lippe lappe di Ombretta Ciurnelli

Recensione di Vincenzo Luciani

 

Le risorse insospettate dopo il gí e ni

In qualità di tri-editore di Ombretta Ciurnelli (di due suoi libri di poesia: gí e ní e La città del vento e di uno sulla poesia, Dialetto lingua della poesia) devo confessare il mio stupore e la mia ammirazione per le insospettate risorse di una poetessa che ha saputo regalarci in questo suo nuovo bel libro (Edizioni Era Nuova, Perugia 2023), dopo il gí e ni, che lei aveva a torto etichettato come il suo ultimo libro.

Invece eccoci qui a degustare questa sua creazione poetica in cui la lingua e l’altro parlare “foresto, aguzzo, contadino” si sfidano sui temi prediletti di Ciurnelli, abile maestra in entrambe le lingue, con le tante nuove varianti e sfumature di cui il volumetto è ricco.

Non inganni il suo understatment. Ombretta è solita minimizzare se stessa e il suo poetare. L’esatto contrario di poeti intenti alle autocelebrazioni. La sua onesta umiltà la spinge persino a virgolettare nelle sue quartine “parole, pensieri, immagini e suoni” che le sono state suggeriti da altri poeti passati o viventi, puntualmente riportati in una pagina di “Note”.

Il significato di lippe lappe

Esemplare del suo parlare “chiarozzo chiarozzo, acciò che chi ode ne vada contento e illuminato e non imbarbagliato“” (come esortava San Bernardino da Siena) è la nota introduttiva in cui spiega la locuzione perugina lippe lappe, che “se usata per indicare lo stato di salute… può riferirsi tanto alla precarietà delle condizioni quanto alla prossimità della fine. Ha il suo equivalente, inoltre, nelle locuzioni avverbiali italiane per un pelo e giusto in tempo e può rendere l’imminenza di un’azione, come nella perifrastica attiva latina (lippe lappe mucciva: stava per / era lí lí per fuggire). Suggerendo sia il senso della precarietà sia quello del-l’indeterminatezza, lippe lappe può evocare anche una condizione che è e non è al tempo stesso”. 

Un esercizio che consiglio è di riscontrare le poesie nelle quali appare il lippe lappe e si troverà piena risposta al perché di questo pregnante titolo (rigorosamente in minuscolo, come quello della raccolta che l’ha preceduto). Per esigenza di sinteticità naturalmente io non lo farò in questa nota.

Il dialetto o lingua perugina

A questo proposito suggerisco la illuminante lettura delle quartine 50 e 51 del libro dalla quale emergono due poeti in dialetto Franco Scataglini e Claudio Spinelli da lei studiati con molto amore.

Nella quartina n. 50 sentite l’affanno della faticosa ricerca poetica delle parole per rendere leggeri i propri pensieri e poi la frustrazione di ritrovarsi il gloglottare di un tacchino: nné l’ pòl sapé quil ch’è cercà parole / pe’ rringluppà liggère i tu pensiere / e artrovà nvece “el biatolà d’un dindo” / sperso nto l’aqqua de nó nguèrno tristo (non puoi sapere cosa sia cercare parole / per avvolgere con leggerezza i tuoi pensieri / e trovare invece “el biatolà d’un dindo” (F. Scataglini) / smarrito nella pioggia di un freddo inverno). 

Nella 51 ecco la gioia di aver piegato, attraverso un estenuante labor limae un dialetto scorbutico a saper dire cose finora non dette nel suo dialetto“forestco aguzzo contadino” (C. Spinelli) che na volta arsonèva gran fatighe / è bono a dí ji ntruje de sto tempo / e ncó ’l gí e ní dla luna nti tu giorne (un parlare scontroso tagliente contadino / che un tempo dava voce a grandi fatiche / è capace di raccontare gli imbrogli di questo tempo / e anche il sorgere e il tramontare della luna nei tuoi giorni) 

Da notare lo stesso corpo di stampa delle versioni in italiano e in lingua perugina e soprattutto la ri-creazione che di frequente. avviene.

La prima e l’ultima quartina

Una volta terminata la prima lettura del libro, consiglio di soffermarsi a lungo sulle quartine 1 e 100, non a caso poste in principio e al termine dell’opera.

La n. 1 si apre con un endecasillabo in 4a-7a-10a a marcare ritmicamente l’estenuazione di fronte all’enormità (bompò) della visione integrale di un lungo vissuto e dell’indicibilità della narrazione degli anni (ènno bompò i tu giorne ardunate) trascorsi al ritmo dell’andare () del vento e dell’azzurro (turchín) che consola, ma anche dl’amor dle ranzle e de le languizzione. E qui mi corre l’obbligo di sottolineare che ranzle e languizzione sono due parole che ricorrono con plurime significazioni nel libro e di notare come l’impeto iniziale dell’ultimo verso si plachi nei languori della nostalgia (Quelle est cette langueur qui pénètre mon coeur? – Verlaine) 

Nuovamente un endecasillabo in 4a-7a-10a (quanno che i súmmie se córcono stracche) contrassegna nell’ultima quartina lo sfinimento dei sogni, cui fa seguito l’annebbiarsi dei ricordi, l’affievolirsi dei suoni; e persino ’l turchín piú lustro se scialisce (l’azzurro più lucente sbiadisce). Impareggiabile e straordinaria questa dissolvenza finale.

Molte altre cose avrei potuto dire, ma il mio scopo è stato quello di invogliare alla lettura di questo prezioso libro (più che economico, il prezzo, 10 euro, ottima la sua maneggiabilità) e, secondo me, assai meritevole di essere letto e riletto.