Profonda analisi in Poeti nei dialetti d’Italia – Annotazioni critiche 2010-2022 (Cofine, 2023) di Pietro Civitareale, poeta, prosatore, saggista e critico letterario. Sostenuto da citazioni, note critiche e un solido apparato biobibliografico (e la premessa che gli scritti contenuti nel presente volume non sono l’esito di scelte premeditate, ma il risultato di eventi occasionali rientranti nelle possibilità temporali ed operative dell’autore), l’e-book si articola in tre sezioni, molto più che semplici profili dedicati ad autori di ieri e di oggi allo scopo di qualificare, giustificare o testimoniare la loro presenza nell’ambito della poesia italiana del Novecento ed oltre.
Nella prima, Poeti di ieri e di oggi, leggiamo di Biagio Marin (1891-1985), “nome molto noto nell’ambito della ricerca poetica dialettale” (…) “per la singolarità del suo strumento linguistico”, il dialetto di Grado; “(…) lingua che risente dell’assetto fonico-strutturale della lingua tedesca appresa” (…) in un ginnasio-liceo tedesco”; del romagnolo Tolmino Baldassari risalta la “ funzione di riparazione e risarcimento” d’una scrittura diretta “al recupero degli oggetti, delle figure, dei personaggi, degli ambienti, degli umori di una memoria autobiografica”, e che “nulla concede al folclore, al bozzetto popolare o alle banalità del più vieto municipalismo”. A seguire, Vittorio Clemente (1895- 1975), che usa il dialetto abruzzese in forma e sostanza come processo e “volontà di autoidentificazione col paesaggio umano, storico e geografico” dei luoghi; gli studi e i giudizi espressi sulla sua opera concordano “ nel riconoscere alla sua poesia un lirismo personalissimo, dove il peso d’una certa letterarietà incide in maniera profonda”. Tra i maggiori poeti del Novecento che scrivono nello stesso dialetto, il nome e l’opera di Alessandro Dommarco (Ortona, Chieti, 1912 -Roma,1994), di cui si rammenta una importante edizione critica dei suoi versi editi e inediti: “un solo grande libro” scrive Pietro Civitareale, un “libro-arca” (…), “sia perché custodisce memorie d’un passato (…)” che “eventi e motivi di una intera vita”, insieme a “una raffinata elaborazione filologica”. L’elaborazione testuale di Walter Galli (Cesena, 1921-2002) si serve di un linguaggio essenziale “sia sul piano prosodico che sintattico, in modo da raggiungere una notevole ed incisiva espressività”; l’autore ricava “dalla rivelazione del tragico quotidiano quegli elementi di verità in grado di emblematizzare i contenuti della riflessione”, (…) “sulla negatività dell’essere, esemplato dai drammi di cui sono intessute le storie dei suoi personaggi popolari”. Molte le plaquettes in romanesco di Mario Dell’Arco (Roma 1905 – 1996), cantore della sua città, della “grandiosità dei suoi monumenti e delle sue chiese, (…), delle sue piazze, delle sue vie, dei suoi ponti”; si tratta di un poeta che ha “saputo reinterpretare l’umorosità, l’ironia, l’icasticità, la finezza espressiva della grande tradizione poetica romanesca dal Belli al Pascarella al Trilussa”; il suo lavoro volge a “una raffigurazione fantasticante della realtà delle cose senza tuttavia precludersi la possibilità d’una nitida e a volte impietosa oggettività”. Autenticità e libertà espressiva proprie del dialetto, pienamente si realizzano anche nella ricca produzione di poesia di Franco Loi, tanto nell’uso di invettive che nei toni epigrammatici o in quelli “beffardi ed osceni pur di colpire a fondo i suoi obiettivi”. Immigrato da Genova a Milano e qui cresciuto, il poeta “della solitudine e della delusione” contrasta il senso di straniamento e di spoliazione con “una sorta di lingua privata, personalissima, in cui l’immagine tende a sfumare in una visionarietà quasi onirica che ritrova i suoi luoghi deputati in una città deserta e spettrale”. Dello scrittore in prosa e in versi Pier Paolo Pasolini risalta “l’oscillazione dominante, il ritmo di fondo del proprio essere, che lo conduceva ad una identificazione dell’Io (…) con la Parola e dunque ad un atteggiamento lirico diffuso e dilatato che non trovava mai la resistenza di un oggetto”; in dialetto friulano egli esplicita “la strenua, incessante ricerca una “poesia totale”, (…) a “superamento d’ogni suddivisione e frammentazione del campo artistico”.
Differenti registri linguistici convivono nella poesia di Vincenzo Luciani: il dialetto garganico, lingua nativa, e la lingua italiana, “con innesti testuali in romanesco e persino in piemontese”. La sua limpida scrittura affronta temi legati a situazioni oggettive e all’esperienza soggettiva qualunque sia lo “strumento linguistico utilizzato, a prescindere dal suo peso sociale e dalle sue virtualità comunicative ed espressive”, con una resa sempre efficace nel de-scrivere, (…) senza retorica” i temi attinti dalla “realtà esistenziale e sociale in cui vive ed opera”. C’è “uno schema ideologico che oppone il sogno alla ostilità dell’esistenza, la coscienza del presente alla corsa inarrestabile del tempo”, nell’espressione poetica di Nevio Spadoni, autore che predilige il componimento breve, “chiuso nella sua prevista durata d’occasione paesaggistica e di stato dell’anima, d’osservazione o d’assorto giudizio sulle cose”. Nei suoi versi il dato sentimentale è sostenuto da una “accurata elaborazione formale” dei contenuti: le stagioni e gli affetti, il “destino dell’uomo (…) tanto più ansioso e sgomento quanto più il poeta accetta la condizione di sbandamento e di dissolvimento del mondo dei padri”. Anche in Cosimo Savastano (Castel di Sangro 1939-2022), vige il dato memoriale-biografico, dopo i precedenti esiti d’una poesia “segnatamente popolare” da cui si staccherà per abbracciare “una visione della realtà naturale ed esistenziale più inquieta e riflessiva”. Ricorrono figure antiche, la nonna, la custode delle tradizioni, e il fiume Sangro, “presenza stimolante nella fantasia del poeta, che lo ricorda limpido e splendente”, ora ai suoi occhi “torbido e fangoso”. L’uso di “un arcaismo linguistico” si fa mezzo di recupero “di quella maniera spontanea (…) di aderire alle cose e di riconoscersi nel vincolo naturale delle generazioni”.
Tripartita, la sezione Testi e contesti riguarda Cinque secoli di poesia dialettale siciliana, poesia “che presenta, in tutta la sua storia, caratteristiche inconfondibili, il cui ambito coscienziale e strutturale possiede un di più che alimenta il territorio dell’immaginario”. I temi variano “dall’effusione sentimentale all’insinuazione ironica (…), dall’effervescenza ludica e scatologica alla pronuncia didascalica e gnomica, in uno straordinario repertorio”, un viaggio nelle “radici di una terra continuamente reinventata e riproposta alla coscienza”. Si registra la presenza poetica a Catania, tra il 1480 e il 1530, di Bartolomeo Asmundo; a seguire, tra Seicento e Ottocento, D’Avila, Veneziano, Paruta, Gravina, Moraschino, Maura, Gambino, Meli, Domenico Tempio e, tra Ottocento e Novecento, Martoglio, Di Giovanni, Guglielmino e Vann’Antò, “autori di indiscussa dignità e compostezza formale”. E la presenza di Ignazio Buttitta (1899- 1997), poeta-raccontatore di fatti “tra forme recitative e forme chiuse, tra (…) invettive e lamento, tra vocazione pedagogica ed enunciazione didascalica”. Tra i rappresentanti di una tradizione letteraria che si presenta “folta e variegata”, differenziata sia stilisticamente che nella scelta dei temi, Domenico Tempio (1750- 1821), e i suoi sapidi, irriverenti versi, si distingue per “un realismo non di rado aggressivo e provocatorio, anticlericale e di forte carica sessuale”; diversamente, quello di Giovanni Meli (1740-1815) è un dettato compositivo impregnato di un ideale anelito “di pace e di serenità d’animo (…) in seno alla natura, ossia lontano dalle ambizioni e dagli affanni della vita”. Nella poesia di Santo Calì (1918-1972), “considerata il prodotto più significativo offerto dalla tradizione dialettale del secondo Novecento”, prevale il timbro dell’invettiva e della denuncia civile, e anche una certa “vocazione al canto, alla confessione lirica, alla evocazione affettuosa”, insieme a una vis polemica rivolta a “un certo passato storico e culturale”. Sapienza ritmica e afflato lirico sono le cifre espressive di Umberto Migliorisi, la cui voce agisce “nell’ambito di una visione prevalentemente descrittiva, della realtà delle cose e di una cantabilità da stornello popolare”; la sua poesia è “di una leggibilità gustosa ed avvincente”, ma non del tutto priva da certe “venature espressionistiche”. Consiste in una sola raccolta la produzione in siciliano di Antonino Cremona, con cui egli esprime sia “il suo sentimento amoroso” che la sua “attenzione alla variegata fenomenologia della natura”. Diversamente, quella dell’acese Mario Grasso offre un ventaglio di titoli e temi nel segno d’una costante ricerca sul dialetto del suo territorio; la sua penna esamina e approfondisce molti temi, tra cui quello d’ una “identità antropologica che la modernità ha messo in crisi”. Il discorso prettamente lirico di Salvatore Di Marco consiste, invece, nel tentativo “di calarsi, attraverso il dialetto, nel cuore stesso della parola per coglierne la magia, le virtualità espressive, la capacità di nominare e di saper dare vita alle cose”. Segue Andrea Genovese, con una poetica “dizione che ha, nella sua sostenutezza, qualcosa di raffinato e di popolare insieme, con punte di arguto moralismo e di velature autoironiche”. I suoi versi conferiscono “alla realtà evocata una colorita vivacità”, non priva però del “peso di una inquietudine (…) specchio d’una condizione di disagio dell’uomo del nostro tempo”. Poesia della memoria, d’una memoria privatissima circoscritta in un ben preciso luogo, quella di Nino De Vita, il quale trae dall’esperienza “materiali che pertengono più al reale che al fantasioso, più al racconto che al frammento lirico”. Il paesaggio naturale e quello antropico, il mondo dei semplici sono una “drammaturgia limpidamente scolpita, affidata a movenze d’un essenziale impressionismo”. Senza interpunzione e “senza limitazioni metrico-ritmiche”, l’opera di Salvatore Bommarito “obbedisce esclusivamente alla sua istintiva esigenza di esprimersi” per denunciare gli “aspetti incongrui e degradati della realtà sociale fino a pervenire ad un sentimento di implicita condanna, nei termini di un atteggiamento morale non lontano da una forma di pedagogia”. I versi in rima di Rocco Vacca si muovono sul duplice versante della denuncia e del “sentimento amoroso”; dal punto di vista dello stile, il poeta elabora “una certa reinvenzione interiorizzata del dialetto, la tendenza ad assecondarne forme di metaforizzazione”. Poeta oltre che studioso della poesia in siciliano, Marco Scalabrino mette in campo una produzione “che nasce da una volontà di coniugazione temporale in cui il Soggetto e l’oggetto, l’individuo e gli altri, il mito dell’uomo e quello della società costituiscono il territorio di una stessa ricerca dello stato vero delle cose”; si tratta, osserva Civitareale, della “presa di coscienza di una realtà esistenziale di fronte alla quale l’uomo denuncia tutta la sua impotenza”, prova ne sia “un dettato poetico ridotto al minimo lessicale, oltre il quale non vi è che il silenzio”. Di pacato, profondo e ben ritmato respiro, l’opera dialettale di Renato Pennisi si alimenta della cordialità e del tocco delicato, e insieme incisivo, di un racconto poetico sorto dall’esperienza personale “redatto sia nel versante, remoto e statico, della memoria che in quello, mobile e polivalente, della riflessione, con un senso nostalgico (…) della perdita”. Pervasa da un empito discorsivo, la poesia di Giuseppe Samperi attinge a una “quotidianità sublimata da una intensa capacità fantasticante, convalidata da una versatilità (…) plurisillabica (…) indice di una autonomia di giudizio (…), legato ad una forma di autobiografismo e dunque ad un implicito rapporto con la propria terra d’origine”; l’isola, paradigma esistenziale, è molto presente, in tema e in memoria, anche nell’esperienza creativa di Grazia Scuderi; il termine “isola” è concetto coincidente con “un senso di separatezza, di solitudine, di indifferenza, di voluta e perseguita estraneità”, che genera un “atteggiamento contemplativo” della vita, delle cose, della realtà.
Dedicata ai Poeti dialettali abruzzesi del Novecento è la seconda parte di Testi e contesti nella quale Civitareale premette che nonostante “lo sforzo della politica post-unitaria tendente a portare il mezzo espressivo sullo stesso piano di omogeneità raggiunto dalla unificazione politica”, il dialetto abruzzese “parte da una situazione linguistica divisiva, parcellizzata”; a metà Ottocento si collocano i sonetti del chietino Giustino Razionale, composizioni improntate “ad uno sferzante moralismo, ma privi di un’autentica vis satirica, a cui si accompagna (…) una scarsa capacità di elaborazione letteraria dello strumento linguistico dialettale”. Diversamente, Luigi Anelli (1860-1944)1 e Gaetano Murolo (1858-1903) utilizzeranno le risorse del dialetto “in funzione alternativa rispetto alla lingua nazionale e in una situazione culturale già affrancata da un passato di isolamento e che, pertanto, si muove al passo con i tempi dei movimenti letterari nazionali”. La svolta più significativa si deve a Fedele Romani (1855-1910), “tra i primi ad applicarsi allo studio sistematico del dialetto e delle tradizioni popolari” per stabilire un legame, un’appartenenza “con le proprie origini”, in una sorta di ritorno emotivo e sentimentale in forma di “nuove possibilità espressive” dopo il soggiorno a Firenze. Dall’analisi della produzione di Cesare De Titta (1862- 1933), emerge una poesia di timbro popolare, di rielaborazione dei temi afferenti “una quotidianità consunta e abitudinaria” convertita in “esaltazione favolosa, funzionale ad una trasfigurazione agiografica dell’Abruzzo”. L’esigua produzione del sacerdote Evandro Marcolongo (1874-1959), la si ricorda sia per il “più puro idealismo” che per l’impostazione classica nella costruzione del verso, sì da richiamare la figura poetica di Giovanni Pascoli “sia per i suoi sentimenti umani che per la familiarità dei suoi temi”.
Stilisticamente diverso, Alfredo Luciani (1887-1969) nutre la propria poesia con scrupolosa attenzione rivolta a “una realtà regionale ben definita e identificata, in obbedienza ad una koiné linguistica che tende a vedere il dialetto (…) come una sintesi ideale delle tante parlate regionali nelle loro diversità fonologiche ed accentuali”. Autore d’un versificare in forma “più dimessa ed umile, ma più immediata e prensile”, è Modesto Della Porta (1885-1938), che imprime alla scrittura un andamento più dinamico, incline “più al racconto e alla battuta di spirito che allo scavo interiore e alla riflessione intimistica”; e se talvolta non “riesce a superare i limiti del bozzetto e del racconto moraleggiante”, tuttavia ciò non gli impedisce di esprimere il “sentimento profondamente tragico dell’esistenza”, tema sviluppato da Umberto Postiglione con una scrittura “emotivamente intensa e linguisticamente rifinita” nella quale “la visione del mondo” si intreccia al sentimento per l’umana sofferenza. Nel primo trentennio del secolo scorso, altri autori procedono a personalizzare il proprio dialetto, “non più nell’intento di rappresentare la comunità, di rifrangere l’io nella varietà delle sue figure e delle sue connotazioni sociologiche”, piuttosto, con la precisa volontà “di assumerla su di sé, di riconoscerla nel proprio destino”. A Guido Giuliante (1912-1976), anche “autore di commedie, fiabe musicali ed oratori”, considerato tra gli esponenti più significativi della poesia in dialetto abruzzese, viene riconosciuto il merito di avere valorizzato e “consacrato definitivamente la poeticità del dialetto abruzzese, rituffandolo nella matrice primigenia della parlata e del clima del borgo”, nonché quello di avere dato vita a “un nuovo modello linguistico”. Del viaggio esistenziale parlano i testi di Giuseppe Tontodonati (1917-1989), di un itinerario biografico di particolare specificità “etico-sentimentale”, nonché ricco “di temi, umori, situazioni, eventi, figure, nei modi espressivi di un “racconto” che si dipana (…) tra modulo lirico e modulo narrativo”. In Walter Cianciusi , la memoria di “un passato rivissuto come in un sogno, nei termini di un onirismo estraniante che (…) si offre come una teurgica trascrizione della realtà delle cose”, insieme a “una dimensione spirituale che accoglie in sé una materia umana e sociale per riesprimerla col segno di una adesione partecipe e cordiale”. Esaminando l’esperienza di Ottaviano Giannangeli , la sua “scrittura sorvegliatissima” connotata da una “rara sapienza scrittoria”, balza in tutta evidenza un preziosismo linguistico che sapientemente coniuga “cultura e immaginazione, memoria e riflessione”. Anche in Evandro Ricci sono presenti uguali coordinate poetiche, soprattutto quando egli rivolge l’attenzione, e pone in posizione centrale “il sentimento amoroso, inteso nella sua accezione più ampia”, ovvero come spinta e “unica vera forza”, che dà valore alla vita. Particolarmente apprezzabile l’abilità compositiva di Elisabetta Antonangeli, “sia sotto l’aspetto strutturale che ritmico-sintattico”. I suoi versi conferiscono “alla rappresentazione della realtà naturale ed esistenziale”, un certo realismo non del tutto privo di “deviazioni allusive”, “scantonamenti metaforici”. L’esperienza poetica in dialetto di Luigi Morgione, diretta “a nobilitare ogni atteggiamento elegiaco e pessimistico nei confronti della realtà esistenziale con un dettato umoristico, epigrammatico, persino scherzoso”, è un percorso che agisce “in un ambito di recupero stilistico autoctono, salvo poi a volerne ricercare le antiche radici in una più ampia e comune area storica”. La modalità versificatoria di Giuseppe Rosato, si è negli anni “concretata in una serie di prove di indiscutibile valore”. L’opera della maturità, in particolare, possiede “un timbro esistenziale” (…) “più inquieto e reattivo, acceso da continue contrapposizioni temporali, da interazioni dialettiche tra presenza e memoria, realtà e immaginazione”, sempre in costanza di interrogativi, di irriducibile “ricerca di improbabili risposte”. Della poesia di Pietro Civitareale, curatore appassionato di questo volume, si riporta stralcio di alcuni giudizi critici tra cui quelli di Franco Brevini (“il suo abruzzese obbedisce ad un canone monolinguistico, è un codice interiore, adibito ad un’operazione rigorosamente lirica, in un quadro di poesia che guarda ai grandi modelli della tradizione regionale”), e di Giorgio Bàrberi Squarotti (“quella di Civitareale è una poesia di ampio respiro. La lezione fiorentina ha, in qualche modo, mediato la conversione dialettale, fornendola di una consapevolezza di storia e di idee non frequente in una poesia in dialetto”).
C’è, nei versi di Vittorio Monaco una vena “elegiaca, ma d’un elegismo rappreso, dove affiora un passato cristallizzato con i suoi segnali di desolazione e di abbandono”. Nella sua produzione egli esprime e testimonia la perdita di un mondo, la “progressiva sparizione di un certo tipo di cultura popolare”, e anche il “disagio linguistico della nostra civiltà letteraria”. Nella sua “dialettalità intrisa di elementi antropologici appartenenti ad un mondo chiuso nella sua struggente specificità culturale”, Camillo Coccione imprime al suo “un lirismo affrancato da urgenze polemiche, da tensioni alienanti”; si tratta, scrive tra l’altro Civitareale, d’una poetica “della memoria e del disincanto” che non indulge nel bozzetto, bensì “riesce ad oggettivare il sentimento dell’io poetante nell’intento di portare in primo piano la vicenda personale”. Definita “poesia della visività”, la produzione di Mario D’Arcangelo cattura, della realtà naturale, le luci e le ombre, segreti ed epifanie, grazie a “immagini-chiave, ipotesi esistenziali bloccate in eventi naturali, (…) che si determinano sempre all’interno del tempo umano”. Composita e “disciplinata vena riflessiva”, nell’opera di Marcello Marciani. Di questo autore si rileva “una raffinata scelta lessicale e un insistito impiego di figure retoriche”, e anche “una vena di popolana ironia” che sfocia in sarcasmo e nell’invettiva. La poesia di Michele Lalla, la sua struttura” lessicalmente aspra ma sintatticamente salda e compatta, con punte idiomatiche spinte fino alla intraducibilità”, dà vita a “situazioni emotive, dove senso della realtà e slancio creativo si coniugano in una resa poetica di notevole suggestione”. Nella poesia di Vito Moretti, che al dialetto annette “risorse sintattiche, ritmiche e fonosimboliche proprie della lingua”, la scelta di un linguaggio tendente ad “ampliare il suo orizzonte tematico e a sfumare, dall’altro, certi connotati regionalistici”. Un lavoro, il suo, “di tale ricchezza e complessità intellettuale che la sua ricerca poetica in dialetto non poteva fare a meno di risentirne”, un percorso poetico basato sulla relazione “tra io, memoria e tempo”. Tra i poeti che prediligono “tematiche riguardanti gli eventi della quotidianità”, anche Franco Regi, che in forma discorsiva presenta la condizione spazio-temporale di un io poetante attento e rispettoso nei confronti della “propria tradizione culturale”, atteggiamento dello spirito che indirizza il suo operare verso “una concezione di vita di tipo popolare”. Infine, di Luigi Susi una “poesia come strumento di identificazione e risarcimento nei confronti delle difficoltà dell’essere”, sorta di auto-certificazione esistenziale a fronte “della enigmatica fenomenologia della realtà delle cose”.
Il discorso sul dialetto, sugli “aspetti evolutivi maturati in questi ultimi anni” prosegue con Poeti d’altre regioni , con i contributi critici di intellettuali e poeti (Pasolini, Dell’Arco, Mengaldo, Brevini, Spagnoletti, Vivaldi, Loi, Bàrberi Squarotti, Esposito, Piga, Stussi, Serrao, Tesio, Maffia, Cohen, Lenti, Pagan, Ciurnelli); della riqualificazione del dialetto si è occupato il lucano Salvatore Pagliuca, “assiduo studioso delle tradizioni locali.Nella sua opera la scrittura “estremamente incisiva e prensile, ma soprattutto libera da ogni indugio pregiudiziale”, afferma “la possibilità di farsi specchio di una temperie delle origini che sta via via perdendosi nel progressivo imbarbarimento del linguaggio della nostra epoca”. Nel dialetto di Reggio Calabria (con influssi espressivi ereditati dal padre, quello jonico, e della madre, della Piana di Gioia Tauro) Stefano Marino versifica con il “preciso intento speculativo e conoscitivo” della realtà e dell’esperienza, ovvero utilizza “una capacità rammemorante nella quale linguaggio e vicenda esistenziale, parola e autobiografia, si trasformano in un codice linguistico per iniziati”. Più terragna è invece la ricerca poetica della lucana Assunta Finiguerra, connotata da “un verso robusto ed accuratamente costruito; (…) che obbedisce soltanto a se stesso e nel quale rivela una notevole consapevolezza delle proprie possibilità e capacità di ricerca ed inventiva”; i suoi versi registrano “l’andamento melico delle cantate popolari, in cui il sentimento dell’esistenza umana, viene espresso” (…) con quella paziente positività contadina, (…) che non diventa mai disperazione né resa”. In dialetto calabrese di Rogliano, Daniel Cundari esplicita la sua “lodevole attitudine a cogliere, nella fenomenologia della realtà e nel fondo della propria interiorità, i tratti psichici emergenti e farne esempio di verità personali ed oggettive”. La sua poesia ha origine nell’ambito “d’una cultura plurilingue che il linguaggio dialettale, pur nelle sue ristrettezze strutturali e lessicali, non intacca minimamente, rendendole anzi più incisive e prensili nella singolarità della loro pronuncia”. Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta è un’antologia fitta di nomi, ma soltanto alcuni poeti “hanno a che fare col dialetto o meglio con idiomi (francese, piemontese e valdostano): tra questi, Remigio Bertolino, autore di due raccolte e di un’autoantologia nelle quali l’autore mette in risalto “quell’area circoscritta in cui si svolge abitualmente la vita dell’essere umano, (…) contesto comunitario che costituisce “il limite” culturale (e pertanto anche linguistico) dei personaggi e delle situazioni in cui si è chiamati ad agire”; e Giancarla Pinaffo la cui scrittura in piemontese e franco-provenzale “fa della leggerezza, delle scelte lessicali e strutturali del verso, un segno di autenticità e di naturalezza sia sul piano dei contenuti che su quello dei valori estetici e stilistici”; inoltre, con due antologie e due libri, l’opera di Ferdinando Grignola nella “varietà dialettale del Malcantone”, lingua locale con cui egli svolge “una vera e propria ricognizione della realtà sociale ed esistenziale della nostra epoca, attuata nei modi d’una ininterrotta catabasi nel quotidiano”, nell’intenzione “di coglierne (…) gli aspetti più segreti”. Nell’antologia Un altro Veneto, autori come Bandini, Bressan, Calzavara, Casagrande, Cecchinel, Della Corte, Munaro, Rebellato, Tomiolo, Zanotto, e il veronese Giovanni Benaglio, i cui versi compatti e originali trattano di “motivazioni interiori” e “richiami naturalistici”, nonché esaminano certi aspetti “della realtà sociale e culturale d’oggi”. In dialetto polesano-pavano Nina Nasilli esprime una scrittura poetica a “carattere esistenzialista” che predilige la “forma dialogica” con la quale mettere a fuoco le relazioni umane, esprimere il desiderio d’una intesa “tra gli uomini sia spirituale che culturale oltre ogni contingenza”. Il dialetto feltrinobellunese di Gian Citton è da considerarsi frutto espressivo di “contaminazioni provenienti dalle parlate dei paesi limitrofi”; con tale cifra linguistica l’autore tratta “argomenti corposi” tra cui gli affetti, la natura, l’io e la memoria, tutt’uno a “personaggi (…) figure tipiche di un’area circoscritta” intrisa di “abitudini secolari, arcaiche, consacrate”, il tutto reso in forma di “racconto di una civiltà unica ed inconfondibile”. Espone la “nuda verità delle cose” in dialetto vicentino di Bassano del Grappa, Eusebio “Berna” Vivian. La sua poesia induce a riflettere sulla “realtà delle cose e dell’esistenza umana, sull’esempio di certi classici dell’antichità greco-latina”. Scrive in dialetto dignanese-istriota, di una “identità antropologica e culturale messa in crisi da un lato, dall’esodo degli italiani e, dall’altro, dall’ondata immigratoria di popolazioni slave”, Loredana Bogliun. I suoi versi celebrano la terra natìa e le “figure familiari ed ambienti domestici”: l’esito è un dettato poetico “composito, in grado di estrarre dalla realtà quotidiana un sottofondo di riflessioni e meditazioni letterarie e sentimentali”.
In Poeti del Friuli, un “ampio corredo di referti critici e notizie biobibliografiche” su autori di indubbia personalità letteraria: Pasolini, Cantarutti, Bartolini, Zannier, Valentinis, Giacomini, Vallerugo, Tavan, Vit, Benedetti, Villalta, Cappello, Ivan Crico, e la sua versificazione elaborata «come se fosse un’opera di cesello». Risalta l’uso d’una parlata che rinvia a un “«sermo rusticus» costituito di pochi elementi essenziali” che ruotano intorno a “fatti di cronaca, eventi di non facile gestione e padronanza sul piano referenziale”. La struttura dei suoi versi è dunque fluida, scorrevole, dotata d’una “capacità evocativa di ampio spettro sia sul piano storico-linguistico che su quello antropologico”. Nella poesia di Nelvia Di Monte, nell’andamento narrativo dei versi “mero strumento veicolare della realtà evocata o esperita, nel senso che la parola sa adeguarsi perfettamente ai fatti oltre ogni ambizione retorica”, la memoria “svolge un ruolo fondante nella costruzione del dettato poetico”, del linguaggio la cui struttura e lessico denotano cura e precisione anche sul piano squisitamente emotivo.
Raccoglie esperienze poetiche in dialetto romagnolo e in lingua l’antologia D’un sangue più vivo; tra i poeti dialettali, Guerrini, Spallicci, Guerra, Galli, Pedretti, Baldini, Pedrelli, Nadiani, Baldassari, Fucci, Spadoni, Bellosi. Di Giovanni Nadiani il curatore rileva il “linguaggio di tipo sperimentale” e, dal punto di vista dei contenuti, la “impossibilità di una conoscenza oggettiva degli eventi della storia e della vita umana considerata nella sua individualità”; l’uso del dialetto romagnolo, definito dall’autore «lingua bastarda», per via delle “infiltrazioni alloglotte provenienti dall’esterno”, non significa per l’autore assecondare le tentazioni nostalgiche, bensì “constatare e accettare che oggi il mondo è impurità, incrocio, (…) meticciamento”.
Poesia “prodotta da un evento, da una mutazione dell’essere personale e oggettivo”, quella di Marino Monti, permeata da una “visionarietà che è una balenante capacità di concretare in parole la realtà osservata o semplicemente intravista; una visionarietà frammentata e verticalizzata”, perciò immersa “nel segreto delle cose” materiali e immateriali, un intreccio di “razionalità e sentimento, realtà e fantasia”. La lingua di Gianni Fucci, una varietà del dialetto santarcangiolese, diverso dalla parlata popolare, è dotata di “particolare spessore” e d’una “notevole ricchezza immaginifica e raffinatezza espressiva” sia quando affronta la “realtà cosmica” che la minuta ed esperita “quotidianità”. L’esperienza poetica di Gianfranco Miro Gori si affida a forme concise, “versi brevi”, “strofe contenute” che denotano la sua “capacità intuitiva, allusiva e quasi imperativa, sotto certo aspetti, assieme ad un atteggiamento sapienziale ed oracolare che obbedisce ad uno strumento linguistico sottratto ad ogni vincolo memoriale”. Tra le giovani voci poetiche si segnala il verso breve, la “sintassi a volte frantumata” del romagnolo Alex Ragazzini, la sua scrittura intorno a “riti ed usanze ataviche” d’antica memoria e “antiche filastrocche, nenie”, un omaggio o reminiscenza “di una tradizione orale” non del tutto tramontata. Tra tempo presente e tempo passato, la produzione di Sante Pedrelli affronta “l’inarrestabile fluire dei giorni” insieme a una insistita “intuizione di realtà surreali, nei termini di una scrittura che non assume mai contorni asseverativi”, piuttosto un dettato tendente “a farsi forma esorcizzante del “male di vivere”, (…) “come antidoto all’angosciosa consapevolezza che ogni cosa ha una fine, è destinata a perire”. Tuttavia, esiste e resiste “nella propria interiorità l’esigenza, se non l’urgenza, di manifestarsi, di affermare la propria presenza attraverso la parola”. Di tipo aforistico, la poesia di Dauro Pazzini “può essere definita una poesia del frammento lirico e sentenzioso”; nondimeno, essa presenta suggestioni e riflessioni “emergenti da una immediata visività, che ne fa uno strumento di asserzioni indubitabili, una maniera di guardare la realtà delle cose come l’unica via per potersi accostare alla verità, all’assolutezza del dinamismo fenomenologico della realtà”. Nasce e “matura ai margini della civiltà contadina” la poesia Giuseppe Bellosi, “nell’ambito di una società industrializzata e tecnologizzata” che l’autore indaga e giudica “nel suo punto estremo di degradazione e di disfacimento” tra realtà e memoria, per declinare, infine, “scarni contorni scenici, in un paesaggio desolato dove non regna che la solitudine”. La poesia di Agnese Fabbri -quasi un “diario nel quale oggettività e soggettività s’intersecano, offrendo momenti espressionistici di un intenso rilievo iconografico” – è intrisa d’un “realismo che oscilla da un affondo descrittivo ad un’aperta e sfrontata confessione della propria condizione esistenziale”. Tanto il dialetto (di Sassuolo) che l’italiano, per Emilio Rentocchini “hanno una medesima funzione, (…) una pari dignità espressiva e soprattutto le medesime virtualità nell’ambito letterario”. L’autore predilige “certe composizioni testuali, come l’ottava”, (…) “stanza poetica privilegiata”. La sua poesia “ha un’ascendenza classica”, scelta di fondo diretta “a nobilitare la parlata popolare, a farne cioè una vera e propria lingua”. In dialetto emiliano di Carpi, Lia Cucconi cattura ed esprime “l’universo puntiforme della quotidianità, il molteplice e ininterrotto differenziarsi delle situazioni umane, culturali e storiche” nonché le perdite familiari, tra cui la sorella. Ne consegue che il sentimento della morte diventi “presenza costante, ossessiva, indice di un sentimento inestinguibile, ma anche di una implicita “accettazione” di qualcosa che nega, ma afferma, nello stesso tempo, l’esistenza umana”. Il pesarese Gianluca Mancini utilizza il dialetto per confermare “l’autonomia d’ogni virtualità comunicativa della lingua orale considerata nella sua determinazione fonico-lessicale” (…). Il suo, non è “dialetto popolare, d’uso corrente; è piuttosto una “lingua” che egli “ricompone in base ad un plafond tematico personalissimo, ad una visività che scavalca ogni esigenza della oralità per crearsi uno strumento linguistico in grado di dare corpo e anima alla sua maniera di concepire l’esistenza e la poesia”. C’è, nella scrittura di Gabriele Ghiandoni, una certa propensione “più verso l’attualità che al mantenimento, e pertanto all’obbedienza, di valori e consuetudini delle origini”; sebbene la poesia in marchigiano non possieda “una solida tradizione letteraria”, tuttavia la ricerca del poeta realizza “una poesia fortemente incisiva nei suoi nuclei nominali, in cui il rapporto tra individuo e storia trova la sua reciprocità e collimazione culturale nell’assunzione di tematiche esistenziali in grado di fornire senso e ragioni alle necessità del presente e d’un prevedibile futuro”. L’uso alternato di dialetto e lingua, in Maria Lenti ubbidisce a un “premeditato modo di utilizzare” i due distinti linguaggi “nell’ambito d’uno stesso testo”, con la differenza che al dialetto, alla lingua dell’intimità, “sono assegnati interrogativi di carattere esistenziale e finalistico o facenti parte della tradizione popolare”, mentre alla lingua per così dire “storicamente acquisita” è demandato il compito di descrivere “una realtà sociale diventata sempre più estranea ad una identità culturale riconoscibile, ad una connotazione antropologica delle origini”. Realtà del presente che Anna Maria Farabbi, perugina, poeta in dialetto e in lingua, presenta in frammenti lirici deputati a comporre “il disegno complessivo della sua ricerca poetica, tesa soprattutto a mettere a nudo gli strati più profondi della propria interiorità, nei termini di un discorso nel quale azione e riflessione, partecipazione e disincanto, estraneità e coinvolgimento, rappresentano le coordinate portanti e distintive della sua esperienza poetica”. Nota per gli studi “sulla poesia in dialetto delle regioni italiane”, la perugina Ombretta Ciurnelli è poeta “di notevole personalità” e di originale registro espressivo. Nella sua scrittura coesistono “slancio impetuoso e resa incantata, tra desiderio e rinuncia, nell’ambito di una concezione dell’essere inteso come perpetuo metamorfismo”; il linguaggio da lei utilizzato non fa parte della tradizione popolare, il dettato poetico “rifiuta ogni forma di interpunzione, adeguandosi ad esiti strutturali e stilistici di certa poesia in lingua”. La sua opera tiene insieme “l’integrità emotiva ed intellettuale” sicché lo stile è chiaro e incisivo, tanto per “lucidità di pensiero” quanto per “linearità espressiva”. Sempre in dialetto perugino, Nadia Mogini scrive una poesia che “ha le doti della semplicità e, nello stesso tempo, della profondità, della essenzialità e della chiarezza”, doti tramite le quali smuove, scandaglia “la realtà con cui è indotta a confrontarsi quotidianamente allo scopo di affermarne una personale volontà di conoscenza e rappresentazione figurativa non senza un implicito intento pedagogico”.
Per quanto riguarda la poesia in dialetto del Lazio e di Roma in particolare, una speciale attenzione merita l’opera di Rosangela Zoppi, intitolata Lingua di Roma, nella quale la poeta e studiosa scrive di “proverbi e modi di dire”. Il suo accurato lavoro di “ricerca sia nell’ambito popolare che in quello della cultura filologica” è un apporto significativo per quanti vogliano conoscere modalità espressive e i costumi della Capitale”. Altro studio di autori e testi nell’antologia I poeti della provincia di Roma, a opera di Cosma Siani, si occupa della produzione dialettale delle diverse località del Lazio e relativi autori, tra cui Belloni, Fratini, Moreschini, Peruzzi, Porena, Scarpellino, Tommasino, e Rosangela Zoppi, il cui metodo e forma compositivi si pongono “al limite della convenzionalità, cioè tra lingua letteraria e dialetto”, registro linguistico con cui “la poetessa romana riesce a fornire l’idea e il senso d’un realismo marginale in grado di conservare della realtà quella naturalezza e quella serenità che sembrano essersi ritratte dal mondo d’oggi”; si tratta d’un linguaggio “ulteriormente raffinato sotto l’aspetto stilistico e letterario, acquistando una essenzialità strutturale e sintattica d’una notevole incisività figurativa e comunicativa”. Di Maria Lanciotti, “giornalista, pubblicista ed esperta di questioni sociali ed ambientali”, la scrittura in dialetto sublacense, lingua di adozione affettiva e memoriale luogo d’infanzia e di vacanze estive. La radicata memoria dei luoghi e delle persone “la conduce ad una ferma riflessione sugli eventi della vita e sul suo fatale traguardo, nei modi di un dettato poetico di carattere affermativo e dove un sentimento di reciproca comprensione e concordia tra gli esseri umani sembra essere il suo principio fondativo, la sua cifra etica ed inventiva”.
Infine, la Sardegna, area geografica portatrice d’una lingua a sé stante, “un parlare (…) arcaico con spiccate caratteristiche lessicali, morfologiche e sintattiche assai diverse da quelle degli altri dialetti italiani”. In tal senso può giustificarsi la scarsa produzione letteraria “sia sul piano numerico che qualitativo”, dovuto proprio all’isolamento etnico e territoriale. Di contro, è la letteratura a farsi ideale e pratico “strumento di risarcimento” con le poche sue novecentesche voci poetiche: Antioco Casula, (1878-1957) e Salvatore Casu (1902- 1987), Francesco Masala (1916-2007) e Pietro Mura (1901-1966), cui va riconosciuto “ il merito d’aver affinato la propria esperienza poetica con la conoscenza dei nostri migliori poeti del Novecento”; infine, Mario Pinna (1912-1997), Efisio Collu (1932-2006) e Leonardo Sale (1934) sino ai contemporanei Maria Grazia Cabras e Sergio Cicalò, autore che “conferma, in una certa misura, questo isolamento linguistico, affidandosi ad un dialetto impiegato nella sua varietà cagliaritano-campidanese che possiede (…) sonorità vagamente catalane”. Rispetto ai diversi linguaggi vernacolari, la sua poesia possiede originalità, insieme a una “implicita capacità mimetica, per la sua stretta consonanza con la realtà vissuta e rappresentata” in modo diretto, “senza aloni allusivi o metaforici, obbediente ad un realismo del vissuto quotidiano che reclama una piena dignità espressiva”.
Nella sezione Note, prefazioni, recensioni dedicate ad autori/autrici, la prima delle quali è Ida Vallerugo, e della quale si esamina la produzione precedente e soprattutto il secondo libro di poesia in dialetto friulano, Mistral. Osserva Civitareale che il titolo richiama “Frédéric Mistral, cantore di Mirèio e la sua Provenza”, regione francese assunta a tematica poetica e liricamente evocata nel paesaggio, nei “riferimenti onomastici e toponomastici”, segno non solo di una ricerca originale, ma anche “ scoperta di un nuovo livello linguistico che una indiscutibile perizia tecnica e una lucida intelligenza emotiva si incaricano di sistemare in un disegno determinato, fino a sogni allucinati di regressione alle origini”. Non manca il ricordo commosso di un poeta in dialetto e in lingua, nel saggio “Per Achille Serrao” (1936-2012), di cui si esaminano la vita e l’opera, testi poetici impregnati da “quella insufficienza ad essere, quel sentimento d’una condizione esistenziale minata dall’angoscia” (condizione presente in gran parte della sua poesia), cui si accompagna il netto, deciso “rifiuto d’ogni forma consolatoria che non fosse la vicinanza della figlia, per la quale è ancora disposto ad inventare «rose fiorite al primo soffio di primavera»”; malgrado tale predisposizione d’animo, Serrao sa cogliere e restituire in forma di scrittura “stupori e nostalgie, epifanie e rimpianti”, insieme alla bellezza offerta dalla natura e dai legami familiari, argine alla inevitabile “caducità d’ogni cosa umana”. Del poeta e critico letterario Marco Scalabrino, Saggi di poesia dialettale siciliana, un prezioso lavoro di ricerca e studio critico “intorno a figure letterarie molto presenti in Sicilia”, una indagine condotta “nell’intento di definire i confini di una “lettura” aperta, continuamente disposta alla revisione e contro pretese assolutistiche ed esiti esaustivi”. Il poeta e critico esamina con accuratezza sia “l’aspetto filologico dell’opera poetica di Alessio Di Giovanni”, che la ricerca di “una parola nuova, autenticamente siciliana” in Paolo Messina, nonché, di Salvatore Di Marco, i rilievi posti da quest’ultimo “circa l’esclusione delle letterature regionali, e in particolare di quelle dialettali, dalla storia della letteratura nazionale”. L’impegno intellettuale di Scalabrino, che dal 2012 e il 2021 ha dato alle stampe altri sei volumi tra curatele critico-antologiche e saggi monografici, è utilissimo “puntuale ragguaglio sul contesto storico e sociale” delle esistenze poetiche “che hanno conferito un imprescindibile e decisivo contributo creativo e culturale alla poesia dialettale siciliana”. Nella quinta raccolta di Nelvia Di Monte, Sojârs, in dialetto friulano, si ravvisa una “pienezza lirica e riflessiva, descrizione e meditazione, assieme ad una sensibilità fortemente attiva nel composito ma compatto panorama dei temi trattati”. Realistica e pure allegorica, la parola poetica si presta “ad una sperimentazione in chiave psicolinguistica ed etico-sociale”, e in più “obbliga all’esercizio solitario dei ripensamenti e delle interrogazioni” su tutto ciò che attiene l’esistenza (“le ansie, gli equivoci, le contraddizioni, l’angoscia, il disinganno del vivere”). Il percorso interiore intrapreso disvela “un universo intimo mai placato che si riverbera sul versante delle strutture metrico-ritmiche, attraverso un sentimento del tempo strettamente legato alla realtà del quotidiano, nei termini di una introversione pensosa che abbraccia la totalità dell’esistere (…) con le sue ambiguità e le sue evidenze, fino a configurarsi come surrealtà”. Con Robe de no creder, seconda raccolta in dialetto triestino, Roberto Pagan s’impone per la “capacità di coinvolgere il lettore in un’aspettativa mai sopita di verità su problemi e quesiti che oscillano da speculazioni culturali a registrazioni di eventi della quotidianità”. Una scrittura incisiva e anche disincantata, semplice e concreta che esplicita “la chiara visione del reale” con guizzi di ironia e “schietto umorismo”, due modalità del disincanto necessario ad affrontare “ogni episodio di vita quotidiana”. Nel suo Ra Rà, Mario Mastrangelo dispone in versi i valori dell’umanesimo ovvero esprime “un sentimento di solidarietà e fratellanza universale, assieme ad una visione della realtà cosmica, in cui la vicenda terrena dell’uomo trova il suo compimento e la sua destinazione”. La sua opera nasce “da un dissidio io-realtà che lo spinge ad una continua meditazione sulla propria condizione esistenziale e sulla collocazione dell’uomo nell’ambito delle dinamiche della realtà delle cose”. La riflessione sul “mistero della vita”, del senso del sacro entra a far parte di un dettato poetico che reca i segni “d’una compostezza e d’una trasparenza esemplari”. Due i libri, fulet (folletti) in dialetto emiliano, e Tango, in lingua italiana di Luciano Prandini. Riguardo al primo, Pietro Civitareale osserva che l’esperienza in dialetto “risponde ad una esigenza di identificazione sociale del poeta nei confronti della condizione di totale anonimia in cui è venuto a trovarsi l’uomo delle società di massa”. Siamo di fronte a una poesia che rifiuta un certo “localismo di maniera”, per aprirsi agli stimoli e alla riflessione, “impegnata nella ricerca d’un ubi consistam nel quale poter conciliare la finitezza del presente, l’immediatezza dell’esperienza, col sogno metafisico o l’utopia di un altrove”. Nella raccolta “Tango” il linguaggio oggettivo della realtà, “l’oggetto-parola sembra puntare sulla propria determinazione semantica, come dimostrazione di una sensibilità più morale che formale, più tematica che linguistica, nel senso che la realtà evocata assume un rilievo sempre più evidente”. Il dettato conferma “il valore della memoria come soccorso alla riflessione”, segno di “coerenza stilistica e ideologica”.
Le Poesie in dialetto abruzzese 1970-2020 di Michele Lalla, corpus cronologico della produzione edita e inedita “nella quale descrizione e riflessione si compenetrano” al fine di sondare l’inesplicabile “enigma dell’esistenza”, e di questa le sue “contraddizioni, i suoi paradossi, le sue epifanie, in un intreccio di vecchio e nuovo, di oggettività e soggettività, di ironia e sentimento, di stupori e disincanti”, esplicitano tanto il dato memoriale che il presente, tramite “ nessi analogici (…) d’uno scenario della immaginazione in cui descrittività e partecipazione emotiva convergono verso una forma di assunzione, configurazione e intelligenza del reale nei modi tecnici e strumentali più acconci ai tempi ed al dispiegarsi d’una storia individuale”. La raccolta in lingua e in dialetto nuorese di Maria Grazia Cabras, Dies in tundu (girogiorni), tutta incentrata sugli “eventi della quotidianità” ha il pregio di una rara e “raffinata capacità di cogliere momenti insoliti o peculiari, in cui emotività e pensiero si incontrano con esiti singolarissimi sia da un punto di vista inventivo che referenziale”. Poesia originale, che apre a un mondo “colto nella sua essenza, nella sua aurorale manifestazione, nei modi di una espressività sintetica, di un eloquio primario se non primitivo”. Il suo registro espressivo si avvale di “una sintassi essenzialmente nominalistica, paratattica (…) la quale ne accentua e ne sancisce lo stilismo linguistico, l’autenticità ispirativa”.
Un sodalizio simbiotico, stipulato da Vittorio Clemente e Ottaviano Giannangeli, “depositari della tradizione poetica abruzzese del Novecento; non una tradizione chiusa nei suoi confini geografici ed etnici, ma aperta a stimoli e a suggestioni culturali provenienti da altre regioni d’Italia e da oltre i confini nazionali”. In questo saggio, Civitareale analizza, tra l’altro, il rapporto di amicizia e la corrispondenza epistolare tra i due abruzzesi, nonché l’apporto critico-letterario di ciascuno verso l’altro, reciproco scambio proficuo, tanto umano che poetico, sì da avere dato vita a “una scuola sui modi, i contenuti e il destino della poesia in dialetto dell’Abruzzo”. Di Mimmo Staltari la ricca raccolta in dialetto calabrese Non pisi e non misuri, è pervasa da “oggettività semantica” insieme alla “notevole carica emotiva che pervade e caratterizza la scrittura”. Inoltre, come dichiarato dallo stesso autore, “secondo cui ogni pensiero è autenticato e consacrato dalla poesia”, a questa forma nobile della letteratura egli riconosce “il merito d’assolvere e sublimare la realtà delle cose e dunque anche l’esistenza dell’uomo”. I motivi del suo essenziale e incisivo dettato poetico sono “i sentimenti, gli affetti familiari, la sofferenza, i ricordi, ma soprattutto la solitudine” (…) “nei termini di un lirismo tagliente e sentenzioso, espresso nei modi di una iposegmentalità versale che ne rafforza l’incisività sia sul piano formale che su quello dei contenuti”.
A chiusura di questo articolato viaggio puntellato da soste nella poesia in dialetto degli ultimi due decenni di questo appena schiuso millennio, La poesia dialettale come reidentificazione del soggetto linguistico, Civitareale disamina e argomenta del come e del perché anche i dialetti sono mutati nel tempo, e per contenuto che per lo stile. Entrare nella storia evolutiva di uno o più linguaggi a partire dal Novecento sin qui, significa prendere atto di come oggi il dialetto appare, rispetto alla lingua per così dire ufficiale, “più adatto alla creazione poetica, in quanto in possesso di maggiori risorse di autenticità e di pregnanza rispetto alla lingua nazionale, banalizzata dall’uso dei mezzi di comunicazione di massa”. In questo senso si può ben dire che attraverso le lingue delle origini, i poeti “tendono a realizzare una espressività nuova, letterariamente intatta e fortemente incardinata in un contesto antropologico preciso, con la conseguenza che la poesia dialettale di questi ultimi decenni, più che ad un’affermazione individualistica, risponde junghianamente ad una esigenza di individuazione sociale”. E ancora: il poeta, rifuggendo dalla “condizione di totale anonimia” in cui versa l’uomo contemporaneo, “acquista, sul piano linguistico, una funzione “resistenziale”. Il rinnovato interesse per la poesia in dialetto, che “in passato non ha avuto che una importanza di doveroso recupero culturale, risolvendosi sul piano creativo in manifestazioni arcadiche e nel contrabbando di contenuti consumati o affievoliti, ora mostra di aver acquistato una coscienza più approfondita delle proprie possibilità” espressive.
Pietro Civitareale. Poeti nei dialetti d’Italia – Annotazioni critiche 2010-2022, Cofine, 2023, euro 15,00
Nota biobibliografica
Pietro Civitareale (Vittorito-AQ, 1934), ha pubblicato volumi di versi in lingua e in dialetto, tra i quali Un’altra vita (Pescara, 1968), Hobgoblin (Firenze, 1975), Un modo di essere (Riccia, 1983), Come nu suonne (Firenze, 1984), Il fumo degli anni (Spinea-Venezia, 1989), Altre evidenze (Forlì, 1991), Solitudine delle parole (Chieti, 1995), Le miele de ju mmiérne (Faenza, 1998), Ombre disegnate (Cosenza, 2001), Mitografie e altro (Rimini, 2008), Ju core, ju munne, le parole (Roma, 2013), Cartografie di un visionario (Martinsicuro, TE, 2014), Préime che ve’ le schìure (Roma, 2019), Di un’altra luce (Martinsicuro, TE, 2021), Quasce na storie (Ortona, CH, 2022). Critico letterario, è autore di due monografie sull’opera poetica di Carlo Betocchi (Milano, 1977 e Roma, 1994) e del saggio Voci femminili della poesia del Novecento e oltre (Cosenza, 2019 e 2021). Si è occupato, inoltre, dell’opera di Valeri, Fortini, Montale, Luzi, Joyce, Beckett, Musil, Lorca. È del 2020 la pubblicazione in volume di saggi, Letteratura e dintorni (Martinsicuro, TE), e del 2022 un altro volume di saggi Poesia e poeti del Novecento e oltre (Martinsicuro, TE). Ha inoltre dato alle stampe una raccolta di prose di memoria, Paesaggio con figure (Cosenza, 2009) e i romanzi: L’angelo di Klee (Verona, 2009) e Da questa parte del mondo (Signa, FI, 2012), le raccolte di racconti: D’amore e d’altro (Martinsicuro, TE, 2017), Storie di altri tempi (Cosenza, 2020) ed il racconto Dove comincia il cielo (Castelfranco Emilia, MO, 2021). Ha tradotto un’antologia delle poesie di Pessoa, L’enigma e le maschere (Faenza, 1993 e Milano, 1996), un’edizione parziale delle Novelle esemplari di Cervantes (Faenza, 1998) e l’antologia Poeti catalani del XX secolo (Martinsicuro, TE, 2016); ha curato, inoltre, l’antologia di poeti italiani contemporanei La narración del desengaño (Zaragoza – Madrid, 1984) e l’antologia Cile, poesia della resistenza e dell’esilio (Firenze, 1985). Studioso della poesia in dialetto, ha pubblicato la raccolta di scritti critici Poeti in romagnolo del secondo Novecento (Imola-Forlì, 2005), La dialettalità negata (Roma, 2009), Poeti delle altre lingue (Roma, 2011) ed ha curato l’antologia Poeti in romagnolo del Novecento (Roma, 2006). Ha pubblicato, infine, la monografia Vittorio Clemente. Una vita per la poesia (Roma, 2017). Suoi scritti si trovano su riviste e quotidiani italiani e stranieri. Alcune sue opere sono state tradotte in varie lingue europee.