Ruggine e oro di Marco Munaro 

Recensione di Nelvia Di Monte

 

Paesaggi della memoria è il filo conduttore scelto per descrivere questa raccolta di poesie di un autore che ha conservato “lo sguardo della corrente, il sentire tenero e forte della Natura” dei luoghi dove è nato e vive (il Polesine, con i suoi numerosi canali  tra l’Adige  e il delta del Po e, nel mezzo, Rovigo). Nel prologo in prosa poetica Nulla se non il nome, Marco Munaro aggiunge che quest’acqua è “entrata in me nel mio fluire e insabbiarmi, nella mia musica segreta e nei miei silenzi”. Ad un movimento di superficie, fatto di camminate lungo argini e boschi o di percorsi attraverso paesi e città, si affianca un movimento nella profondità della memoria. Innanzi tutto quella comune, che dal territorio abitato filtra e permane nella storia, nella cultura, nella lingua e nel dialetto, nelle case e nella presenza di chi lì vive o è vissuto. È un insieme di tracce, di elementi tangibili o così lontani da essere diventati quasi mitiche fantasie, ma tutti insieme costituiscono quel substrato che non smette mai di offrire segni al presente. Segni a volte celati, come resti di edifici scomparsi o come antiche parole rimaste nell’etimologia di località, fenomeni, attività, ad esempio la ruggine del titolo, che si riferisce ad una malattia del grano citata da Virgilio, la “robigo” così prossima al nome della città. Sono molte le citazioni, esplicite o più velate, a poeti latini, ad autori moderni e contemporanei, in un colloquio che interseca epoche e scrittori.

E c’è la memoria personale, intima, strettamente connessa all’altra, ma che mantiene un nucleo irriducibile, più arduo da esprimere perché la descrizione di una località o di un ambiente naturale dà inizio ad un insieme di suggestioni sensazioni pensieri che si rimescolano come acqua dolce e salata ad una foce che chiama / dove non c’è nessuno / e anche i ricordi svaniscono // con l’orma delle cose / perdute (…) nello stupore / di uno sguardo che  tocca la sua fine.

Anche in altre opere (ad esempio Ionio e altri mari), Marco Munaro ha sempre mostrato un rapporto privilegiato con i luoghi, che non costituiscono un generico fondale, come la natura non è ornamento né semplice specchio per riflettere stati d’animo. Il paesaggio è lo spazio della vita, caratterizza chi vi abita, gli offre storia, esperienza, amicizia, bellezza, conoscenza, immagini, ricordi. E parole, che svelano ed estrinsecano l’intimo legame tra la concreta fisicità e il senso che ciascuno dà al proprio essere al mondo: “Ciò che uno pensa e dice è un seme del luogo che lo abita, e il pensiero e l’anima, come la parola, fioriscono in un luogo” (in Nel corpo vivo dell’aria).

Nelle prime due sezioni (delle quattro in cui è suddivisa questa nuova raccolta) ci sono diversi testi lunghi che si snodano passo passo dentro lo spazio geografico con diverse modalità di sguardo e prospettive. In Andando a piedi sull’argine verso il Tartaro (il canale di Levante del Po), se le località sono definite nei nomi e perfino nei numeri civici delle case, più complesso diviene esprimere l’esperienza di attraversamento del tempo minimo, del tempo / lento, lungo il fiume che scorre con una qualità di silenzio / pieno di voci che non si dovevano nominare / finché venivano alla bocca / come qualcosa di non ancora udito, non ancora detto / o detto molto tempo fa, a nessuno.

La visione e l’ascolto sono le modalità più adatte a cogliere ciò che permane, siano esse le vestigia di un passato che resiste nella tradizione del luogo, come avviene per Carpanea, una città scomparsa dopo piene e terremoto, ma ancora citata da un poeta dialettale. Oppure le tracce della propria storia individuale, che guidano il ritorno del poeta alla tomba della madre, nello struggente poemetto 6 Ottobre che chiude la prima sezione, in un intreccio così fitto di vividi ricordi e tacite domande da rendere quel momento quasi irreale: da non credere di esserci stato nel sole vero / dei giorni che passano e restano nella memoria / vaghi mentre tu ti perdevi nel buio. Immaginare che nel cuore della madre il mio volto, / c’era come un volo o un richiamo dai pioppi non esprime solo il desiderio del figlio di sapersi dentro una genealogia che la madre rende possibile, ma indica anche un tratto distintivo di Marco Munaro: l’importanza data agli aspetti pittorici e visivi (talvolta visionari) nella sua scrittura poetica, frutto di una sensibilità personale e di una assidua frequentazione di amici pittori e fotografi, confluita in diverse iniziative culturali da lui organizzate, quali mostre e pubblicazioni, e qui rappresentata da varie poesie ad essi dedicate, in particolare nella terza e quarta sezione.

Luoghi significano possibilità di incontro, di attraversamenti e di condivisione tra persone immerse in quell’angolo di mondo dove più visibile si fa il destino o si delinea un segreto o si cerca un senso nella vacuità delle cose, come avviene per le due strambe figure di Ciuso e Ciaro che tra loro parlano una lingua indecifrabile a / brandelli tra la guerra e l’alluvione, personaggi un po’ folli scampati fuori tempo / i parenti cangianti della luce // dell’aria, della terra / e delle lentarine / nel fosso, di quello che c’è – e poi / scompare.

La poesia di Marco Munaro è la testimonianza intensa e sincera del fatto che ogni esistenza dipende da un preciso spazio geografico, ne viene plasmata in un imprinting indelebile che nella condivisione trova nutrimento e bellezza. L’ultimo testo, dedicato al figlio Cosimo, si collega idealmente al primo e non chiude, ma illumina tutta la raccolta proiettandola in un ambiente insieme domestico e immaginario, dove si rinnovano la stagione e il naturale passaggio di consegne tra le generazioni. Padre e figlio sono assorti in uno sguardo sul paesaggio che appartiene a entrambi ma che ciascuno declina nel suo intimo, simile ad un sogno che all’alba lentamente trascolora nella realtà circostante.

 

 

Galilei

 

                                                           A Co’

 

Cosa vedi laggiù dalla finestra?

Un muro, una ragazza che passa

o una formula che spiega il tempo?

È maggio siamo avvolti dalla

maestà degli alberi verdi e quasi in fiore

io guardo i fili d’erba matta

le spighe d’oro

i cardi che fra poco scriveranno

i loro calligrammi nell’aria

e penso al tuo pensare

alle parole di una canzone amata

correndo

la mattina quando suonano le campane

nella via deserta

e ti svegli

 

 

Marco Munaro, Ruggine e oro (Il Ponte del Sale, Rovigo 2020)

 

 

Nelvia Di Monte

 

 

Pubblicato il 10 maggio 2020