Ho conosciuto Giusi Verbaro (26 marzo 1938 – 27 agosto 2015) e la sua poesia a cavallo fra gli anni Settanta e gli Ottanta, quando pubblicò con le forlivesi edizioni di Forum-Quinta Generazione le due raccolte «Traiettorie e traslazioni» (1979) e «A valenze variabili» (1981) nelle quali già si delineavano i motivi che nei numerosi libri successivi, con voce sempre più potente e persuasiva, ha saputo riproporre e approfondire, partendo dalle sue radici mediterranee che evocano i miti della Magna Grecia e si specchiano nel mare della Calabria; e poi i temi del viaggio, dell’amore, del dialogo con chi non c’è più; e, ancora, la memoria del passato, il confronto col presente, i grovigli delle pulsioni delle nostre esistenze indagate anche attraverso l’analisi della propria vicenda umana, con una incrollabile fiducia nel valore salvifico della poesia.
Intanto si susseguono titoli nei quali si sviluppa l’idea di un organismo poetico che, attraverso sequenze e movimenti incatenati, si ponga come un vero e proprio «romanzo in poesia»: così suona il sottotitolo di «Solstizio d’estate» (Manni, 2008), e tale è anche il precedente «Nel nome della madre. Ritratto di signora e altre figure» (ivi, 1997).
Col testo che qui oggi pubblico voglio tuttavia tornare alle origini della poesia di Verbaro. Appartiene, come tutti gli altri della raccolta, al quinquennio 1972-1977, e dunque precede le date dei volumi fino a quel momento editi.
«Un dio per la domenica,» (F.A.T.A., 1982) si avvale di una prefazione di Mario Sansone e di una nota critica di Antonio Piromalli, ed è un libro tutto calabrese, tutto intriso di Calabria («Calabria: fughe e radici» ne è il sottotitolo), con il suo paesaggio, i suoi colori, la sua gente, la sua storia; una terra dove Cristo non è arrivato, stremata, «snervata e sanguigna», come Giusi scrive nella dedica della copia che posseggo.