In occasione della Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali, sabato 30 Gennaio 2021 ore 16-19 si è tenuto il tradizionale incontro Poeti in dialetto a Roma.
I poeti nei dialetti d’Italia residenti nella Capitale si sono incontrati ONLINE SULLA PIATTAFORMA ZOOM
L’iniziativa, organizzata da Associazione Periferie – Centro di documentazione della poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino” e da Lend Gruppo Locale Roma, si è aperto con i saluti di Vincenzo Luciani (Associazione Periferie) e Cristina Polli (Responsabile Gruppo Lend di Roma). Il reading dei poeti sarà condotto da Anna Maria Curci (Redazione Periferie; Gruppo Lend di Roma).
Dopo un Ricordo di Achille Serrao con la lettura in audio di tre sue poesie a cura di di Federico Carabetta, nel reading si sono avvicendati i poeti:
Stefania Di Lino (romanesco e napoletano)
Aurora Fratini (dialetto Sambuci, RM)
Vincenzo Luciani (dialetto pugliese Ischitella, FG)
Nadia Puglielli (dialetto romanesco)
Valerio Sampieri (dialetto romanesco)
Patrizia Sardisco (dialetto siciliano)
Antonietta Tiberia (dialetto ciociaro)
Paolo Uras (dialetto romanesco e napoletano)
Paolo Emilio Urbanetti (dialetto romanesco)
Enzo Luciani ha registrato il reading sul canale youtube di Vincenzo Luciani QUESTO VIDEO che linkiamo QUI
Per favorire la partecipazione e soprattutto la conoscenza dei poeti partecipanti e dei loro testi abbiamo ritenuto opportuno pubblicarli sul poetidelparco.it
Il poeta Maurizio Rossi (dialetto romanesco) impossibilitato a partecipare ha inviato le sue poesie che sono qui pubblicati.
I testi del reading
AUROFRANCO E STEFANIA DI LINO
Stefania Di Lino è formatrice e docente abilitata per l’insegnamento di materie artistiche nei Licei. Artista e poeta, è promotrice di numerose manifestazioni culturali in cui spesso integra l’arte figurativa con quella della parola. Ha fondato diverse associazioni culturali, ha diretto artisticamente la Galleria Battaggia al Teatro Eliseo di Roma, ha esposto in gallerie private, in Italia e all’estero, e in sedi istituzionali, tra cui: la Galleria d’Arte Moderna, l’Accademia dei Lincei, la Sala Pietro da Cortona in Campidoglio, la Sala Capitolare del Senato della Repubblica in Santa Maria Sopra Minerva, Palazzo Valentini, Museo Macro, a Roma. Nel 2012 aderisce e partecipa per varie edizioni al World Poetry Movement con la Palabra en el Mundo. Nel 2012 ha pubblicato “Percorsi di vetro”, la sua prima raccolta poetica, con De-Comporre Edizioni; nel 2013 partecipa, con un suo testo critico, al Festival Mondiale della Poesia di Caracas, in Venezuela; nel 2017 pubblica “La parola detta” con La Vita Felice Edizioni. Ha conseguito premi e riconoscimenti in diversi concorsi poetico – letterari, e suoi testi sono presenti in numerose antologie e riviste specializzate, on-line e cartacee, tra cui: Bibbia d’Asfalto, Poetarum Silva, Blanc de ta nuque, I fiori del male, LaRecherche.it, di Giuliano Brenna e Roberto Maggiani, e Incroci, rivista semestrale diretta da Lino Angiuli. Scrive testi critici ed è redattrice presso diversi Blog di settore. Sono in cantiere due prossime pubblicazioni, “pandemia” permettendo.
AURORA FRATINI
AURORA FRATINI è nata a Roma nel 1961, è laureata in Lettere ed è presidente dell’Associazione Culturale Terzo Millennio di Sambuci. È autrice e regista di 7 commedie in dialetto e 13 in lingua. Per l’Archivio Storico di Poste Italiane ha col- laborato a diverse pubblicazioni, alla catalogazione di testi storici, alla realizzazione del fondo storico-fotografico dell’azienda e al recupero di reperti rari e antichi. Su invito del Comune e della Parrocchia di Sambuci ha pubblicato opere dedicate ai culti e alla tradizione del paese. Si è classificata al primo posto al Premio di poesia e stornelli inediti nei dialetti del Lazio “Vincenzo Scarpellino” nelle edizioni 2011 e 2014; seconda classificata, al concorso nazionale “Salva la tua lingua Locale” 2014; prima classificata nello stesso nell’edizione 2015. Per le rappresentazioni di carattere storico Donne del Risorgimento (nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia) e La parola segreta era “Elefante” (nel 70° della Liberazione di Roma) ha ricevuto l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica.
Lavannara
Odre i cannitu ‘elle cannavine
menne stajo
jettati giocaregli all’ara
che tune accappocatru t’appresendi
che sta cala’ jorno
agliu vendu callu ella ‘state bionna
‘ndo de’ spiche tenne va dunnulenno
vela che n’acchiappa agliu rizzonde
fruscianno ‘e frezze avvendu
maravigliuse e acciurlate
a’ jura ruscia egliu tremundu.
Co gl’ucchi chiusi già mette vidu i visu
e spettu
che spanni i cannore joppe prata
pe sciurica’ mmezz’e sfrage smosse
agliu candu de ssu lino biangu.
Areve’ ecco da mene
svota ‘a canestra sfatta ‘a spara *.
Arevenii e menne sto
cogl’ucchi chiusi
sott’a carezza tea
‘ngora, ‘ngora ‘na voda,
‘elle mano amate velle tee
che sannu de lisciva e de sapune
comm’a petra lisci’egliu fossatu
*Ciambella di stoffa che le donne mettevano sul capo per attutire il peso di tinozze, conche, tavole di legno.
Lavandaia
Oltre il canneto delle canapine
attendo
deposti i giochi all’aia
aspetto
che tu tra poco appaia
nel degradar del giorno
al caldo vento dell’estate bionda
dove di spighe ondeggi
vela di trasparenze all’orizzonte
fruscianti ciocche al vento
stupendamente sfatte
alla scintilla rossa del tramonto.
Ad occhi chiusi presento il viso tuo
e attendo
che stenda il tuo candore lungo il prato
per scivolare tra le frange smosse
mosse dal canto del tuo lino bianco.
Poi torni qui da me
vuota la cesta, sfatta la spara.
Torni e mi sto
ad occhi chiusi
sotto la tua carezza
ancora, una volta ancora,
delle tue amate mani
che sanno di lisciva e di sapone
come la pietra liscia del fossato.
Cantasilen’egliu malocchiu *
Piglia ‘o sale, ’i piatt’ell’acqua
po’ me mitte nu zinale
piglia l’ogliu alla baracca (1)
e prengipia i’ riduale
Appicciata ‘na cannela
pe alluma’ ‘a strumendazzione
‘ngumingia a candilena
se fa certi signi ‘e croce
‘Ntegne ‘e vetora agliu piattu
po’ me fa cruci e crucitte
sopre ‘nvronde e pure ‘nzinu
‘ngerbicannu parulitte (2)
“Cusci’ in nomine e’ Maria
esso ‘o male scappa via
a commannu de Gisù
esso ‘’o male ‘nvene più
colla Sanda Trinità
esso ‘o male senne va!”
‘I scongiuro è begliu è fatto
ma s’allarga a macchi’ell’ogliu.
Varda varda chett’a fattu!
Figlia mea teni i’ malocchiu!
E arepete sso scongiuro
mendre sta cala’ a giurnada
finu a quannu ‘i piattu e’ puru
comme l’acqua ‘ella fundana
Finu a quannu ‘a guccettella
‘nze fa micca miccareglia
e i demonio, si’ fregatu (3),
da ssu corpu s’è scappatu.
*La pratica di scongiuro contro il malocchio prevede l’uso di elementi tipici dell’arte dell’esorcismo della cultura contadina ed ha radici antichissime: olio, acqua, sale, fuoco, il potere della parola. (1) Per baracca si intende una casupola di rimessa degli attrezzi dell’orto. (2) Parlare “in gerbucu” significa parlare in codice segreto, o in maniera da non far comprendere ad altri cosa si sta dicendo. Il termine, di etimologia incerta, potrebbe derivare da “gèrbo”= terreno incolto, brullo, a significare un modo di parlare oscuro, oppure dal toscano gèrbo= moina, smorfia, a significare un parlare contraffatto. O forse, più semplicemente dal termine “gergo”, storpiato in sambuciano, come dire parlare in un dialetto, in un vernacolo non conosciuto e condiviso da altri. (3) Si’ fregatu! È una esclamazione che può avere diversi significati: che sciocco che sei! che tu sia gabbato! mannaggia!
Tiritera del malocchio
Prende il sale, il piatto e l’acqua
poi mi mette un gran grembiale
prende l’olio dalla baracca
ed inizia il rituale.
Poi accesa una candela
per dar lume agli strumenti
incomincia cantilena
e fa certi segni in croce.
Bagna le dita nel piattino
poi mi fa croci e crocette
sulla fronte e pure in petto
con arcane parolette.
“Così in nome di Maria
ecco il male scappa via
su comando di Gesù
ecco il male non viene più
con la Santa Trinità
ecco il male se ne va!”
Lo scongiuro è ben compiuto
ma si allarga la macchia d’olio
Guarda guarda che fattaccio!
Figlia mia, tu hai il malocchio!
E ripete lo scongiuro
mentre cala la giornata
fino quando il piatto è lindo
come acqua di fontana.
Fino a quando la goccetta (dell’olio)
non si fa più piccoletta
e il demonio, sia dannato,
dal mio corpo se ne è andato.
Matre
‘O batte batte batte
ella sedòla
‘ngantu ‘ndicu
comme de rosignolu,
addore ‘e guazza
cologna ‘e pampora
vocca de papambora
ucchi de celo
capigli pe ruzza’
na bella pezza.
E i’ sonno pe’ sonna’.
I grembu teo ‘e zinne
’e mele latte e rose.
All’andrasatta tu
c’annazzechi a criatura
‘ndramente t’addimammi
comm’a fattu
si propo tu si stata
a fa’ ssa cosa vera
che te fa ride ‘nzemmora
e fa piagne.
E batte batte batte la sedola,
mo’, che si’ femmona fatta
che si’ Matre si’ Ddio.
E batte batte batte la sedola.
Ssa cemece
c’angora ‘nde gognosce
‘nge sende
de vulesse appenneca’.
Madre
Il battere cadenzato
della sediola
un canto antico
come di usignolo
odore di umido
profumo di pampini
bocca di papavero
occhi di cielo
capelli per giocare
a lungo.
E il sonno per sognare.
Il grembo tuo le mammelle
di miele latte e rose.
All’improvviso tu
che dondoli la creatura
mentre ti chiedi
come hai fatto
se proprio tu sei stata
a far questa cosa vera
che ti fa ridire e piangere
al contempo.
E batte batte batte la sediola,
adesso, che ti sei fatta donna
che sei Madre sei Dio.
E batte batte batte la sediola.
Questa cimice
che ancora non ti conosce
non intende
di volersi addormentare.
VINCENZO LUCIANI
Vincenzo Luciani, nato nel 1946 a Ischitella (FG), dal 1975 vive a Roma. È fondatore dell’Associazione e della rivista “Periferie”. Dirige il Centro di documentazione della poesia dialettale “V. Scarpellino”. Ha pubblicato in poesia: Il paese e Torino, (Salemi, 1985); per le Ed. Cofine: I frutte cirve (1986), Frutte cirve e ammature (2001), Tor Tre Teste ed altre poesie: 1968-2005 (2005), La Cruedda (2012), Straloche/Traslochi (2017), Vanzature/Avanzi (2020). Con A. Serrao ha fondato i premi di poesia “V. Scarpellino” e “Ischitella-P. Giannone”.
A une a une ce ne vanne
A une a une ce ne vanne
a n’ata vanne. Chi u sape
se e ddone
ce trove dd’ata vanne. Sckitte
ij sacce che mo
che te jesse truanne
ji nun te trove cchiù
che si trasciute ntu munne
d’i nocchiù.
A UNO A UNO SE NE VANNO – A uno a uno se ne vanno / in un altro luogo. Chi lo sa / se e dove / si trova quel luogo. Soltanto / so che ora / che vorrei incontrarti / io non ti trovo più / perché sei entrata nel mondo / dei non più.
A lune
Stanotte
a lune
allatte
i mure de Scketedde
e i stedde
ammucce ammucce
bbaah!*
LA LUNA – Stanotte / la luna / tinge di latte / le mura di Ischitella / e le stelle / acceca acceca / bbaah!
*ammucce ammucce bbaah!: gioco che si faceva con i bimbi, coprendo loro gli occhi con una mano e poi scoprendoli con l’esclamazione liberatoria di sorpresa: bbaah!
Tenghe che fà
Tenghe che fà
tenghe che fà
ora e mumente tenghe che fa.
E p’a pojesie?
Tempe ’n ce sta!
Tempe ’n ce sta!
E tu mo vide
addone a jie a sunà!
IO HO DA FARE – Io ho da fare / Io ho da fare / ora e per sempre io ho da fare. / E per la poesia? / Non c’è mai tempo! / Non c’èè mai tempo! // E tu adesso / gira alla larga!
NADIA PUGLIELLI
Nadia Puglielli, nasce a Roma nel rione Borgo Pio. Figlia e sorella di artisti. Nel 2015 ha pubblicato con EdiLazio il suo primo libro di prose e poesie “lo spiffero de l’anima” in vernacolo romanesco. Nel 2018 ha pubblicato con Aletti una raccolta di poesie sempre in vernacolo “‘na vita in verzi” e lo stesso editore le ha tributato il diploma di merito. Finalista di vari concorsi, le sue poesie sono inserite in alcune antologie edizione Aletti e Ponte Sisto. Finalista con la poesia in vernacolo “penzièro d’amore” inserita nell’antologia edizione Aletti e la prefazione del grande paroliere Alfredo Rapetti Mogol, assegnandole il diploma di merito. Nel 2019 la poetessa è stata introdotta nell’enciclopedia dei poeti contemporanei edizione Aletti. Nadia Puglielli collabora poeticamente in vernacolo nella rivista Testacciointesta. Nel 2020 ha collaborato con Alessandro Scarnecchia alla trasmissione telefonica “Radio Radio” declamando i suoi versi in romanesco. Attualmente sta collaborando con edizioni Escamontage per una antologia e un prossimo libro
A mi’ madre
Vorei ditte che t’ho amata,
ma nu’ ciò avuto er tempo.
Vorei aricordàmme si m’abbraccicavi
ma nu’ me lo ricordo.
Eri troppo giovine pe’ penzà’ a tre fij
E nun me lo scordo.
Er tempo perzo nu’ aritorna,
li sbaj se paghèno e puro cari.
‘Na cosa te dico mamma;
si nu’ t’ho avuta quanno ero ‘na pupetta
se semo aritrovate,
e a testa bassa te sei arifatta pe’ le tue mancanze.
Si er passato nu’ aritorna
aringrazzio chicchessia che sei mamma mia.
Er core in gabbia*
La raggìone nu’ ariesce a commannà er còre
che s’affatica drènto a la su’ gabbia.
Soffre ma nu’ vòle er cambiamento
co’ parpitazzìone, nu’ se làgna, de’ dolore,
‘sta priggione è senza le chiavi
è ‘n isolamento che nu’ sempre me va bene,
si l’oro è grezzo, l’amore pò esse senza luce,
so’ l’occhiate mute che me fanno capì,
si tu me voi bene.
Roma*
Roma nu’ me stanco mai d’ammiralla
li mezzi so’ ridotti e pieni,
me passa la voja e vado a piedi.
Cammino e me la guardo, co’ sole la pioggia,
è sempre ‘na primavera che sorféggia,
‘no strumento musicale che m’accompagna
co’ le rime che me pòrteno lontano,
‘na musica senza fine, der fruscìo de le foje,
er Tevere placido, annisconne li segreti,
je passeggio a’ fianco, e scopro la natura de l’urbe,
nun se sènteno li rumori de le màchine
e lo smogghe che me fà mancà er fiàto
Cammino e allento er passo
pe’ guardà le cuppòle dar basso,
spicca la più granne, quella Michelangiolesca,
me meravijo come si fusse la prima vorta
che me so’ innammorata quanno l’ho vista.
Grazzie Roma d’avemme fatto nasce ne’ la tua culla,
e generosa m’ai portato a Borgo Pio,
me annisconnèvo dèreto ar colonnato de San Pietro,
giocavo a’ Castello, annàvo a l’oratorio a la Lungara,
e aringrazzio chicchessia che puro io so’ fija tua
VALERIO SAMPIERI
Valerio Sampieri, nato a Roma nel dicembre 1950, ha iniziato ad occuparsi del dialetto romanesco nel 2014, allorché è scoccata in lui la “scintilla”. Autore di circa 900 componimenti, per lo più sonetti -alcuni dei quali volutamente non “ortodossi” metricamente-, Valerio Sampieri ha partecipato ad alcuni concorsi, tra i quali quello di ammissione all’Accademia romanesca del 2020, risultando sempre tra i premiati, sebbene “fuori del podio”. Le opere dell’Autore sono per lo più ispirate al filone “pasquinate”, a ricordi della gioventù, o ad episodi narrati dalla tradizione letteraria romanesca, alla cui lettura egli si dedica assiduamente. Tre suoi componimenti sono stati inseriti nell’Agenda del poeta 2019 ed una decina di suoi sonetti sono stati pubblicati sulla rivista “Voce Romana”, il cui numero 53 gli ha dedicato una intera pagina.
L’attastata
“Ciò voja de sgrullà un po’ er farpalà,
ch’è quelo che se dice er cacc’e métte
-me manca ormai da mesi diciassette-,
nun è che me vorebbe ‘n po’ ajutà?
Stagnaro nu’ lo sò, p’inzifonà
nun serve manco er mago o le bacchette,
abbasta che me fà toccà le tette,
poi vede si comincio a sfuticchià”.
Se vorta: “Ma sei matto, gran zozzone?
Io sò ‘na donna onesta e maritata!
Bigna che le rispetti le perzóne!”.
“Signora, lei me scusi lo scandajo,
l’ho fatto mentre che stava vortata …
mò che l’ho vista bene … era ‘no sbajo!”.
Note: Attastata; scandajo: Il sondaggio. Sgrullà er farpalà; cacc’e mmétte; inzifonà; sfuticchià: coìre. v.12, bigna: bisogna (ant.).
A zampa sbuggenzatica
Ma propio a me deve acchiappà la sciatica?
Annavo che ‘n furetto me pareva
‘n attrezzo, ‘n cataletto che ‘n coreva
e adesso ciò ‘na zampa sbuggenzatica.
Nun è sempre scassata, ma è lunatica.
Io m’aricordo bene che faceva!
L’ostacoli? Mbè, lei se li beveva!
‘Na zampa sola è cosa poco pratica.
Bando a le ciance, è inutile intristisse,
pensà ar tempo in cui nun ciavevi pene
e sta a rimugginà sopra a ‘ste fisse.
Er male de la cianca nun è gnente,
magara quella là sta puro bene:
er male vero, l’anima lo sente.
Cataletto = Feretro, bara. Sbuggenzatico = Sgarbato, incitativo [Belli]. [Ravaro]: Capriccioso, stravagante, strambo. Il titolo va perciò tradotto con “la gamba capricciosa”.
Li perfidi e l’ipocriti
Te dò ‘n cazzotto ‘n punta a la ciafrocca,
pe’ véde si fa male veramente.
Ma no, giocavo, nun è vero gnente,
te dò ‘na ginocchiata su la bocca.
Te pare che stò a dì ‘na cosa sciocca,
ma, si ciabbadi, vedi che la gente
de te se ne strafotte bellamente
e te fa male puro si nu’ sbrocca.
Chissà perché c’è tanta cattiveria,
aggratise, nimmanco ce guadambi:
è ‘na faccenda che me sembra seria.
Ma poi si guardi a queli detti “boni”,
che dicheno de l’antri che sò strambi …
me fanno girà tanto li minchioni!
Ciafrocca: naso. Si nu’ sbrocca: se non va fuori di testa
PATRIZIA SARDISCO
Patrizia Sardisco è nata a Monreale dove tuttora vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano. Sue liriche e alcuni racconti brevi compaiono in antologie, riviste e blog letterari. Nel 2016 ha pubblicato, per i tipi di Plumelia, la silloge in dialetto Crivu, vincitrice del Premio Internazionale “Città di Marineo” e menzionata al Premio “Di Liegro” di Roma. Nel 2018 si è aggiudicata il Premio “Montano” nella sezione “Una prosa breve”. Nello stesso anno, per le Edizioni Cofine, ha dato alle stampe la sua prima pubblicazione in lingua italiana, eu-nuca, con prefazione di Anna Maria Curci, finalista al Premio “Bologna in lettere” 2019.
Secunnu jormu ‘i mmernu, assulacchiatu
Mmernu, ruci r’aranci
chianci e s’arrimina
lestu a rìriri arrè, ‘amministrari
rìula e negghi ‘i zzùcchiru
e garzi pi passari
a parrata r’u voscu.
E unni e gghiè ciancianìi r’acitazzu
chi sùchinu pinzeru sutta u suli.
Avemu rèbbita.
Fannu ‘na largasìa nno pettu
cci fannu nira ‘aceddi
e chiossa’ su’ sarbaggi
cchiù ruci ntrìzzanu nna vuci
canigghia e granagghia r’àvutri mmirnati
àvitru lustru
scorci r’aranci munnati tunnu tunnu.
Secondo giorno d’inverno, soleggiato
Inverno, dolce di aranci
piange e fa in fretta
svelto a ridere ancora e a dosare
ruggine e nuvole di zucchero
e garze per filtrare
il linguaggio del bosco.
E ovunque tintinnii d’acetosella
che succhiano memoria sotto il sole.
Abbiamo debiti.
Fanno spazio nel petto
uccelli vi nidificano
e più sono selvatici
più dolcemente intrecciano nel canto
nutrimento e frammenti d’altri inverni
altra luce
bucce d’arancia sbucciate a spirale.
Ruminica, ri mmernu
Quariàri u latti
attintari u culuri
assummatu nna negghia
c’ammutta nne vitra ncapu ncapu
nzirtari u trimulizzu ‘u carcarazzu
ammucciatu nna vuci nna rrama
smammata tuttu nzèmmula
c’ancora annarbulìa
quariarisinni u pettu
pi chiddu c’un si viri e attrova locu
Domenica, d’inverno
Scaldare il latte
ascoltare il colore
che accumula la nebbia
premuta sopra i vetri
indovinare il tremore della gazza
nascosta nella voce nel ramo
lasciato di colpo
e che ancora vacilla
riscaldarsi il petto
per ciò che non si vede e trova posto
**
M’haiu nchiuiutu
nna sta parrata mpetra.
’Un m’accupari.
**
Mi sono chiusa
in questa lingua litica.
Non asfissiarmi.
ANTONIETTA TIBERIA
Antonietta Tiberia (Ceccano, FR,1941) si destreggia tra narrativa, poesia e traduzioni. Ha pubblicato Haiku per un anno bisestile, I racconti del ponte, Calpestando le aiuole, e 5 libri tradotti: dallo spagnolo (Di oggi, Omero prende solo il fiore, poesie di Mario Paoletti), dall’inglese Unspoken / Inespresso (poesie di Fahita Morchid), Jorge (poesie di Sotirios Pastakas) e Il mio nome è Bond (autobiografia di Roger Moore), dal francese Astrologia araba (saggio di Catherine Aubier). Già redattrice della rivista letteraria «linfera», collabora con la rivista «Il Mangiaparole». Si diverte con i calligrammi.
IL GIAPPONE A ROMA E IN CIOCIARIA – SENRYU DIALETTALI
Nun serve côre…
– je dice er sorcio ar gatto-
nun ce sta trippa
Non serve correre
– lo dice il topo al gatto:
– ché non c’è trippa!
Er vino bbono
se bbeve a garganella-
alla salute!
Il vino buono
si beve direttamente dal fiasco-
alla salute!
Er pane fresco,
‘na fojetta de vino:
la mejo sorte
Il pane fresco,
mezzo litro di vino:
che c’è di meglio?
Attent’all’onghia:
si la té troppu ammollu
s’enquaqqarisci *
Stai attento all’unghia:
se la tieni troppo a bagno
diventa molle
Jirnata longa
i la fatia è assai-
gli solu abbrucia
Giornata lunga
e la fatica è tanta-
il sole brucia
Puzzupuzzelle
criciuste addonca sia
fau tutte rusci.
I papaveri
cresciuti in ogni dove
fan tutto rosso
So’ lampi i scrocchi –
acquata de staggione
cu pocu gocci
Fulmini e tuoni –
acquazzone d’estate –
rade le gocce
Zoffia gli ventu –
je arraccollu lu mela
sbattute ‘nterra
Il vento soffia –
io raccolgo le mele
sbattute a terra
* la e è muta, alla francese
PAOLO URAS
Paolo Uras, nato a Roma nel 1948 in Viale Trastevere, quando si chiamava ancora Viale del Re, da madre napoletana e padre romano. Diplomato all’ITI Galileo Galilei di Roma Perito Industriale Capotecnico; Ufficiale di Complemento nell’Arma di Cavalleria; vita professionale quasi interamente vissuta nel settore dell’Informatica. Coniugato; ha un figlio, che segue le orme paterne lavorando nell’Informatica. Da sempre appassionato di lettura, musica, sport, enigmistica e di teatro; spirito marinaro. Per chi volesse mettersi in contatto con lui, il suo indirizzo email è paolouras@libero.it.
’Na visita inattesa
Stavo quasi p’annà a letto,
‘nziem’a ‘n libbro pe diletto,
quanno sento ‘r campanello,
che me scòccia sur più bello.
Mó a quest’ora, chi è che bussa?
– Mamma mia! Ce sta Trilussa!
Sór Maé, che grande onore!
Già penzavo a ‘n seccatore… –
“Nun me dì che sei contento,
prima ascórtame ‘n momento!
Nun và a dì che sò ‘r tuo esempio,
si dell’Arte fai ‘sto scempio.
Tutt’ar più scéji ‘n poeta
che sia_arquanto anarfabbèta;
e pìja quello pe modello,
più vicino ar tuo livello!”
Auschwitz
Già davanti a li cancelli,
me se rizzano i capelli,
e sò preda de l’oróre,
mentre batte a mille er còre.
Quanta pòra umanità
è passata per de qua,
pe finì poi massacrata,
sola córpa: d’esse nata…
D’esse ‘n omo ci ho vergogna,
si pò esse sì carogna;
e ci ho gran difficortà,
si me ‘nviti a perdonà.
Fin’allora ‘n sapevamo
fin’a ddove arivavàmo:
tra le bestie la peggiore,
de noi ommini è migliore.
‘Sta tristezza che me pija,
me fa dì: “Fratelli mia,
come fà pe riparà,
ve vorèi tutti abbraccià.”
Si quarcuno v’ha aiutato,
troppi ahimè v’hanno affossato.
E ‘sto grido de dolore durerà,
fino alla fine dell’eternità…
La prima bucìa
“Quanno sarò morta,
nun piagnete pe mme,
perché me sò libberata.”
Così più de ‘na vòrta
me disse Mamma mia,
sentendose accorata.
– Mammì, – dicevo io -,
sarà quanno vò Dio…
Ma nu’ mme dì così:
comincio già a soffrì!
Perché devi sapé,
che quanno te n’andrai,
‘n dolore così forte
nun l’avrò sentito mai… –
“Vabbè, solo pe tte,
pe tte che sei ‘r mio amore,
la Mamma tua nun mòre…”
Dovevi d’arivà alla fine,
Mamma mia,
pe dimme finarmente ‘na bucìa…
‘A mùseca d’o mare
‘A mùseca cchiù bella ‘e tutte quante,
è quànno ‘ncòpp’a vàrca stó assettàto:
‘a vela, me pare ca mme canta,
e ‘o mare annànz’a mme, par’affatàto.
Có_‘o sóle_‘n_faccia ‘a próra,
e ‘o viénto ca mme sfiora,
s’arrecréa l’ànema mia,
e vénco ‘a malincunìa.
Nun vulésse mai murì,
ma si pròpio àdda fernì,
sarrìa_‘st’ora meno amara,
si cull’uócchie chìne ‘e mare…
Chiagnere p’ammóre
L’atu juórno ce simme rincuntrate,
dopp’ ‘n anno che c’èreme lassate.
Cómme tu m’hé visto m’hé chiammàto,
e ca stessa facc’e sèmpe hé dumandato:
“Da quanno che ‘st’ammóre se n’è gghiuto,
tu c’hé fatto: pe’ mmé, ‘hé mai chiagnuto?”
Che t’aggia dì,
‘st’ammóre primm’o ppo’ ‘eva fernì.
E io, me n’aggio fatte Chiante,
Barbera, e assàje Spumante…
PAOLO EMILIO URBANETTI
Paolo Emilio Urbanetti è nato a Rieti il 17 aprile 1955. Laureato in Filosofia, dopo gli studi è stato curatore e organizzatore di mostre ed eventi culturali e ricercatore d’archivio. È autore di saggi e studi di storia locale con particolare riguardo alla Tuscia viterbese e all’area della maremma tosco-laziale. È guida turistica dal 1999. La sua produzione poetica, in lingua italiana e dialetto romanesco, inizia nel 2015. . Nel 2020 è stato finalista allo Slam Italia e ha vinto il Premio Peppe Renzi, il Premio Scarpellino (sezione stornelli), il Premio Mario dell’Arco, il Concorso d’ammissione all’Accademia Romanesca e il Premio Giuseppe Gioacchino Belli. Alcune sue poesie sono comparse su Voce Romana e sul sito Poeti del Parco. Ha pubblicato due raccolte: Venti Sonetti Romaneschi (2017) e Poesie Romane (2020).
A ROMAN BLUES
Che vita da galera
che famo tutti quanti
la famo tre mijoni d’abbitanti
ciò scritto sopra ‘n blues
che poi n’è proprio ‘n blues
è ‘r blues de la città che ciò davanti
ciò ‘n testa Fela Kuti
le lacrime e li sputi
la gabbia che ce tiene a tutti quanti
nun se potemo move
cor Covid diciannove
la frebbe sta a riempì li camposanti
fanculo l’amuchina
nun ciò la mascherina
‘ndo cazzo vanno tutti sti passanti
mó tutti a comprà er pane
mó tutti cianno er cane
sei mesi e li cojoni se sò sfranti
macché macchinazzione
minchiate a profusione
ma quali esperti sò politicanti
li morti a trentamila
signò facci la fila
m’ariccomanno mettete li guanti
paura der domani
finì a lo Spallanzani
finì tra li poracci agonizzanti
e Roma s’è svejata
deserta e sgarupata
malata ne sti giorni allucinanti
speramo ner governo
pe’ superà st’inferno
sti quattro sordi dacceli contanti
seicento sò pe’ marzo
li pijo e m’ariarzo
li spenneremo a coca e tranquillanti
che cazzo ce ne frega
de noi frega ‘na sega
nun semo mica quelli benestanti
che poi sta quarantena
nun è la stessa scena
e ‘n conto sò sti buchi nauseanti
e ‘n antro è ‘n ber giardino
io manco ‘n terazzino
qui solo asfarto e cammere asfissianti
e allora canto ‘n blues
che poi n’è proprio ‘n blues
ma è fatto de vocali e conzonanti
parole in libbertà
che ancora sto a cercà
parole e verzi sempre più ‘gnoranti
e penzo a l’anticaje
ripenzo a le frattaje
a tutte le frattaje de li santi
che vedo ne le chiese
la gente a mani tese
le prega le frattaje de li santi
sò santi da poracci
com’era er poro Stracci
sò santi pe’ devoti e pe’ briganti
sò santi de borgata
Roma disinfettata
la gente s’accarezza tra li pianti
pianti de pora gente
che piagne e nun cià gnente
e piagne pure er poro miscredente
ANACREONTE
Anacreo’ sei vecchio
me dicheno le donne
c’è poco da risponne
lo vedo in delo specchio
Fiore de grotta,
t’ho vista che te credi, farabbutta
co’ Pino che facevi la mignotta
Fiore de cocco,
sta bono Anacreo’ co’ Pino er zecco
ierzera ho rimediato sto brillocco
Fior de mentuccia,
ner còre mio ‘na vorta hai fatto breccia
perché mó m’hai tradito Mariuccia?
Fior de cicoria,
sei vecchio Anacreònte, cambia aria
ciò ‘n ber moretto… è tutta n’antra storia
Quann’ero bono a dallo
nun ero bono a dillo
mó che sò bono a dillo
nun sò più bono a dallo.
ER VECCHIO PAPA
Ierzera ho visto er papa a San Marcello
davanti a quel’artare, in ginocchione,
pregà co’ la su’ santa devozzione
un crocifisso antico de massello.
Ve giuro sò rimasto ner vedello
annà pe’ via der corzo in pricissione
da solo, a zoppicà, co’ tre perzone…
m’ha fatta tenerezza, poverello.
Nun ciò gran confidenza co’ la fede
e a dilla tutta quanta, onestamente,
io credo solo a quello che se vede
però quer vecchio papa inginocchiato
pregà pure pe’ ‘n poro miscredente…
io, che ve devo dì, l’avrei baciato.
MAURIZIO ROSSI
Maurizio Rossi, nato a Roma nel 1952, è medico in pensione. Ama scrivere in lingua e in dialetto romanesco. Collabora con scritti e recensioni al sito poetidelparco.it; è nella redazione della Rivista “Periferie” diretta da V. Luciani e Manuel Cohen. è socio de “La Primula”, associazione tra volontari e famiglie di disabili, nella quale partecipa al laboratorio teatrale integrato e agli spettacoli. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Dal pozzo al cielo (2008), Tempo di tulipani (2009), Sono aratro le parole (2011), Che resta da fare (2014) e, in romanesco, Cercanno leggerezza (2015) e La veglia e il sogno (2019).
‘Na caramella
Me so’ affacciato, prima d’annà a letto
a la finestra, sur balcone ce stava
‘na vecchietta, teneva ‘n cappellone,
me fa, dice: “Te sei fatto vecchio,
sei diventato bono?” Io me sto zitto,
nun vojio dì bucìe, ma lei capisce,
me dà ‘na caramella, “Magara questa
t’addorcisce…” E scappa via.
6/1/21
A Giggi Proietti
Quanno ar Sistina spengono le luci,
s’accosta er drappo rosso e se svòta
le poltrone, da quer cassone dietro
le quinte accantonato senti bussà.
‘Na luce, come ‘na corente
d’aria, soffia a spalancà er coperchio,
ma nun esce niente e nisuno.
Si te ce affacci drento, ce trovi
un lenzolone bianco, solo un lenzolo.
Quann’ecco che lo tocchi, te parla
“Ma lassa pèrde, ma chi te lo fa fa’”
Chiudi er coperchio e j’arisponni
“Grazzie!”
3/11/20
La memoria se scorda
Te manca a l’improviso ‘na parola
‘na faccia, er nome, l’indirizzo,
de botto se spalanca ‘na finestra
drento ar cervello e l’aria malandrina
che ammischia la porvere e le foje
t’arovescia li cassetti ariempiti
co’ cura e passione tutti ‘st’anni.
Ciai provato a riparà li danni,
ma la finestra è antica e antichi
li cassetti. Te sarverà er progresso?
‘Sta tavoletta che chiameno “ai fone”
è credenzone che aricorda ‘n monno
ma bada e poni l’attenzione
che mentre ce stofini sopra er dito
pe’ aritrovà er percome, ciabbi
chiaro quello ch’hai da cercà.
27/9/19