Per i giovani figli perduti. Antologia di poesie e prose a cura di Luciano Cecchinel (Ronzani Editore 2022) è un’opera che si rivolge innanzi tutto, ma non solo, a coloro che hanno subìto l’irreparabile perdita di un figlio: un’esperienza annichilente, quasi indicibile, tanto che non esiste un termine per definire i genitori che la subiscono. Cecchinel, che sa come sia difficile esprimere a parole “un dolore che ne ridimensiona ogni altro”, sa anche che “nasce tra costoro una solidarietà profonda e quasi muta”. A loro ha pensato per comporre questa antologia, non per una impossibile consolazione, ma perché attraverso la lettura dei testi “i figli mancati divengano presenti più che in altri giorni […] un rammemorare in cui la petizione di senso, che è anche quello del senso della vita, si può sentire in modi diversamente intensi nelle varie composizioni”.
E l’invito a riflettere sul “senso della vita” diviene il filo conduttore, tanto più forte quanto più ci si confronta con una situazione limite che molte persone hanno dovuto attraversare. Accennando con discrezione alla propria esperienza, nell’ampia introduzione Cecchinel riesce a sintetizzare i temi predominanti nei testi (presentati in ordine cronologico), con una empatia che rende i loro autori così prossimi, un’umanità sofferente ma anche capace di suggerire una “certa rappacificazione con la morte non più sentita con paura […] ma come la soglia che può consentire di entrare nell’altrove della creatura perduta”.
A una iniziale pagina biblica, con un’affermazione che a noi suona terribile e per niente consolatoria (“La sua anima fu gradita al Signore; perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio”), seguono diverse epigrafi dal secondo libro dell’Antologia Palatina dove emerge come siano simili nello scorrere di epoche e millenni i sentimenti provati dai genitori, che tanti autori in seguito riprenderanno e approfondiranno: il senso di vuoto, la fine delle speranze, il venir meno del respiro della vita, il bisogno di affrontare l’inesplicabile attraverso una consolazione che non sia l’oblio né il rinchiudersi nel dolore. Ci sono frasi di una struggente tenerezza, quali la supplica a Caronte di aiutare il figlio a scendere dalla scaletta della barca dei morti, perché “nei sandali inciampa il bambino, e poi ha paura di posare i piedi nudi su per la sabbia della riva”.
Dai classici greci e latini si snoda un lungo elenco di autori (sono 36) fino ai nostri giorni, con scrittori noti e altri meno, italiani e stranieri. Differenti tipologie testuali (poesie, lettere, stralci di romanzi, di opere teatrali e autobiografie) affrontano l’irrisolvibile dilemma della morte che colpisce esistenze appena iniziate o nel fiore della giovinezza, quell’incomprensibile “motivo per cui dovrebbero soffrire” anche i bambini, l’inspiegabile “intoppo” che Ivan Karamazov non riesce ad accettare. Non è qui possibile dare conto di ogni intervento, di come ciascun genitore abbia declinato la sofferenza attraverso le parole, con riflessioni e immagini indelebili, che talora ricorrono ma variano a seconda della sensibilità unica del loro artefice. Più volte, ad esempio, appare la luce della luna che fende un’oscurità intima e cosmica, e reca un momento di quiete mescolando sogno e realtà. Osservandola Giotti sente vicini i figli dispersi sul fronte russo: “e ’desso / i dormi; e i visi ti / te ghe risc-ciari, come / co i iera pici e mi // li vardavo in quel tuo / ciaror bianco” (e adesso / dormono; e i visi tu / rischiari loro, come / quando erano piccoli e io // li guardavo in tutto quel tuo / chiarore bianco). Sono diversi i testi di padri che hanno perso i figli in guerra, in Italia e all’estero, nel Novecento e in anni più recenti. Nessuna retorica nelle loro parole, ma ricordo e rimpianto. E domande senza risposta che cercano di dare forma ad un’assenza, come nelle pagine dell’opera poetico-corale Caduto fuori dal tempo di David Grossman: “Chi lo manterrà in vita? Chi / lo abbraccerà / se non noi due, / avvolgendo / coi nostri corpi / la sua vuota / interezza?”. L’ossimoro ben si presta a questa presenza/assenza, così in Ungaretti: “non saprete mai come m’illumina / l’ombra che mi si pone a lato, timida / quando non spero più…”.
Sono particolarmente toccanti le parole che riguardano le madri, o indirettamente, nelle citazioni dall’Antologia Palatina e nei testi di autori che ad esse si riferiscono. O direttamente, nei testi scritti da loro stesse. E forse non è casuale che l’ultimo brano sia di Anne-Dauphine Julliand, poche pagine da Due piccoli passi sulla sabbia bagnata dove lei ricorda la notte in cui, accudendo la piccola Thaìs (affetta di una malattia invalidante e mortale), ha “percepito qualcosa d’altro, al di là del dolore e della sofferenza”: “L’amore di Thaìs non s’impone, si espone. Si presenta a noi così com’è. Vulnerabile e fragile. […] Sì. L’amore ha in sé questa facoltà unica, di invertire le direzioni, di trasformare la debolezza in forza”.
Una conclusione che non lascia in balia della disperazione per la perdita subìta ed invita a considerare il bene che è stato offerto, di cui già Plutarco scriveva nella Consolazione alla moglie, con l’esortazione a non cancellare dalla memoria, anzi, a rivivere con piacere i due anni trascorsi con la figlia “perché ci hanno donato gioia e felicità”. Quell’eco di affetti che la presenza di un figlio/una figlia sa recare alla vita e che i genitori ancora sentono, al di là del tempo, del vuoto, del dolore. Una mescolanza di luce e oscurità, di chiarore e mistero, che così evocativa appare nell’immagine di copertina, l’acquerello Su tra le foreste delle stelle di Danila Casagrande. Lei e Luciano Cecchinel sono i genitori della ragazza a cui è rivolta la dedica: “Per Silvia e per tutti i giovani figli perduti” afferma, e l’antologia svela come quei figli siano stati un dono insostituibile della vita, una presenza non più tangibile, è vero, ma interiorizzata a tal punto che ancora è possibile percepirla vicina nei luoghi percorsi insieme e “sull’acqua che fu sua per un momento / vedere la sua immagine / passare all’altra riva”.
Nelvia Di Monte