Poesie per un anno 73 – Lorenzo Calogero

di Francesco Paolo Memmo

 

Lorenzo Calogero (28 maggio 1910 – 25 marzo 1961) è un altro di quei grandi poeti novecenteschi rimasti esclusi, per qualche inspiegabile (o forse no) ragione dal canone che si è andato costituendo e che ormai è difficile porre in discussione, nonostante il lavoro di alcuni studiosi che hanno fatto ogni sforzo per preservarne la memoria (e fra questi mi piace ricordare Caterina Verbaro che di Calogero si è occupata continuamente nel corso degli anni: si veda da ultimo «I margini del sogno. La poesia di Lorenzo Calogero», Edizioni ETS, 2011).
I due grossi volumi di «Opere poetiche» stampati da Lerici rispettivamente nel 1962 e nel 1966 sono ben lungi dal contenere l’immensa opera dello sfortunato poeta calabrese. Il primo, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi, comprende «Come in dittici» (1954-1956) e i «Quaderni di Villa Nuccia» (1959-1960); il secondo, a cura del solo Lerici, comprende «Ma questo…» (1950-1954) e «Sogno più non ricordo» (1956-1958).
Tra i volumi successivi cito soltanto «Avaro nel tuo pensiero», a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro, Donzelli, 2014, con testi di incredibile forza espressiva che risalgono al 1955.
Il primo a segnalare la grandezza di questo straordinario autore calabrese fu Leonardo Sinisgalli, che dettò la prefazione a «Come in dittici» (Maia, Siena 1956); qui si trova una già precisa definizione della poesia di Calogero:
«Siamo, è chiaro, di fronte a una poesia colta che, però, scarta il lusso intellettuale, l’enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita, la generica. […] Dietro le immagini c’è sicuramente un sistema, una dottrina di cui sentiamo la suggestione. C’è un’idea dell’essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali; il poeta arriva a cogliere un soffio, una scintilla e a restituircene qualche similitudine. Questa partecipazione, questa mediazione viene raggiunta quasi a dispetto della sua coscienza: le sue parole distorte, i suoi nessi incredibili, i suoi lapsus sembrano trascrizione di uno stato di estasi».