Nubicuculìa o dell’amoroso stormo silvestre di Pier Franco Uliana

Recensione di Vincenzo Luciani

Nubicuculìa o dell’amoroso stormo silvestre, De Bastiani editore, è l’ultima raccolta di Pier Franco Uliana. Numerose sono le sue raccolte poetiche nel dialetto del Cansiglio, tra cui “Il bosco e i varchi(premio “G. Pascoli”, 2015) e “Per una selva (premio “Salva la tua tua lingua locale”, Roma 2020) e in italiano (tra cui: “Ornitografie” (Premio “Arcipelago Itaca”)Corrispondenze dal roseto boreale, Premio “R. Giorgi”). È autore inoltre di racconti, studi sui toponimi del Bosco del Cansiglio e di ricerche lessicografiche ed etimologiche sul dialetto rustico vittoriese e trevisano.

In fondo al bosco

Sono stato testimone in questi anni del progressivo e costante affinamento della laboriosa ars poetica di Pier Franco Uliana, fin dal 2004, quando risultò finalista nella prima edizione del Premio Ischitella-Pietro Giannone. Nello stesso Premio, nel 2011 fu terzo ex aequo (con F. Fresi) con In cao al bosch (In fondo al bosco) in cenedese rustico di Fregona. Ed ecco la Nota di motivazione stilata dal compianto presidente della Giuria Dante Della Terza:

«Da Mogliano Veneto in cenedese rustico di Fregona, versante trevigiano Uliana viene a parlarci con verve espositiva in 35 poesie , ognuna di tredici versi, di ciò che accade in cao al bosch (in fondo al bosco). Non ha reticenze nel raccontarci tristi verità: Sta tèra la me è stata data, bòcia / mio fa regal, par dolor da inparar (Questa terra mi è stata data, bambino mica come regalo, ma come dolore da imparare). La realtà boschiva insieme viva ed uniforme oltre a far emergere un pathos descrittivo dà spessore alla sua voce. E tuttavia come per non poter sempre dire ciò che nel bosco si vede all’altezza della vita, Uliana abbraccia l’ipotesi d’una radura boschiva vista dall’alto. Vedere la terra dall’alto del cielo, comprese le radure del bosco è opzione inventiva di alto livello. Ma non si escludono, ahimè, le sopraggiunte iatture: vedere la terra dall’alto del cielo, / lasciare il bosco dietro di te come si lascia / il guanciale alla mattina di buon ora / però quel giorno forse ti è mancato / un battito di cuore gli occhi / di tuo padre tutto hanno visto / hanno visto hanno visto te / cadere sopra i greppi come la coturnice / impallinata dal bracconiere / quegli stessi greppi rubarti perfino il nome)».

Ed è dello stesso anno questa sua bella poesia dedicata al paese garganico in cui sono presenti consonanze di boschi (Foresta Umbra) e di laguna (Varano e Lesina) con la sua regione, bagnata dallo stesso mare:

ISCHITELLA – uovo fecondato in un nido di rami e pietre // là sul poggio tra Foresta e Adriatico / – chiacchiere d’ombra e sole di solitudine, / bosco di gesti e radura di sguardi / e il lago laggiù che tutto sa / della laguna bizantina, veneta, / poiché la vena è la stessa – sempre / protesa quasi a cercare il volo /… / e viene nel vento, a caso, / chiaro, a rischio di fuoco // qui tutto e niente pesa / come le mani a sera, / ma non l’orizzonte che trema di luce // donne e uomini vi arrivano e vanno, / rondini appena nate / che pure sanno il sentiero d’aria, quello giusto, / l’altalena della vita tra ischio / e vischio (a questo link anche la versione originale in cenedese: https://poetidelparco.it/poeti-per-ischitella-41-pier-franco-uliana/)

Di Uliana ci siamo occupati nel corso degli anni. En passant, mi piace citare dal sito poeti del parco alcune recensioni, la prima di Nelvia Di Monte a “Per una selva” (https://poetidelparco.it/per-una-selva-di-pier-franco-uliana/); la seconda di Maria Lenti su “Il Bosco e i Varchi” (https://poetidelparco.it/il-bosco-e-i-varchi-di-pier-franco-uliana/); la terza è un commento tratto da una puntuale recensione di Maria Gabriella Canfarelli all’Aperilibro dedicato alla rassegna nazionale di poesia “nei dialetti d’Italia Poeti delle ”Altre lingue-Achille Serraodel 2019 (in cui figurano tre testi scelti dallo stesso Uliana: il primo da Troi de Tafarièli, del 2001, il secondo da Per una selva, del 2018 e il terzo inedito): «Anche nei versi di P. F. Uliana è filo conduttore la ricerca di senso della vita (selva, bosco incantato, e incanto ingannatore); ricerca di “indizi, tracce  per i sentieri / vado cercando, per neve e muschi, / dietro la traccia ingannevole del bracconiere, / per dove l’orma muore / (…) / per nebbie, per stillicidi di piogge / acide, per duri legni m’intarlo, / (…) / per sterpi ammuffisco e infunghisco, per sguardi / azzardo la radura, (…) / (di marzapane, lamponi e fragole), / (…) / schivo aperture di cielo e disinnesco / l’inganno di lacci e di trappole”. Il poeta abita il bosco, ne fa parte. Egli stesso è albero e degli alberi condivide il respiro e la sorte,  “luminoso di giorno, cupo di sera, / raccolgo la voce del vento per restituirvela / nelle mille forme dei miei rami e foglie, / eppur io so del silenzio / quando preme il sole o la neve, e vi guardo / andare e venire, e ascolto il respiro / vostro, la vostra voce che dice / (…) / sento anche il vostro / tacere, nel peso del dolore)».

Chi è interessato alla lettura di questi testi dallo stesso Uliana può apprezzarli a questo link https://youtu.be/-e1CgNbEEVQ

Alla sua lingua locale Uliana ha dedicato uno studio assiduo, testimoniato tra l’altro anche dal saggio Toponomastica cansigliese (2014); lo zibaldone Ingens sylva. Cansiglio dentro e dintorno (2014); Il Vocabolario del dialetto di Fregona (2015); Etimologia degli ornitonimi dialettali e volgari del Cansiglio (2017) in questo pregevole opuscolo c’è un accurato indice dei nomi dei narratori e dei poeti che, nelle loro opere, si sono occupati degli uccelli presenti nel Bosco del Cansiglio, alcuni dei quali sono pure, in esergo, in apertura di Nubicuculìa.

In Dialetto lingua della poesia di Ombretta Ciurnelli, troviamo questa signficativa testimonianza di Uliana contenuta in un suo testo inedito (2015):

«I miei primi trentacinque anni li ho passati all’insegna dell’ossessione dantesca: fuggire il bosco, la sua lingua selvatica, il suo tempo ciclico. Ma anche la radura ha le sue fiere da superare: la disciplina prospettica del metodo, il viluppo gerarchico dell’ipotassi, l’abbaglio delle figure retoriche. Ne porto tutti i segni. Ma proprio quando mi si spianarono, in una luce tutta cartesiana, i lunghi assi su cui svagare, avvertii il richiamo della foresta del Cansiglio. Al morso della lupa non c’è scampo, chissà da quanto tempo ne incubavo il virus, dall’infanzia certo. Sintomi mi furono l’insonnia, il malumore, la malinconia, l’apatia, la fotofobia. La coscienza dell’atopia. Vi ritornai un mattino di mezza estate, come un figliolo che mai fu prodigo. Che avevo da temere, munito com’ero della lingua della radura! Della luminosa topografia letteraria italiana! Per quanto però cercassi il colloquio con gli alberi, questi mi rispondevano solo nell’idioma che tanto avevo esecrato, aborrito, rimosso, un dialetto ispido e acerbo. Allora allungai le mani impietose alle foglie apicali, le più fresche perché le più antiche, e le riposi nella gerla del foglio. Come Sibilla le ho tradotte a piè di pagina, le ho poi ordinate al sole dell’Agorà. Quasi che l’essiccazione le salvasse dal degrado biologico. Sono dunque un traditore. Due volte traditore. Ho rubato il nutrimento di radici e bosco per ritradurmi nella lingua della radura. Ho tradito la radura perché sotto vi ho nascosto i semi degli alberi più possenti. Caina mi attende».

Nubicuculìa

Nubicuculìa” come in un’ampia voliera accoglie gran parte degli uccelli del Bosco del Cansiglio, in due sezioni: la prima “Alites” (uccelli dal cui volo si traggono presagi) e “Oscines” (dal cui canto si traggono presagi), nell’amato, e lungamente studiato, idioma dialettale che si effonde in una ispirata poesia augurale in continuità con la grande tradizione poetica provenzale.

Ed ecco che – in apertura della raccolta – solo nella sua amata selva “possono arrivare certi uccelli / ognuno con il canto suo e anche con un suo volo (…) “un volo / che insegue il canto, / ed è per questo canto / che si leva l’occhio al cielo / a vedere dove il volo / vada, in che tipo di selva / fanno il nido gli uccelli / che dormono sotto l’ala”. Il poeta vorrebbe racchiuderli in un foglio, che però non può essere selva, perché solo così potrebbe essere pieno di loro e del loro libero canto. Uno stormo di uccelli che i par le mili foje de la verta, e non è intimorito dal freddo ma solo da “l’urlo dell’uomo che non sa niente d’amore, / così le parole: in questo foglio / di quel loro canto si fanno germogli / che sanno resistere al fiato della voce”.

Il poeta è pronto a seguire il volo e il canto degli uccelli da cui si traggono presagi. Un canto “nel loro idioma: comune d’amore (…) voce che dice tutto del dolciore” di quando, direbbe Leopardi, “sono in amore” e “cantano meglio, e più spesso. E più lungamente che mai”.

Uliana segue il volo degli uccelli che popolano il suo prediletto bosco con lo sguardo attento e amorevole di un cacciatore di emozioni.

Nella prima parte, splendida è la visione della Ballerina gialla: Le é rare le òlte che te vede, ma / quele òlte ti tu sé ’n s’ciantis ntei òci / che al cor al ghe fa far pacèca e tòcio / e, se mi te vegne gnor, tu ti scampa, ché no la tien gnent la coda de l òcio. Nella poesia dedicata all’Allocco domina la sonorità del suo “bubolare brutto e crudo, nel buio muto e nudo / che sa mettere i brividi ai bambini sperduti, / urbs urbs sembra che mi dica in questa notte…”. Piena di incanto è la poesia per l’Oca selvatica: Qua, nte la vizha, la nòt l’à l’ale larghe / e zhate curte, e na panzha de stele, / ma sote de ela mi voe pròpio starghe, insieme a ti a coar le prime ciarèle / de lus… e po’ a n’antro zhièl olar via, / là ndove no ghe sie gnessuna unbrìa.

Il canto corale delle alites così conclude la prima sezione della raccolta: Dès che le nòstre piume pi gnessun / a le cognosse, gne al nòstro olar / al dessegna pi ’l temp o la desgràzhia, / non ne rèsta altro che darse al tamai / de l’amor par ciarèle de la vèrta perché è sufficiente un nido senza vischio oppure un paretaio, una pania di parole sincere perché i sentieri del cielo loro, in stormo sanno riconoscerli, e trovare una selva dove riposare e “covare il lampo della direzione”.

Ad aprire la sezione degli Oscines (uccelli dal cui canto traggono presagio) è questo adagio nella lingua cimbra sell’Altipiano di Asiago: Ba’me gasingach, kennetdich’z Vogelle (dal canto si conoscono gli uccelli). E il poeta è nella ciarèla (nella radura; questa parola ricorre spesso nelle poesie di Uliana) circondata da faggi come “una gabbia, orto concluso / stazzo di illusione, un occhio all’insù / ammaliato dalla luce delle stelle, ma soprattutto un sfojo de silènzhio / al cantar par un bosch zhènza ređènzhio.

Nella popolata galleria dello stormo mi piace selezionare: l’ùpupa, il più calunniato di tutti gli uccelli, ma la to cresta / superba la ghe fa giràr la tèsta / a tuti, parfin a quei de campagna; il regolo si riconosce dalla sua zhigađa che la sbusa / al cor e la redus a recin; la capinera “dalla lingua così dolce di fico / che altro non vuole che i tuoi baci di ragazzo”; il codibugnolo dalle ali che “odorano di ginepro / unghie che graffiano con carezze vere” cant che ’l me rajona nte la mènt salvàrega / òci che slùsega del luce ciare, ma soprattutto quella cođa che la me fa solche par véder / e dei altri sensi perder ògne sènso; il tordo bottaccio, è superbamente onomatopeico nella poesia a lui dedicata: Disuit disuit, sic / a mi ’l me par che ’l me đis / in lengua de oìl, / oh sì, tut al dì / fin che no se ghen pol pì / su e đo co ti, / e fin che no ghen’ò pi / che sic nòt o di.

E così, di goduria in goduria, eccoci arrivati al coro finale degli Oscines, “lungo le radici dei secoli, su / fino alla cima degli alberi del Cansiglio”, un luogo dell’anima di Uliana, ma divenuto per incanto anche nostro.

E di questo ci dichiariamo ammirati e pieni di gratitudine.