Miti, parvenze, realtà al varco della parola. Un libro di Dorella Cianci

La recensione di Sergio D’Amaro
Stupisce la maturità di pensiero e l’agilità di approccio alla parola poetica della giovane poetessa Dorella Cianci di Cerignola. Già nel titolo del suo libro, L’incapacità invalicabile della parola, si nota la coscienza di un compito che sembra impari e che invece si realizza in una mossa reinterpretazione di tematiche attentamente raccolte dal suo tempo così tanto dissonante e screziato. Dorella si traveste da mimo, sa che è difficile lasciarsi coinvolgere nella recita ineffabile della vita.
 
Mimetizzandosi, diluendo la durezza dell’io, ella prova ad intercettare, mediante la parola e l’esempio di alcune ‘guide’ per lei imprescindibili (Magrelli, Matvejevic, Montale, Magris, Nigro, Pessoa), le forme, i discorsi, i racconti dell’età più recente. Si disegnano così sulla scena le antiche illusioni e i nuovissimi miti, gli eterni sentimenti e le implacabili sorprese dell’oggi. Dorella interviene ora con ironia e con ardita metafora, ora con un lirismo sottile e arreso, dichiarando tutta la sua fragilità: “Fragile il vetro che sta per rompersi / la carta scritta e cancellata / il primo balbettio di un neonato/fragile l’antico manoscritto usurato / l’idea appena nata / l’amore impossibile / fragile il corpo solcato da anni / un involucro corroso dalla malattia / la solitudine nella/ società globalizzata / capire il lato giusto / fragile un ritmo francese nel cuore / in un’alba marchigiana il tappo sgretolato del vino / il pietrisco di fronte a mura secolari / questa segreta della mente che non sapevi di  avere…”.
 
Inquietudine, solitudine, voglia di cimentarsi, paura di cadere, coraggio di rialzarsi: soprattutto quando si è nudi di fronte all’amore per gli altri, quando si invoca la propria essenza più profonda, quando le maschere cadono dal viso e ci riflettiamo spietati nello specchio più vero. “Nel nome di queste / braccia che non abbracciano / e di queste lacrime / che non piangono / immote // come pesci impantanati / e di questi occhi fissi / sulla delusione / così sia”.
 
E fosse soltanto la nostra privata drammaturgia a richiedere travestimenti! È che il mondo esige, per sua propria natura, più di una copertura e di diplomatiche ipocrisie e sa suggerire volta per volta i suoi sfaccettati vestiti, le sue molteplici parvenze. In fondo, i versi di Dorella indagano sulla possibilità e sulla necessità di una risposta alla verità, che rimane pericolosamente sospesa in un’età fortemente transitiva come quella che viviamo. “Trasvalutazione dei valori” si direbbe alla Nietzsche, trasloco dai luoghi ai non-luoghi alla Augé, addolciti Leviatani distesi grassamente tra le macerie di qualche società postmoderna: ebbene, sono i dèmoni che inquietano anche questa giovane poetessa desiderosa di misurarsi col suo tempo e affacciata con fecondo stupore alla vita, con intemerata fiducia, comunque vada, al futuro.
 
Quando la giornata finisce, lasciamole un momento di riposo e di ripensamento, tra i cari, apparentemente banali, resoconti quotidiani: “Cala la nebbia e / attracca la gomena mentre la forchetta stanca / porta alla bocca la solita minestra da vent’anni / dopo la scomparsa / di chi rendeva quella minestra / un succulento pasto. /Il bicchiere sbeccato / posato sul comò / e la toletta stanca e / impolverata parla di feste di paese e di perline / da quattro soldi / indossate prima del ballo…”.
 
Sergio Damaro
 
D. Cianci, L’incapacità invalicabile della parola, Roma, Aracne, 2010, pp. 123, € 9.  
 
10-11-2011