Ecco tutti i testi del reading dei “Poeti in dialetto residenti a Roma” del 15 febbraio 2025
Leone Antenone
(dialetto romanesco)
Leone Antenone. Nato a Roma nel 1981, detto Scartaccia, poeta e intrattenitore, ha pubblicato Granelli di Roma – Verso un Verso diVerso (2011), Er pallonaro (Ed. Cofine, 2014). Molte sue poesie sono pubblicate sul suo sito internet https://www.scartaccia.it. Si è cimentato nel genere della fiaba pubblicando nel 2016 Fili di Fantasia (Aracne).
Rimedio
A fànfola preparo fantolina
per sogni ringiuniosi nel cassetto,
naturale salbona a parlantina.
Smacedonio parole a traltubetto,
comode dosi a stick di panstonfetto
che leggo a voce tàlpia, dòla e agòna.
Cura e sconfigge magagna e sperletto
de gentaccia sbilenca e sgnaccherona.
L’assumo a bergoleffi di carlona,
beato me ripasso di smorzina
dialetture gergali di persona
e scilinguo la lingua libertina.
Quando sto senza un grillo e un ciufoletto
scrivo solo scartacce a fànfoletto
10 gennaio 2024
Mediterraneo
Ner mare dell’annà a morì ammazzati
cercanno l’Eldorado e sogni d’oro
se imbarcano miraggi de straforo.
Chimere s’un gommone vanno a fonno
migrate nell’abisso più profonno:
Atlantide nun cià cittadinanze.
13 aprile 2024 a Paoluzzi — terza classificata alla XIV edizione del “Premio di poesia e stornelli inediti
nei dialetti del Lazio – Vincenzo Scarpellino 2024″
Roma sarà
Me la figuro bella ch’è un piacere
coll’abbito da sera ricercato
che ritorna de novo un bervedere
co un decortè sur foro a mozzà er fiato.
Senza nemmanco un posto trafficato
co sette metro, sotto a la sottana,
e la tramvia de pizzo ricamato
a girocollo intorno a ‘gni fontana.
Ma ricomincia poi la settimana
te ritrovi cor solito cantiere,
la doppia fila tipica romana
e tutti a sclassonà ch’ è un dispiacere.
Roma sarà né santa e né puttana
sarà sortanto libera e più umana.
24 ottobre 2024
Pianeta MMC
Come immaggino Roma tra ottant’anni?
Ch’esce co Luna su la stratosfera
e vanno ar gran galà de san Giovanni.
Su la via Lattea, tra le madonelle
dipinte da Nettuno er madonnaro
co li gessetti a punta de le stelle.
Beccano Marte, rosso de rabbia,
perché Giove beccato lo fa becco
e Saturno je fa la parodia;
Urano scrive versi da poeta
a Venere ingiallita da la vita
e Mercurio s’è perso na cometa.
Roma dumilaecento è solo un sogno
tra l’utopia e la cura d’un bisogno.
25 ottobre 2024
Nicoletta Chiaromonte
(dialetto romanesco)
Nicoletta Chiaromonte. Interessata alla ricerca musicale della tradizione, si è a lungo impegnata nella esecuzione di brani musicali come chitarrista e cantante, a partire dalla musica celtica per approdare alla cultura dell’area mediterranea, in particolare alla canzone tradizionale romana, napoletana, siciliana. Ha partecipato a molte manifestazioni musicali ed ha collaborato con poeti impegnati nell’ambito dialettale. Negli ultimi anni si è dedicata alla poesia romanesca e nel 2020 ha pubblicato “Ale a Volà”. Nel 2018 è stata vincitrice della sezione poesia del Premio Scarpellino.
Me sparti er core
Me sparti er core, Roma:
t’odio e te vojo bene
Rosico sempre in petto
che pare che m’aspetti
e poi me sfragni,
e in mezzo ar mucchio
nun so’ più gnisuno.
T’odio perchè m’appesti
de miasmi de gasse,
T’odio perchè m’azzoppi
co’ l’onna storta de li sampietrini,
e me confonni
co l’abbeccè de popoli diversi.
Te vojo bene, invece,
quanno versi
‘na lagrima de sole giù pe’ Fiume
e Fiume, lento,
se la porta in silenzio fino a mare.
Te vojo bene
quanno che t’addobbi
de luminarie e stelle.
E pe’ nun piagne
t’accucci triste,
e sospiranno, zitta zitta, aspetti
‘na carezza de luce su la pelle.
MI DIVIDI IL CUORE – Mi dividi il cuore, Roma: /ti odio e ti voglio bene./ Sempre mi avveleno / perché sembra che mi aspetti /e poi mi stritoli /e nella moltitudine / non sono più nessuno. / Ti odio perché mi appesti di miasmi di gas, /ti odo perché mi azzoppi con l’onda storta dei sampietrini /e mi confondi /con il linguaggio di popoli diversi // Ti voglio bene, invece, / quando versi /una lacrima di sole giù lungo il Tevere /e il Tevere, lento /se la porta in silenzio fino a mare. / Ti voglio bene quando ti ingioielli / di luci e di stelle. / E per non piangere / ti accucci triste / e sospirando, zitta zitta, aspetti /una carezza di luce sulla pelle.
Solidarietà
Ognuno c’ha ‘na parte, ognuno è attore
ne la farsa che er monno ha sceneggiato.
Ma si t’affanni e nun t’aregge er fiato
pare che er monno s’è vennuto er core.
Manco ‘na faccia: maschere de cera.
Puro l’orchestra adesso è ammutolita.
Come sur palco, uguale ne la vita,
la compagnia s’è sciorta, e prima c’era.
Ma si aranchi da solo ne l’arena,
e er palco s’è svotato, ch’era pieno,
po’ bastà ‘na comparsa ar boccascena
co’ ‘na battuta de solidarietà,
e già te pare che te pesa meno
calcà le scene nell’arte de campà.
SOLIDARIETÀ – Ognuno ha una parte, ognuno è attore / nella farsa che il mondo ha sceneggiato /ma se ti affanni e non ti basta il fiato / sembra che il mondo si sia venduto il cuore. // Neanche una faccia: maschere di cera. / Anche l’orchestra, adesso tace. / Come sul palco così nella vita / la compagnia si è sciolta, e prima c’era. //Ma se fatichi da solo nell’arena / e il palco si è svuotato, che era pieno / è sufficiente una comparsa al boccascena // con una battuta di solidarietà / e già ti sembra che pesi di meno /calcare le scene nell’arte del vivere.
Er giostraro
Er cavalluccio de la giostra antica,
fresco de biacca, la criniera ar vento
trotta trotta e nun sente la fatica.
La strada la conosce, è lunga assai.
È un viaggio che comincia in un momento
E gira gira…nun finisce mai.
‘N ‘orghenetto ripete un ritornello
pe segnà er passo de la cavalcata
e arilegrà er rondò der carosello.
Er cavalluccio de la giostra bianca,
tutto apparato, la criniera ar vento,
procede a tempo, trotta e nun se stanca.
Poi er giostraro lo ferma.
Sona la campanella,
ch’è ora de smontà pel cavajere
Ma so subbito pronti a salì in sella
‘n’antro pupetto bionno,
‘n’antra pischella co le trecce nere
IL GIOSTRAIO – Il cavallino della giostra antica / fresco di biacca, la criniera al vento / trotta trotta e non sente la fatica. / La strada la conosce, è lunga assai. / E’ un viaggio che comincia in un momento / e gira gira…non finisce mai. / Un organetto suona un ritornello /per segnare il passo della cavalcata /e rallegrare il rondò del carosello. / Il cavallino della giostra bianca, / tutto agghindato, la criniera al vento, / procede a tempo, trotta e non si stanca. //Poi il giostraio lo ferma. / Suona la campanella / perchè è ora di smontare per il cavaliere. // Ma sono subito pronti a salire in sella /un altro bimbetto biondo, / un’altra ragazzina con le trecce nere.
DAVIDE CORTESE
(dialetto siciliano eoliano)
Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma dal 2004. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” , alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” , “Storie del bimbo ciliegia”, “Anuda” , “Ossario”, “Madreperla”, “Lettere da Eldorado”, “Darkana”, “Vientu”(poesie in dialetto eoliano), “Zebù bambino” e “Tenebrezza”. Nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia. E’ autore dei romanzi “Tattoo Motel” e “Malizia Christi”, di due raccolte di racconti e della monografia “I Morticieddi – Morti e bambini in un’antica tradizione eoliana”.
Eolianu
Appartiegnu e cieusi russi, e fìlici, a raggìna.
Sugnu da fògghia tunna du càppiru,
du jancu e viola du ciùri sua.
Sugnu da salamìda e du vulcanu.
Appartiegnu o suli,
a rina nìura, o mari, a medusa,
a pùmmici c’un affunna,
all’ossidiana chi tratteni u scuru.
All’isuli mia, o blu.
Iò appartiegnu o blu.
Appartiegnu o luci,
a stati, e ruvetta, e muri.
Appartiegnu o vientu,
a chiddu c’on mori.
EOLIANO – Appartengo ai gelsi rossi, alle felci, all’uva. / Sono della foglia tonda del cappero, / del bianco e viola del suo fiore. / Sono del geco e del vulcano. / Appartengo al sole, / alla sabbia nera, al mare, alla medusa, / alla pomice che non affonda, / all’ossidiana che trattiene il buio. / Alle mie isole, al blu. / Io appartengo al blu. / Appartengo al fuoco, / all’estate, ai rovi, alle more. // Appartengo al vento, / a ciò che non muore.
L’organiettu i Giacuminu
Nto silenziu chi c’è ora supr’ e fuògghi
d’un viuòlu virdi i Quattrupàna
è ammucciàtu l’organiettu i Giacuminu
e a vuci sua di giganti buonu
chi chiama o cani Babbicieddu
e arrìdi e carusìcchi co salùtanu.
Ammucciàta nta stu silenziu d’ora
è dda musica sua sapuritedda.
Addiu cristianàzzu duci.
Sona cu vientu,
ca vientu sì ora:
passi ’nte ruvetta e un ti punci.
L’ARMONICA DI GIACOMINO – Nel silenzio che c’è adesso sulle foglie / di un viottolo verde di Quattropani / è nascosta l’armonica di Giacomino / e la sua voce di gigante buono / che chiama il cane Babbicieddu / e sorride ai bambini che lo salutano. / Nascosta in questo silenzio d’adesso / è quella sua musica graziosa. / Addio omone dolce. / Suona col vento, / ché vento sei ora: / passi tra i rovi e non ti pungi.
Ora
Ora haiu u passu stancu i cu o scuràri
s’arricugghìa chiànu di cavi i petra pùmmici
lassànnucci a sira a nnuccenza maravigghiàta
da janca muntagna struppiàta.
Capìddi mpurviràti hannu i pinsieri.
E dulurànti i curpa è a vertebra
i cu ha purtàtu ncuòddu a luna.
ORA – Adesso ho il passo stanco di chi al crepuscolo / tornava lento dalle cave di pietra pomice / cedendo alla sera lo stupefatto candore / della bianca montagna ferita. / Capelli impolverati hanno i pensieri. / E dolorante di colpa è la vertebra / di chi ha portato addosso la luna.
SERGIO DRIUSSI
(Lingua friulana)
SERGIO DRIUSSI, 67 anni, Udinese di nascita e “per indole”, già Ispettore della Polizia di Stato, è attualmente in quiescenza. Ha focalizzato il suo interesse sulla cultura friulana, ritenendola un po’ trascurata rispetto a molte altre, cercando di riscoprire i valori della friulanità, impegnandosi nel campo sociale, sia attraverso il dialogo fra la gente comune, sia con la presenza attiva in varie associazioni di volontariato. Si è costruito negli anni una formazione autodidatta, che ha provato a trasmettere nell’ambito teatrale, recitando, dirigendo e, soprattutto, componendo alcuni testi in lingua friulana. Ha scritto anche numerose poesie, ispirate a quei valori innati della sua terra, quali la semplicità dei gesti quotidiani, la riservatezza, la bellezza della vita, della natura e dell’Universo visto come “Amore infinito”. Ama definire le sue poesie “pensieri”, frutto di pulsioni sorte di primo mattino, tra l’ultimo sonno e il levarsi dal letto, scritti semplicemente allo scopo di non dimenticarli, ma di aggiungerli al suo archivio di ricordi.
Il flum de vite
No sai cemût, no sai dulà,
ma mi cjati dentri tal flum de vite
e mi inacuarz di no savê ancjmò nadâ.
Aghe cidine e sclete mi disglagne
tal miez des gjambis,
ma il temporal al è là,
fer daûr di che culine, e si vizine.
Cun sé al puarte pantan e rudinacs
e une vore, une vore di aghe sporcje,
che mi strisine vie.
Cun me, e come me, tante int spampanade
che si vai intôr, che sighe, che si lamente,
in ienfri che le curint le sburte e le puarte vie.
No si viòdin, no si cjàlin
e si disglagnin vie come fueis inzalidis
tra les goris di aghe nere.
Sol une man si slungje,
sol une man mi guide viers le rive,
viers le tiare ferme: e jè la to!
Le stesse che o continui a tignî strente
ancje cumò che o cjamini
tai trois dal timp,
zirint il mar.
IL FIUME DELLA VITA – Non so come, non so dove, / ma mi trovo nel fiume della vita / e mi accorgo di non saper ancora nuotare. // Acqua cheta e pura mi scorre tra le gambe, / ma il temporale è là, / fermo dietro quella collina e si avvicina. // Porta con sé detriti e fango, / e tanta, tanta acqua sporca / che mi trascina via. // Con me, e come me, tanta gente sparsa, / che si piange addosso, che grida e si lamenta, / mentre la corrente la spinge e la porta via. // Non si vedono, non ti guardano / e scorrono via come foglie ingiallite / tra le gore di acqua nera. // Solo una mano si allunga, / solo una mano mi guida verso la riva / verso la terraferma: è la tua! // La stessa che continuo a tenere stretta, / anche adesso che cammino / sui sentieri del tempo, / cercando il mare.
Spanìdis in t’un rideḉ
Le vite si professe
intrigose e inviluciade,
fintremai vueide e straneose,
ma se tu olmis une rose
tu capirâs che le so bielece
no sta tal jesi grande,
o masculine tes sos spinis,
ma tal profum des sos fuees,
nulidis dai glains di soreli
e po’ spanidis in t’un ridec.
DISCHIUSI IN UN SORRISO – La vita può apparire / difficile e oscura, / perfino vuota e ostile, / ma se osservi una rosa / capirai che la sua bellezza / non sta nell’esser grande, / o virile nelle sue spine, / ma nel profumo dei suoi petali / annusati dai raggi del sole / e poi dischiusi in un sorriso.
Profum de vite
Profum de vite e jè l’emozion
al sunsur di une rose spanide
o al cinidor di une neveade.
Profum de vite al è scoltâ
il cjant lontan di un gjâl,
o il bruntulâ materni di une clocje
in te so cove.
Profum de vite al è gustâ le pâs
te bavisele che petene le jarbe dai prâts,
o a le bugade di aghe che si creve
sui claps dal rivâl.
Profum de vite al è maraveasi
a l’industrie di une furmie,
o a le sflacje di un gjat
che al duar incocolât.
Profum de vite al è palpâ lis gotis di roseade
che lusin al soreli che al jeve,
o il scûr de gnot che e ven dongje
daspò il tramont.
Profum de vite al è scoltâ le melodie
te prime gheade di un frutin,
o a l’ultime ansime di un omp
che al ven a mancjâ.
Profum de vite al è nulile
e scuviarzi che dut chest al è amôr
e che tu stesse
tu sês le so part plui biele.
PROFUMO DELLA VITA – Profumo della vita è emozionarsi / al rumore di un fiore che sboccia, / o al silenzio della neve che cade. // Profumo della vita è ascoltare / il canto di un gallo lontano, / o il brontolio materno / di una chioccia nella sua cova. // Profumo della vita è il senso di pace / nel venticello che pettina l’erba dei prati, / o all’onda che si infrange sulla scogliera // Profumo della vita è stupirsi / della laboriosità di una formica, / o alla pigrizia di un gatto che dorme accoccolato. // Profumo della vita è palpare / le gocce di rugiada che brillano al sole nascente, / o il buio della notte che avanza dopo il tramonto. // Profumo della vita è udire una melodia / nel primo vagito di un bimbo, / o all’ultimo respiro di un moribondo. // Profumo della vita è annusare / e scoprire che tutto questo è amore / e che tu stessa ne sei / la parte più bella.
ROSANNA GAMBARARA
(dialetto marchigiano)
Rosanna Gambarara è nata a Urbino. A Urbino ha studiato, si è laureata in lettere classiche ed ha insegnato qualche anno, prima di trasferirsi a Roma, dove attualmente vive e dove ha continuato ad insegnare. A seconda dei momenti e delle esigenze espressive scrive poesie in lingua o nel dialetto di Urbino.
Sue poesie compaiono su cataloghi d’arte, riviste cartacee e on line ( Poetarum Silva,Versante Ripido, Carte Sensibili…). È presente su «Navigare» n. 9, Pagine 2016; nell’antologia Poeti Neodialettali Marchigiani, Versante 2018; in Marche, omaggio in versi, Bertoni 2018; in Il soffio delle parole, Versante 2018; in Il coraggio di scrivere, Versante 2020; Parole e segni, Versante 2021; Poeti e narratori in italiano e in dialetto, Versante 2022; Pagine marchigiane, Versante, 2023; in Novanta9, IAED 2018, 2019, 2022. Ha pubblicato Hysteron proteron, Pagine 2016; Dedlà, Bertoni 2019.
Ha vinto premi o si è classificata tra i finalisti e in posizioni di merito in numerosi concorsi di poesia in lingua e in dialetto: .
1 – Le robb da gnent
Me piac’ la poesia dle robb da gnent
sensa pretes
sensa destin de gloria
che p’n attim
d’improvis taine la storia
p’r un cort circuit,
chisà
‘n trasaliment del temp bizarr,
la poesia di event Ch’ incroc’ne
p’n attim brev
la traietoria dla mi atension volubbil
provisoria
e arcaschne subbit giό
dentra el scur spent d’l’amnesia.
La voc’ cangiant
dla chioma del noc’ dlà tel terass
quand tira el vent
la voia d’viva tel gett nov
l’aroma innocent del basillich tl’ort
el pass caut e guarding del pcion…
El sediment secch del vin tel
secch de vin tel bichier. El stecch. El sass.
(Dedlà, Bertoni, 2019)
1bis – Le cose da niente
Mi piace la poesia delle cose da niente
senza pretese
senza destino di gloria
che per un attimo
all’improvviso tagliano la storia
per un corto circuito
chissà
un trasalimento del tempo bizzarro
la poesia di eventi che incrociano
per un attimo breve
la traiettoria della mia attenzione volubile
provvisoria
e ricadono subito giù
dentro l’oscurità spenta della amnesia.
La voce cangiante
della chioma del noce di là nel terrazzo
quando tira il vento
la voglia di vivere nel germoglio nuovo
l’aroma innocente del basilico nell’orto
il passo cauto e guardingo del piccione.
Il sedimento secco del vino nel bicchiere.
Lo stecco.
Il sasso.
2 – El matarass
Com un corp mort a strascinon ple scal
l’ho tirat giό, un tonf ma ogni scalin,
tun st’afa de st’estat inospital
sa ‘n’ansia e ‘na ferocia d’asasin.
Da bass ho dett ”c’ l’ho fatta, meno mal!”
Tla fodra d’coton bianch e maroncin
a righ, com un corp mort monumental,
stava malè el matarass de crin.
De sguaraguai l’ha portat via el furgon
dla netessa, alle sett, scarabotland.
Amen….Ma al’improvis l’ho arvista quand
arpasava sa l’agh gross le impuntur
sa cl’aria d’innocensa e ostinasion.
E alora ho piant, la faccia contra el mur.
(inedita)
2bis – Il materasso
Come un corpo morto
l’ho trascinato giù per le scale,
un tonfo ad ogni scalino,
in quest’afa di questa estate inospitale
con un’ansia e una ferocia di assassino.
Da basso ho detto: – Ce l’ho fatta, meno male!-
Nella fodera di cotone
bianco e marroncino a righe
come un corpo morto monumentale
stava lì
il materasso di crine.
In fretta e furia
l’ha portato via il furgone della nettezza
alle sette, con fracasso.
Amen….
Ma all’improvviso l’ho rivista
quando
con l’ago grosso ripassava le impunture
con quell’aria di innocenza e ostinazione.
E allora ho pianto
la faccia contro il muro.
3 – Homo bionicus immortalis
T’n armadi asettich c’ha quindic’ polmon
d’arcambi e c’ha diec’ nas, matass de ven,
ott milz ott fegghet e anca nov duoden,
vent costicc’ piό sett tibie e sett peron,
‘na cinquantina d’articolasion
dl’anca c’ha digghen, e trentott safen…
e c’ha, par, piό d’ cent ca…pardon cent pen
d’amiant e en el so quant testosteron,
e quanti arcambi d’ cor e de cervell…
E mentre la comun umanità
sotta el ciel come l’erba com i fior
e com tutt i animal nasc’ cresc’ e mor
lo sol emul de Dio potent e bell
splend malasò tla su immortalità.
(inedita)
3bis – Homo bionicus immortalis
In un armadio asettico
ha quindici polmoni di ricambio e dieci nasi
matasse di vene
otto milze otto fegati e anche nove duodeni
venti costole più sette tibie e sette peroni,
una cinquantina di articolazioni dell’anca ha dicono,
e trentotto safene…
e ha, pare, più di cento ca… pardon cento peni
d’amianto
e non so quanto testosterone
e quanti ricambi di cuore e di cervello…
E mentre la comune umanità
sotto il cielo
come l’erba come i fiori e come tutti gli animali
nasce cresce e muore
lui solo
emulo di Dio
potente e bello
splende lassù nella sua immortalità.
MARIA LENTI
(Dialetto marchigiano di Urbino)
Maria Lenti, poetessa, narratrice, saggista, giornalista, è nata e vive a Urbino. Docente di lettere fino al 1994, anno in cui è stata eletta (e rieletta nel 1996 fino al 2001) alla Camera dei Deputati con Rifondazione Comunista. In poesia ha pubblicato: Un altro tempo, 1972; Albero e foglia, 1982; Sinopia per appunti, 1997 (2° classificato al premio Alpi Apuane); Versi alfabetici, 2004; Il gatto nell’armadio, 2005; Cambio di luci, 2009 (finalista al premio Pascoli); Ai piedi del faro, 2016; Elena, Ecuba e le altre, 2019 (3° premio al PontedilegnoPoesia 2019); Arcorass Rincuorarsi, 2020. Ha pubblicato narrativa breve (da ultimo: Apologhi in fotofinish. Racconti e altri scritti, 2023) e saggi, tra cui Cartografie neodialettali. Poeti di Romagna e d’altri luoghi, 2014. Ha curato, con Gualtiero De Santi e Roberto Rossini, il volume Perché Pasolini (1978). Sulla sua poesia Lucilio Santoni ha realizzato nel 2002 il film-video A lungo ragionarne insieme. Un viaggio con Maria Lenti.
Sogno
Ovidio, in sogno, me guarda fitt:
“Hai letto a fondo la mia Ars amandi e praticato
i giochi delle tessere e degli astràgali, delle pedine?”
Oddio.
Corr ad aprì el libre
per veda de precis a co’ se riferisc.
En el so se j ho giocati propi ben chi dadi sua,
le pietruzze, le palle con la tavoletta
tle rob d’amor.
“Sì e no…pò darsi…forse. Ach’sé…Così così”, sbasoffie.
“Male…”.
Ho capit. Me tocca ristudiè. “Poss arprovè?”.
“En cregh – me rispond sa j occhi ummidi e tèl mi dialett -.
’Na vitta, so’ sicur sensa tentennamenti, in ogni cas
en basta. La mia l’ho perduta a Tomi.
Due en c’èn manch a pagalle.
Per nesun”.
SOGNO – Ovidio, in sogno, mi guarda fitto: “Hai letto a fondo la mia Ars amandi e praticato / i giochi / delle tessere e degli astràgali, delle pedine?”. / Oddio. / Corro ad aprire il libro / per vedere di preciso a che cosa si riferisca. / Non so se li ho giocati proprio bene quei suoi dadi, / le pietruzze, le palle con la tavoletta / nelle cose dell’amore. / “Sì e no…può darsi…forse. Così…Così così”, farfuglio. / “Male…”. / Ho capito. Devo studiare di nuovo. “Posso riprovare?” / “Non credo – mi risponde con gli occhi umidi e nel mio dialetto -. / Una vita, sono sicuro senza tentennamenti, in ogni caso / non basta. La mia l’ho perduta a Tomi. / Due non ci sono nemmeno a pagarle. / Per nessuno.”
Incontri
ma la posta d’ Piansever
un novantenne sa la badant
(un ancora vivo stare insieme
scuola e politica la piassa d’Urbin)
com va come non va
“vagh avanti…ma ormai
j ho sgranati tutti j acin del rosari e te?”.
Io, sensa tropp foch tèl camin,
c’ho ancora la corona tle mi man.
INCONTRI – all’ufficio postale di Piansevero / un novantenne con la badante / (un ancora vivo stare insieme / scuola e politica la piazza di Urbino) / come va come non va / “vado avanti…ma ormai / ho sgranato tutti gli acini del rosario e tu?”. / Io, senza troppo fuoco nel camino, / ho ancora la corona nelle mie mani.
Modesta proposta
(per prevenire conflitti)
potere e arsenali
soldi e generali
guerrafondai tavolari
capitalisti matricolari
dei punti quattro cardinali
il deserto intorno
nostre paure ventricolari
vòj dè la mi solusion
sa ’na grejarina de sal:
vadano
i capi-caporioni
armati e armaioli
grandi e festaioli
nel Pattòlo
ad arcoja sol per lór tutt l’or
a metta tlè sacocc chel tesor
sa tutt chel pes
avrann un gran lavor
starann ben malé
la ment al fresch i pied a moll
el corp satoll
MODESTA PROPOSTA (per prevenire conflitti) – potere e arsenali / soldi e generali / guerrafondai tavolari / dei punti quattro cardinali // il deserto intorno / nostre paure ventricolari // voglio dare la mia soluzione con un pizzico di sale: / vadano / i capi caporioni / armati e armaioli / grandi e festaioli / nel Pattòlo / a raccogliere solo per loro tutto l’oro / a mettere nelle tasche quel tesoro // con tutto quel peso / avranno un gran lavoro / staranno bene lì / la mente al fresco i piedi a mollo / il corpo satollo
Domanda
che poesia dire se tramontati
astri la luna
se resta la mia vita
calamita
verso la vita?
Dalla raccolta
Segn e artaj Segni e ritagli, Prefazione di Gualtiero De Santi, puntoacapo 2024
GIUSEPPE MARIA LOTANO
(dialetto lucano di Castelgrande PZ)
, nato a Castelgrande (PZ) nel 1944. Laureato in Scienze Economico-Marittime e Borsista SVIMEZ, nel 1969, è stato Ufficiale di Capitaneria in Marina, Prof. di Tecnica Bancaria all’Istituto Tecnico di Moliterno (PZ) e, a Roma, funzionario presso la OTE, BPC, EFIM, Ministero dei Trasporti.Ha conseguito riconoscimenti in narrativa, in poesia in lingua e vernacolo. Ha pubblicato: Lucus poesie, Cafi Ed., Roma, 2003;-Brahmaea poesie, Cafi Ed., 2004;-Pinus Leucodermis, guardiano del tempo, Menna Ed., Avellino, 2008, Tratturi Dibuono Edizioni / Villa d’Agri, Prèet – Castelgrande, linguaggio e territorio, Dibuono Edizioni / Villa d’Agri. AA. VV.: Una estranea partecipazione, Fermenti Editrice, Roma, 2009;-Scritto e… Mangiato, Giulio Perrone S.r.l, Roma, 2011;-Premio Internazionale di Poesia e Narrativa, Amici Senza Confini ONLUS, Roma, 2011.
Fhur
Teng paur
t n si ghiut
st munn
è rmuast
all’ascur
però
lccjcuei
mabbast
cr pnsier
ca già t vec
e pur la nott
rstann sul
ndà r stell
r te ngé
la fhur.
IMMAGINE – Ho paura / te ne sei andata / questo mondo / è rimasto / all’oscuro / però / luccica / mi basta / quel pensiero / che già ti vedo / e anche la notte / restando solo / dentro le stelle / di te c’è / l’immagine.
Jrnuat
Assapruat
r puan
c muzzc e gluij
ra uaglion
m n jè
gjrann vij
ma n cnnuciuè
tanta pnsier mij
er senza fatih
intr m strriuè
uardnm attuorn
cjrcav at luoc
ndo ptuè j
nda l puais
maj fniè
la jrnuat.
GIORNATA – Assaporato / il pane / con morsi e voglia / da ragazzo / me ne andavo / girando strade / ma non ingoiavo / tanti pensieri miei / ero senza lavoro / dentro mi struggevo / guardandomi intorno / cercavo altri luoghi / dove potere andare / in paese / mai finiva / la giornata.
Cntuantezz
Stanott è nvcat
e chi s l aspttav
clur r irmcj
terre e vosc
ra la fnestr
nn s n vern
l munn è jang
è cmm si stess
sott a n lnzul
rcamat p la spos
sott a r cpuert
la nev av apparat
foss e vianov
e nn saccj com
ma s stnnecchij
pur sop ai fil
r la corrent
quacc passr abbol
e sntenm tra lor
cattuorn l cuandor
pens ca s ptuarij
accmnzà ra cap
c ognj cos r munn
tutt npacj e nsiem
senza fam e uerr
pur la lucj r l sol
ropp l’avzuat
p cntuantezz
n sparess
a ognj calat.
CONTENTEZZA – Stanotte è nevicato / e chi se l’aspettava / colori di embrici / terreni e boschi / dalla finestra / non se ne vedono / il mondo è bianco / è come se stesse / sotto a un lenzuolo / ricamato per la sposa / sotto alle coperte / la neve ha appianato / fossati e rotabili / e non so come / ma si distende / anche sopra i fili / della corrente / qualche passero vola / e sentendomi tra loro / con intorno il candore / penso che si potrebbe / iniziare d’accapo / con ogni cosa del mondo / tutti in pace e insieme / senza fame e guerre / pure la luce del sole / dopo la levata / per contentezza / non sparirebbe / a ogni calata.
Prim
Ch m rest
naddmmuan
senza rspost
nhn s capiscj
chisà ché stat
tutt aggj pruat
mo t ric ca
for ra l munn
nhn saccj sta
chiu fort r me
è rarm ra fa
c s facj facj
tant ca s ricj
chi prim savz
p prim s cavz.
PRIMO – Cosa mi resta / una domanda / senza risposta / non si capisce / chissà cosa è stato / tutto ho provato / ora ti dico che / fuori dal mondo / non so stare / più forte di me / è darmi da fare / cosa si fa fa / tanto che si dice / chi prima si alza / per primo si calza.
Cruaggj
A chiangj
è n luss
tu rmuan
semp chi si
pcché ricj
cos luer
javt attuorn
senza sapè
ponn pnsà
chi sa
c ten ngap
ma meglj
si n r sann
l cor è l tuij
e pur si rvoggj
s cnfuir c tuic
e t raj cruaggj.
CORAGGIO – A piangere / è un lusso / tu resti / sempre chi sei / perché dici / cose vere / gli altri intorno / senza sapere / possono pensare / chissà / cosa ha in testa / ma meglio / se no lo sanno / il cuore è il tuo / e anche se ribolle / si confida con te / e ti dà coraggio.
Ngiehr
È fnut
n ngj sì
allat a mi
mo ngé fridd e ser
i pnsier so chiatrat
né s sentn né s movn
l sgnfcat r casa nostr
è r quann ngiehr tu
s pnsav parlav facié
sti juorn appriess
nur r cor e sapor
passn sluarin
spiers e mut.
C’ERI – È finita / non ci sei / al mio fianco / ora c’é freddo e sera / i pensieri sono gelati / né si sentono né si muovono / il significato di casa nostra / é di quando c’eri tu / si pensava parlava faceva / questi giorni seguenti / nudi di cuore e sapore / passano solitari / dispersi e muti.
VINCENZO LUCIANI
(dialetto pugliese)
Nato nel 1946 a Ischitella nel Gargano; dal 1975 vive a Roma. Dirige il mensile “Abitare A”. È fondatore dell’Associazione e della rivista di poesia “Periferie”. Dirige il Centro di documentazione della poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino”. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Il paese e Torino (1985); I frutte cirve (1986), Frutte cirve e ammature (2001), Tor Tre Teste ed altre poesie: 1968-2005 (2005), La Cruedda (2012), Straloche/Traslochi (2017) e Vanzature/Avanzi (2020). Nel 2022 ha pubblicato Poeti di paesi e di città e La mia Roma a piedi. Dal 2005 al 2012 ha condotto, in prima persona o con l’aiuto di collaboratori, ricerche: sui dialetti del Lazio, in particolare nelle aree della Tuscia meridionale, Campagna romana nord-occidentale, nei 121 Comuni della provincia di Roma e nei 33 comuni della provincia di Latina, i cui risultati sono poi confluiti in otto volumi.
Dda casaredde
E accuscì sbalijanne ji e Mechele
ce arrecettame ’e case nostre…
Ma quala case, tu? U biebbì?
Jisse ce torne
’a casa sua, ji nun a tenghe
cchiù dda case,
a casaredde mije… e d’Achille,
vacande
che ce stranie
ammezze ammezze a chiazze de Scketedde.
QUELLA CASARELLA -E così ondeggiando io e Michele / ci ritiriamo alle nostre case… / Ma quale casa, tu? Il B&B? / Lui ci ritorna / a casa sua, io non ce l’ho / più quella casa / la casarella mia… e d’Achille / vuota / che si stranisce / proprio in mezzo alla piazza d’Ischitella.
U currive
Me sente nu currive
che nun ce pò stutà.
Penze a ddi mane che ji nun t’hé strinte
pure si lu vuleve,
penze a ddi vasce
che da la vocche nun me so’ lluate,
mupefrecate, e a ddi parole
che m’hé tenute
a fforze a fforze ncorpe.
IL RIMORSO – Sento un rimorso / che non si può spegnere. / A quelle mani penso, non strette / eppure lo volevo, / penso ai baci / rimasti alla bocca attaccati, / stupido fottuto, e alle parole / tenute /a forza a forza in corpo.
Pojete e pojete
Stanne i Pojete
quiddi p’a PE stampatelle
che tu nun li capisce
pecché so cume i medeche
quanne che ciapùgnane a rezzette
che ’a sape ’ntenne sckitte
u farmaciste, i avvucate…
che ce capìscene
tra lore e lore.
Ji ammece,
pojete allabbunate,
scrive che me capisce
pure chi ha fatte i scole vasce
e pure i annalfabbete
cume a pàteme e quidde
che, cume a mamme.
hanne fatte sckitte
a prime senze esame
pecché aveve jie a mmete.
POETI SOPRAFFINI E POETI ALLA BUONA – Ci sono i Poeti / quelli con la P maiuscola / che non riesci a capirli / perché sono come i medici / quando scarabocchiano la ricetta / che la decifra solo il farmacista, l’avvocato… / che si intendono bene tra di loro. // Invece io poeta alla buona / scrivo che mi capisca / chi ha fatto le scuole elementari / e pure gli analfabeti, come mio padre, e quelli / che come mia mamma / hanno fatto solo la prima senza esame / perché dovevano andare a mietere.
ANTONIO MARIA MASIA
(Lingua sarda)
Antonio Maria Masia. Nato a Ittiri nel 1944, ha studiato a Sassari e lì ha iniziato in Banca Commerciale Italiana (ora Banca Intesa) il suo lavoro che lo ha portato in qualità di direttore responsabile nelle Filiali di Olbia, Frosinone, Pisa, Como, Pescara, Firenze e Roma. Attualmente vive nella Capitale. Dal 2010 è presidente del Circolo di Roma il “Gremio” e cura eventi e manifestazioni con al centro il tema della Sardegna, la sua cultura, gli artisti, il cinema, la musica, l’economia. Ha pubblicato, in italiano nel 1989, Dominioni Editore- Como, il libro di poesia I Silenzi di Pietra. In lingua sarda, nel 2002, edizione Carlo Delfino – Sassari, il libro Kadossène (pantofola degli Dei), un canto sulla storia della Sardegna, in ottave rime. Nel 2019 per Nemapress editore ha pubblicato Antiga limba. Poesias e meledos peri sas àndalas de sa vida: Il libro raccoglie poesie e commenti saggistici da lui stilati negli ultimi trent’anni. Un volume scritto per una vita dedicata alla diffusione, allo studio ed alla conservazione della lingua sarda. Il volume scritto in sardo, variante logudorese, è tradotto in italiano dallo stesso Autore.
1 – Sa vida, sa vida mia:
(Undighina: strofa di undici versi, settenari ed endecasillabi)
Sa vida, sa vida mia:
sonos, cantos, poesia
e a Marta e Teresa custa cara. *
Fizos a manu tenta:
su dillìriu, s’imprenta,
ch’in coro meu tenia e in lara.
Pro te Amada Terra
in paghe, chentza gherra.
Pro ch’èsseras, Sardigna, perla rara
in d’unu mundu ‘onu,
ne dolu, ne affannu, ne padronu
LA VITA, LA MIA VITA:
suoni, canti, poesia,
e a Marta e Teresa questo volto. *
Figli che si tengono per mano:
il delirio, l’impronta,
che nel mio cuore tenevo e nelle labbra.
Per te Amata Terra
in pace, senza guerra.
Perché tu sia, o Sardegna, perla rara
in un mondo buono,
né dolore, né affanno, né padrone.
*Maria: Marta in “Gesù” di Zeffirelli e Teresa d’Avila in teatro.
2 – Posso stringerti la mano?
Non speravo mai di conoscerti da vicino,
così bella, così mediterranea, così importante.
Ma lo desideravo da sempre.
Perchè ti sentivo sorella e soprattutto madre.
Madre sarda, di tutti i sardi.
E il sogno finalmente si avverò, quattro anni prima che il tumore ti portasse via. Una serata d’incanto romana,
dopo averti sentita cantare ai piedi dell’altare di Sant’Eustachio,
mi faccio coraggio:
“ ti posso stringere la mano?
Mi chiamo Antonio Maria e sono di Ittiri”.
“Bittiresu, sese!” (Ittirese sei!)
E mi accogliesti con uno dei tuoi sorrisi di sole.
Era il 1990. Da allora una sincera e affettuosa amicizia.
Incontri, scambi di poesie, di opinioni e doni.
A casa mia portasti i tuoi dischi,
e Toia a te il dono di un suo prezioso lavoro:
un bianco centro tavola fatto con l’uncinetto.
La sofferenza, poco tempo dopo,
già traspariva nel non più giovane volto,
ancora bello ed ancora più dolce,
e non solo per il male oscuro che già ti prendeva,
ma anche per il pensiero al tuo amatissimo figlio David,
non sempre a te vicino, e per la solitudine di un amore finito.
Ma ancora ben presente in te
la forza della parola,
la potenza della voce,
la grande lucidità e dignità del pensiero,
e l’amore smisurato
per le tue radici, la tua Isola e la tua gente.
Adiosu Maria, ti ritroverò
nel silenzio cosmico del piccolo lembo di terra sarda
che ti ha dato alla luce,
e che la tua luce conserva per sempre, con infinito amore.
E lì ascolterò ancora la poesia del tuo Canto.
FERNANDO PELLICIARDI
(dialetto Romagnolo)
è nato nel 1944 a Bizzuno di Lugo (RA) in una famiglia mezzadrile ed è vissuto in ambiente dialettofono rurale fino alla seconda metà degli anni ’60. Dopo la maturità classica, si è laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università di Bologna. Dal 1970 vive a Roma. Specialista in Sistemi e Reti di Telecomunicazioni, ha ricoperto l’incarico di responsabile del Servizio TLC in Banca Nazionale del Lavoro ed in Alitalia. Ha sempre affiancato all’attività professionale l’interesse per tradizioni e idiomi romagnoli con la pubblicazione di volumi e saggi sula lingua, la letteratura ed il folclore della propria regione di nascita. È autore di due raccolte di versi, distribuite in edizioni fuori commercio (La riditê, 1998 e Parôl, 2016), e di altre composizioni apparse su periodici e riviste a diffusione regionale. Dal 2005 è presidente della Associazione Famiglia Romagnola APS.
Parôl
Un sòpi,
sól un sòpi.
Oja scórt?
Cs’òja dèt?
A m ét sintù?
In te zèt
d’una lêrga
ch’ n à cunfen
u s amôrta
la vós
dal nöst parôl.
Un sòpi.
Sól un sòpi
e pu piò gnit.
PAROLE – Un soffio, / solo un soffio. // Ho parlato? / Cosa ho detto? / Mi hai sentito? // Nel silenzio / di una distesa / senza confini / si spegne / il suono / delle nostre parole. // Un soffio. // Solo un soffio / e poi più nulla.
Insògn?
Stanöt
a m sò sdistê
tot in t’na vôlta.
J òc sot
i m s’era inumdì
d dò gozl apèna.
S’a j ò sugnê
cvalcvël
a n sarèb dìl.
A n m’arcùld gnit.
Mò a turèb scvési a dì’
che in che mument
a j ò sintù
ch’a n séra da par mè.
SOGNO? – Stanotte / mi sono svegliato / all’improvviso. // Gli occhi asciutti / mi si erano inumiditi / di due lacrime appena. // Se abbia sognato / qualcosa / non saprei dirlo. // Non mi ricordo nulla. // Ma oserei quasi dire / che in quel momento / ho sentito / di non essere solo.
Prugrës
Tugnàz
da zóvan
e daseva la mòla
a dal fati biastèm
ch’ali apiéva la pèpa.
Cvand ch’la i vô,
bsögna dìla!
Cal dön invézi
ali andéva a mèsa
e a la bandizion
cun e fazulèt a la tësta;
e a la sera
in tla cambra d’in ca
prèma d’andês a lët
al dgéva e rusêri
cun i bastérd inznucé
sò in sal scaran arcvérti d zlena.
Cun e temp
Tugnaz
u s’è sruzê
e l’à smès d biastmêr.
Dop zena
cun tot cvèl ch’u i è in television
pre rusêri u n i è piò alsìr.
De Signór
u n s’arcôlda piò anson.
PROGRESSO – Toniaccio / da giovane / dava la stura / a certe bestemmie / che accendevano la pipa. / Quando ci vuole, / bisogna dirla! / Le donne di casa invece / andavano a messa / e alla benedizione / con il fazzoletto in testa; / ed alla sera / in cucina / prima di andare a letto / recitavano il rosario / con i ragazzi inginocchiati / sulle sedie ricoperte di carice. // Con il tempo / Toniaccio / si è dirozzato / e ha smesso di bestemmiare. / Dopo cena / con tutto quello che c’è in televisione / per il rosario non c’è più tempo. // Del Signore / non si ricorda più nessuno.
[Le tre composizioni sono tratte da Parôl (Parole), 2016]
LORENZO POGGI
(dialetto romanesco)
Lorenzo Poggi è nato a Roma dove è sempre vissuto. Ha lavorato per oltre trenta anni nell’editoria tecnica. Dismessa questa attività, è tornato alla sua vecchia passione: la poesia. L’attività poetica è iniziata (o ripresa dopo cinquant’anni) nel dicembre del 2009 e si è concretizzata nella produzione di oltre 2500 poesie pubblicate su vari siti (Poetare, Poetry & Literature, Cantiere poesia e, da ultimo, su Face book, nei siti e gruppi poetici). È presente in varie antologie. Le sue pubblicazioni (15 raccolte) vanno dal 2011 al 2024.
Le sue poesie sono presenti in molte antologie ed è stato segnalato con premi speciali della giuria in diversi concorsi letterari. Con “La nauseatudine” ha vinto il primo premio per libri editi nel concorso “L’arte in versi”.
Cianno rimannato a quer paese
da dove venimo e dove semo nati.
Che te devo di’, arrivati de qua
nun ciavemo capito gnente
perché qui la gente raggiona strano.
Nun pensano a sta’ bene tutti quanti
pensano solo ar proprio orticello
e se guardeno ’n cagnesco
e se invidieno e se odieno.
Capita pure che quarcuno
ammazza pe’ troppo amore.
Così, pe’ fortuna nostra,
c’hanno rimannato de là
‘ndove nun serve neanche de parla’
pe’ capisse e pe’ capi’ .
Dialoghi strampalati
«Ma che stai a fa’?»
«Sto a cerca’ ‘na cosa che me so’ perso»
«E che te sei perso?»
«Me so’ perso la voja de campa’»
«Ma che me stai a cojona’?»
«No, me la so’ persa davero,
chissà ‘ndove l’ho messa»
«Ma che stai a di’,
solo le cose concrete se ponno perde»
«E qui casca l’asino.
Nun l’hai mai sentito di’ “è morto de crepacuore»?
«E allora?»
«Allora te vojo di’ che anche ‘n dolore
po esse ‘na cosa
e pure la voja de campa’
perché si te perdi er portafojo
nun c’hai i sordi manco pe ‘n caffè
e ne poi fa’ a meno,
ma si te perdi la voja de vive
come fai a anna’ avanti?»
***
Ma che t’ho da di’
io la gente
nun capisco più
come raggiona,
che je dice er cervello.
A vorte me sembra che so io
che nun capisco più gnente
a vorte me sembra
de parla’ ‘n’antra lingua
eppure semo tutti italiani.
Mò, a parte er fatto
che italiani nun lo semo mai stati
(solo quarche vorta
quanno vince la nazionale)
er problema è che le parole
nun so’ più legate ar significato
che sta sur vocabolario.
Seguono er vento che tira
e le parole d’ordine che girano
e che te convincono che due + due
nun fa più quattro.
***
Me so’ fatto ‘n sogno
‘ndove c’era ‘na casetta
sola soletta, grossa
come ‘n pugno de fantasia.
Stava ner bosco
‘n bosco senza foje
e senza favole da racconta’
pieno de raggi de sole
pe’ fa’ fuggi’ le ombre.
Sembrava tenera tenera
coi muri de vento
e le finestre piene de quadri
pe’ nun fa’ entra’
la zozzeria der monno.
***
Nun so che fammene
de ‘sti quattro pensieri
che me girano pe’ ‘a testa.
Veramente
nun so che fammene
manco de ‘a testa
si nun fosse che serve pe’ magna’.
Er cervello se n’è ito,
è annato a rifugiasse ner pajajo
tanto nun serve più pe’ pensa’.
è annato a vede’
si è vero che i cammelli
passeno nella cruna dell’ago.
Quanno arza ‘a testa
ce so’ ‘n sacco d’asini che volano.
MAURIZIO ROSSI
(dialetto romanesco)
Medico romano. Scrive in lingua e in romanesco. ha pubblicato Dal pozzo al cielo (2008), Tempo di tulipani (2009); Sono aratro le parole (2011); Che resta da fare (2014); Cercanno leggerezza (2015/17); La veglia e il sogno (2019/20); Di sabbia e d’arancio canterò (2023); il romanzo La ruota di Duchamp (2022). Finalista al premio “Laurentum” 2009; Menzione di merito al Premio “Poesia in omeopatia” 2013. Nel 2017 II Classificato per la sezione “Stornelli” al Premio “Vincenzo Scarpellino”; nel 2018 II Classificato per la sez. “Poesie” e finalista nella sez. “Stornelli” del medesimo concorso. Collabora con scritti e recensioni alla Rivista Online “Poeti del Parco”; è nella redazione della Rivista “Periferie”(Ed. Cofine) E’ socio de “La Primula”, associazione tra volontari e famiglie di disabili, nella quale partecipa al laboratorio teatrale integrato e agli spettacoli messi in scena. E’ tra i promotori dell’Associazione “Casa delle Poesie Centocelle” nel V Municipio di Roma.
Quattro staggioni
Primavera
Pare ieri, gelava tramontana,
mo’ l’afa che te spoja e cambia er tempo.
Cupido spara co la cerbottana
la freccia ch’ar còre dà er tormento,
e smove tutta l’aria e la rintrona
de canti che sprofumano d’amore
tra li sospiri pe contà l’ore.
Estate
Dichi “Ma le cicale sò l’estate!”
da la matina ràspano de panza
pe la callaccia mezze ‘mbriacate.
Abbàda, de ‘sto sòno la sostanza
nun aricconta favole incantate,
è solo fregatura pe una moje
che deve spegne l’arsura de le voje.
Autunno
Er vento smove le foje pe la strada,
e fa cascà sortanto quelle gialle;
sotto le scarpe pàreno masnada
de meggere, cor ghigno in de lo scialle
che la mano inzecchita tiene a bada.
Tra er lusco er brusco viè no struggimento
pe le risposte che straporta er vento.
Inverno
E’ uno stravéde mo la neve a Roma
magara er freddo boia nun amanca;
‘sta giannetta tra li cartoni introna,
longo, a piazza Vittorio su ‘na panca.
Cor semafero ch’ammicca e me cojona,
nun m’aricordo più chi m’ha costretto
a stà pe strada senza manco un tetto.
Profumo
Er celo griggio paro paro
er viso m’annisconne
e quelo sguardo pittato
de gaiezza. Ner silenzio
la voce sua è fumo che respiro
e me sprofuma drento.
ANTONIETTA TIBERIA
(dialetto ciociaro)
Antonietta Tiberia è nata nel 1941 in Ciociaria e vive a Roma. Si destreggia tra narrativa, poesia e traduzioni. Ha pubblicato: Per le stagioni con ali di velluto (2024), Haiku per un anno bisestile, Calpestando le aiuole (2011), I racconti del ponte (edizioni Progetto Cultura) e varie traduzioni: dallo spagnolo: Di oggi, Omero prende solo il fiore, ed. FusibiliaLibri (poesie del poeta argentino Mario Paoletti), dal francese: Astrologia araba di C. Aubier, dall’inglese: Il mio nome è Bond (autobiografia di Roger Moore), ed. Gremese, Jorge (poesie di Sotirios Pastakas, ed. I quaderni del bardo), Unspoken/Inespresso (poesie di Fatiha Morchid, ed. LietoColle). Già redattrice della rivista «linfera», collabora alla rivista poetica «Il Mangiaparole».
Nǝ ditǝ dǝ uinǝ
A stǝ ditǝ dǝ uinǝ
c’à rǝmastǝ trentǝ
a chesta buttiglia
che ci facci?
Lǝ rǝponǝ?
Mullǝ beu addǝmanǝ?
Addǝmanǝ
‘nci sta.
Purǝ gli jornǝ
annanti s’ha lacotǝ,
manch’issǝ ci sta ppiù.
Ci sta sulǝ stǝ crèddǝ, i stǝ
ditǝ dǝ uinǝ alla buttiglia. Lǝ
facci perda? Ma che lǝ dici affà? Si
sǝccidessǝ chesta buttiglia nǝǝn m’appurdenèra.
I allora mullǝ beu. Sarà
‘sta goccia a vencia la partita cu l’eternità.
UN DITO DI VINO. – Nella bottiglia è rimasto un dito di vino. Che ne faccio? Lo metto da parte? Lo bevo domani? Domani non esiste. Ieri è già passato, non ci sta più. È rimasto quest’attimo e questo dito di vino alla bottiglia. Lo faccio sprecare? Se lo facessi la bottiglia non me lo perdonerebbe. E allora me lo bevo. È questa goccia che vince la partita con l’eternità.
Chellə cu nən finisci mmai 1
Semprə carə m’a statə chistə collə
i chesta fratta, cu m’anguatta chellə
ca agli occhi mé ci sta ləntanə assai.
Stènnə assisə i guardènnə, pro ci pensə
a cuantə largu èta sta a chell’atra via,
cuantə silenzi… i ‘sta paci assəluta
cuasi mu ‘mpaurisci. Cuandə gli ventə
je gli sentə striscià mmesə allə piantə,
la voci sea je la mettə appara
a ssə silenzi ca nən finisci mmai:
tutta l’eternità mu passa annanti,
i gli tempi passati, i chigli
cu mò jamu vivennə, cu gli rəmorə sé.
Punsènnə acché so doci chessə cosə,
mmesə a ssə marə mucci cuasi affocu.
L’incoronazzione – in ottava rima
Consiji pe’ re Carlo III
Lo scettro hai da tenello stretto a dritta
ché attorno ar trono nun ce sta un ripiano;
se ce stasse, quarcuno ne approfitta!
Putacaso te casca da la mano,
sarebbe propio ‘na mezza sconfitta:
lì ciai da mette l’acqua de Bracciano,
devi annà a boccasotto a raccattallo,
perché, quelo, er re solo po’ toccallo!
E la capoccia, poi? Nun la pôi move,
si sopra cianno messo la corona
che pe’ tenella n’hai da fà de prove!
E si fai quarche mossa alla carlona
magara te se sposta chi sa indove
e te pò mette a rischio la portrona!
L’hai aspettata tanto ‘sta consegna
pe’ salì ar trono! E mò, allora, regna!
PAOLO EMILIO URBANETTI
(dialetto romanesco)
Paolo Emilio Urbanetti è nato a Rieti il 17 aprile 1955. Laureato in Filosofia, dopo gli studi è stato tecnico del suono e quindi ricercatore d’archivio nonché curatore e organizzatore di mostre ed eventi culturali. È autore di saggi e studi di storia locale con particolare riguardo alla Tuscia viterbese e all’area della maremma tosco-laziale. È guida turistica dal 1999. La sua produzione poetica, in lingua italiana e dialetto romanesco, inizia nel 2015. Ha conseguito numerosi riconoscimenti in concorsi letterari sia in lingua che in dialetto. Alcune sue poesie sono state pubblicate su Voce Romana e sulla rivista on line Poeti nel Parco. Ha pubblicato due raccolte: Venti Sonetti Romaneschi (2017) e Poesie Romane (2020).
Casa mia
Io sto sur Lungotevere, a Marconi,
però ciò messo ‘n po’ pe amà ‘sto posto,
venivo da ‘n quartiere bello tosto
co tanta storia e mille tradizzioni.
Qua ciò trovato solo palazzoni,
negozzi tutto fumo e gnente arosto,
co ‘sto ber fiume, è vero, proprio accosto
però quanto cemento e costruzzioni!
Poi ‘nvece piano piano ho realizzato
che tutto ‘sto disprezzo era ‘no sbajo
e mo sarà pe ‘r forno o pe ‘r mercato,
sarà pe li giochetti de mi’ fia,
sarà er baretto o quela pizza ar tajo
ma ‘sto postaccio adesso… è casa mia.
Arbeit Macht Frei
(16 ottobre 1943)
Ariveno sur presto, co li cani,
li cami parcheggiati sur cantone
de Via der Tempio, sfonneno er portone:
«Scennete! Tutti fora! E su le mani!»
Noi tutti giù de corza da li piani
co mamma che me fa: «Sveja Simone!
Dije de córe subbito a Parione!
De stà anniscosto llà fino a dimani!»
Ce spigneno pe forza su li cami,
mi’ madre s’è inguattata du’ brelocchi
porella… je li troveno, ‘st’infami.
Mo stamo su ‘sto treno che va dritto…
‘ndo va a finì ce l’ho davanti all’occhi…
«lo sgobbo te fa libbero» c’è scritto.
L’amore pe noantri
Quattro scopate fatte bene a Agosto
e stamo pucci pucci tutto l’anno,
viè qua paciocca mia che famo danno
lo so nun sò pischello… ma sò tosto.
T’acchitti come fusse capodanno
me faccio ‘na cannetta, me t’accosto,
du’ parolette zozze e te ce manno,
te manno in paradiso… e stamo apposto.
L’amore pe noantri, gioia mia,
mica cià più la prescia de ‘na vorta
mo serveno carezze e fantasia
nun dura più de tanto… quer che basta,
finisce che me fai, da gattamorta,
“Amo’… se famo ‘n firme o ‘n po’ de pasta?”
Du’ cose che ce sbrocco
Difficile che a mme me rode er culo
io sò ‘n bravo regazzo, sò ‘n paciocco
lavoro tutto er giorno come ‘n mulo
però pe ‘n par de cose… io ce sbrocco.
Presempio si sto in fila e un rottinculo
me passa avanti allora faccio: – Cocco,
che penzi de venì a fà er paraculo?
Ma levete che mica sò ‘n allocco! –
Ma più de tutto a mme me fà sbroccà
‘na cosa che tra tutte è la più peggio:
è quanno pe quattr’ora sto a cercà
o sotto casa o in tutte l’antre parte
un posto, un buco, un cazzo de parcheggio
lo vedo, me ce fionno e c’è ‘na Smarte