[LUGLIO 2013] saorìo l’è ’l silensio (saporoso è il silenzio), poesie in dialetto veronese di Giovanni Benaglio, Edizioni Cofine, Roma 2013, pp. 32, euro 10,00
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IL LIBRO
La raccolta di Benaglio in dialetto veronese ha vinto la decima edizione del Premio nazionale di poesia nei dialetti d’Italia “Città di Ischitella-Pietro Giannone” 2013.
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L’AUTORE
GIOVANNI BENAGLIO è nato nel 1949 a Santa Maria di Zevio (VR) e vive a San Giovanni Lupatoto (VR).
Già funzionario di banca, è cultore della lingua dialettale veronese e ne ricerca al profondo significati e sapori.
Ha pubblicato le raccolte di poesie Su senoci de acoa ciara e Péste e il volumetto di aforismi ed epigrammi Sapèl. Ha anche dato alle stampe una ricostruzione storica del paese d’origine, effettuata sulla base dei ricordi lucidissimi del padre Giacinto, novantenne.
Numerosissimi e di prestigio sono i premi conseguiti, tra cui ricordiamo: “Mario Donadoni” Bovolone VR; nel 50° della morte di “Berto Barbarani” Verona, Premio “Castello” di Villafranca Veronese; Premio “Beltramini” di Salizzole (VR); Premio “Alicante” di Trento, Premio “El Sil” di Treviso, Premio “Raise” di Rovigo, Premio “Minerva” di Minerbe (VR), Premio “Murazzo” di Venezia, premio “Bocolo d’Oro” di Venezia, Premio “Tra Secchia e Panaro” di Modena.
è membro di alcune giurie e docente di “Cultura Popolare” alla Libera Università della città di residenza.
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NEL LIBRO
L’eco
Sércoli muti, forsi de tenca,
se sfranfuja a cavaloto in l’acoa
a l’onbra de ’n salgàr da i sgrendeni
che sbrìndola e fin se resenta
a drio a la riva ransignà a sbèssola.
Du schei de vento a remengón
spìssiga come in peldoca la chiete
che ’l merlo à messo in gabia
sensa spetàr el scroco de la baiardela.
Su le coste de ’n peagno in suta
s’incròcola usertole da la coa mora
e ligaori che po’ pantesa e supia
a le rane co i oci mesi a spingolón
su la pagina morbia de la paciarina…
Emo inparà lì a silabàr noantri,
e a stroo sérene infìn ragosi
par na osse spartia tuti insieme
– acoa, lusertole, salgari, vento –
che po sbronbolaa in eco busiara
scrimajando a destìn el senso de la vita…
L’eco – Cerchi silenziosi, forse di tinca, / si dipanano accavallandosi nell’acqua / all’ombra di un salice dai capelli arruffati / e sbrindellati che scendono fino a sciacquarsi / lungo la riva rattrappita come un mento aguzzo. / Due soldi di un vento ramingo / pizzicano di tremiti la quiete / che il merlo ha ficcato in gabbia / senza aspettare che scattasse la serratura. / Tra le costole di un ponticello rinsecchito / paiono sonnecchiare lucertole dalla coda scura / e ramarri che poi ansimano e soffiano / alle rane dagli occhi lasciati a penzoloni / sulla pagina morbida della poltiglia… / Abbiamo imparato lì a sillabare noi / e con il buio eravamo tutti rauchi / per una voce gridata tutti quanti assieme / – acqua, lucertole, salici, vento – / che poi affiorava in un’eco d’inganno / scimmiottando a destino il senso della vita…
El tarabèl
Sì! tuti tuti i saea de ’n arfio in ruseno
a cancani inmagatè da ’l tenpo
che supiaa a note ne l’ispio de la usta
…solo la usta….
E a chel sgarufar tuti tuti i corea
a inasiar la tola
e la minestra e codeghe
e ’l salado co ’l grugno a ’l baldachin
e ’l crinto noo
da pociar a pan intabarà in la sendre.
A boca piena le ore …una?… diese?
…sento?…
le sbrumaa ’l sal de na balansa muta.
Su ’l fogolàr le sginse le indrissaa ’l pel
infrusinando in s-ciapo
l’eco de ’l silensio.
Po’ a piato lustro n’ocià apena,
e co la caessa ’ncora in sbrindolón
el se sfantaa a caval mato in la nebia
inpapolando a crussi
’n stroo da i labri ingordi de peldoca.
Par pì de ’n ano
ricordo
restaa a niàl de fole le péste su la neve.
L’uomo nero – Sì! tutti tutti sapevano di un vento che strideva di ruggine / su cardini con le cispe del tempo / e che soffiava a notte con il lezzo di chi punta alla traccia / …solo alla traccia… / Ed al suo impetuoso spirare tutti tutti si affannavano / ad apparecchiare la tavola / e la minestra con le cotiche / ed il salame dal grugno volto al baldacchino / e il clinto nuovo / da intingere d’un pane avvolto nella cenere. / A bocca piena le ore …una?… dieci? / …cento?… / spartivano il salino d’una bilancia muta. / Sul focolare le scintille raddrizzavano il pelo / coprendo con mannelli di fuliggine / l’eco del silenzio. / Poi, vuotato il piatto, lui alzava gli occhi appena, / e con la briglia ancor a penzoloni / si dissolveva come un cavallo impazzito nella nebbia / inzaccherando di presagi / quel buio dalle labbra fameliche d’angosce. / Per più di un anno / ricordo / rimanevano a nido di fole le sue impronte sulla neve.
E po’ sfantàrse
E po’ sfantarse a l’orisonte con ti,
stela boara,
là ne le storie-memorie
che i labri de ’l dì i taca a scrimajàr
cuando ’l cel ’l gà ancora
sgrendeni a ’l stroo
sora i oci.
Essar arfio leser che se smarisse
de siera e colori
su le ale de n’eco spaìsa
che sbrindola ìa a n’ultima caressa.
Scancelarse a pian
come domanda inuda a ’n silensio
che no biassa risposte,
come ’n parché che buta a graspia
mel e fiel
ne le vene de ’l tenpo.
Sì, sfantarse a l’orisonte con ti,
stela boara,
sbrancà de molecole a l’orba
che no gà bisogno de ’l baso de ’l sol
par negarse ne le péste de l’infinito.
E poi dissolversi – E poi dissolversi nell’orizzonte con te, / o stella dei bovari, Venere, / là nelle storie-memorie / che le labbra del giorno iniziano a scarabocchiare / quando il cielo ha ancora / capelli di buio / sopra gli occhi. / Essere respiro leggero che sbiadisce / al viso i colori / sulle ali di un’eco sfuggente / che si ritrae anche a un’ultima carezza. / Sparire lentamente / come nuda domanda rivolta a un silenzio / che non cerca risposte, / come perché che riduce a sciapo vinello / miele e fiele / nelle vene del tempo. / Sì, dissolversi all’orizzonte con te, / o stella del mattino, / manciata di molecole cieche / che non hanno bisogno del bacio del sole / per annegare nelle orme dell’infinito.