitta
Nel silenzio della sera – momento caro a molti, specie ai poeti e ai sognatori- si vede con più chiarezza, lontano, e non c’è spazio per il dubbio, perché non ci sono parole: anche l’Autrice vive quasi la contraddizione tra il dire della poesia, che fa vivo il momento, e il tacere, come fanno il sole e la terra. Allora anche il disvelarsi, per la Bogliùn non può che avvenire nel silenzio della terra, “salvadeiga ma ameica” nelle foglie del bosco, in questo “seilensio che sconde doute le me sparanse”
inveito
Par savi de mei
begna ch’a te vaghi
a pestà le fuie d’al busco
i soin caiuda par tera
par farme radeiga
sto ano i arbori me fa festa
e pioun longa si la staiòn
ch’a lassa i pumi cachi soun le rame
co tei sarè a catame ciamime forto
coussei tei cugnussarè
al me passo soun sta tera
sei, la tera, salvadeiga ma ameica
al so seilensio scondo doute le me sparanse
scultilo cu la passiensa d’al to cor suleigno
i no sé fa altro par deite de mei
invito per sapere di me/ devi andare/ a calpestare le foglie del bosco// sono caduta per terra/ per farmi radice// quest’anno gli alberi mi fanno festa/ e più lunga è la stagione/ che lascia i cachi sui rami// quando andrai a cercarmi chiamami forte/ così conoscerai/ il mio passo su questa terra// sì, la terra, selvaggia ma amica/ il suo silenzio nasconde tutte le mie speranze/ ascoltalo con la pazienza del tuo cuore solitario// non so far altro per dirti di me
E’ poesia, quella della Bogliun, a “tutto tondo”, di suono, senso e immagini; mai scontata, neanche quando “de amur se favela”: favela- fàvola…Non è forse l’amore una favola, un sogno vero nella realtà- “par ch’a dèi si cumo issi”- perché la realtà possa ancora generare sogni e speranze? Così la vita può essere ancora un “viaggio di ali spalancate”
de amur se favela
la favela me fà ancura smagna
co tei deighi de i fiuri
a par piuon bel al so parfoumo
me sona in tale ricercatricea par ch’a dèi si cumo issi
al pensir resta verto, in feilo
douto si in reima bel e fineido
i to oci dananti me deisi douto
e me reposa al cor drento sto mar
in sto viaio de ale spalancade
di amore si parla la parola mi tormenta ancora// quando dici dei fiori/ sembra più bello il loro profumo// mi suona nelle orecchie/ sembra che dire sia come essere// il pensiero rimane aperto, pronto/ tutto è in rima bello e finito// i tuoi occhi dinnanzi mi dicono tutto// e mi riposa il cuore dentro questo mare/ in questo viaggio di ali spalancate
Loredana Bogliun, Sfisse – fessure, spiragli, Ed. Cofine, Roma, 2016
Maurizio Rossi
pubblicato il 5/9/2017