lippe lappe di Ombretta Ciurnelli, poema della precarietà

Recensione di Rita Imperatori

 

Con le cento quartine di endecasillabi che costituiscono lippe lappe, Ombretta Ciurnelli ha composto un intenso poema della precarietà, del gran currí dȋ giorne (gran correre dei giorni), in cui per ogni creatura accade che mucce l’adè zzeppito via dal doppo (fugge l’adesso spinto via dal dopo).
L’uso del dialetto, declinato in tutte le sue risorse di espressività e sonorità, sembra stridere con la qualificazione di “poema” attribuita alla raccolta, ma la lettura rassicura sulla non arbitrarietà della scelta: il filo rosso dell’essere in procinto di, annunciato dal titolo, conferisce unitarietà all’insieme, pur nell’andirivieni di passato e presente.

Il primo potrebbe dirsi incarnato in una bambina magrissima e serena, che corre, gioca, pensa ed è impaziente di vedere il suo corpo farsi maturo – na fijarella secca come ʼn uscio […] che spetta ta quan niròn le su poccine (attende quando spunteranno i suoi piccoli seni); il secondo in una donna adulta preoccupata che i suoi occhi possano essere sordi ai colori del mondo, gli stessi occhi un tempo insaziabili nel rubare al mondo meraviglie come, è dato immaginare, la vesta lustra tutta de broccato (la veste lucida tutta di broccato) che j’ulive ciòn cugito (che gli ulivi hanno cucito) su pî toppe che sguíllon verso ʼl piano (sui poggi che scivolano verso la pianura).
Le sinestesie incastonate nel tessuto poetico – occhi sorde tai clóre del monno (sordi ai colori del mondo), de gelsumino na nugula nton muro/ per muccí via ʼl silenzio del gran bujo (una nuvola di gelsomino sopra un muro/ per scacciare il silenzio del grande buio) dicono di una lingua poetica sapiente nell’uso degli strumenti retorici, resi lievi perché non appesantiscano, snaturandola, la struttura essenziale del dialetto.
In particolare, la meravigliosa gran caciarra (gran chiasso) fatta nton baúlle (in un  baule) da na buccina dó bton na butijna/ ʼn fazzlettino na lèttra ʼn arsumijo/ e dlo spigo l’offrore ormò scialito (una bambolina alcuni bottoni una piccola bottiglia/ un fazzolettino una lettera una fotografia/ e il profumo ormai svanito della lavanda) diventa poi articolato correlativo oggettivo del bagaglio dell’umana memoria stordita, a volte, da quel chiasso.
La raccolta è percorsa da domande che oltrepassano il significato letterale del dato naturale – il destino delle mèche (anatre) una volta gelato il lago, il dubbio si j’albre se nguergognerònno/ nto quil tempo ch’arèsteno gnudate (se gli alberi si vergogneranno/ nella stagione in cui restano nudi), l’approdo dei pensieri del tempo mujno  (tempo bambino) – per condurre il lettore alla conclusione che niente è stabile, tutto è in divenire, senza esiti di necessità nichilisti, perché, ad esempio, vien sempre adora a muccí via per sempre (viene sempre in tempo a fuggire via per sempre), come insegnano le foglie della quercia che si ostinano a non cadere: sol quil dla cèrqua de ní giú ʼn ciòn voja/ – benanco secche e tutte aciufijete (solo quelle della quercia non hanno voglia di cadere/ sebbene secche e tutte gualcite).
Persistenti e pudìchi, anche gli amori permangono, seppure in bilico come tutto,  seppure apparentemente rinnegati dalle mene che trapplone sguillon via (mani che bugiarde scivolano via) ntol salutasse/ de prescia ʼn piazza – cost’ a la fontana – (nel salutarsi/ in fretta in piazza – accanto alla fontana). Anche loro, come il chiacchiarà che un fa ntol salutasse (parlare che si fa nel salutarsi) assottigliano le treme tessute nti giorni (le trame tessute nei giorni), lo spessore che il tempo conferisce al vissuto che, in virtù di quel parlarsi teneramente reticente, torna in superficie.

Ma in lippe lappe  si trova anche la riflessione metapoetica sul travaglio creativo, sulla fatica, a volte improduttiva, della ricerca di una forma che contenga perfettamente il pensiero e che può approdare, vista la scarsità delle risorse offerte da ʼn parlè “forestco aguzzo contadino” (un parlare scontroso tagliente contadino), ad un neologismo, visto che n’idéa se ngluppa solo cna parola (un’idea si sposa solo con una parola).
I prestiti dei poeti della tradizione – Penna, Pasolini, Leopardi, Montale, Calvino… – trovano all’interno delle quartine un loro posto naturale a completamento di un concetto, senza mai assumere la consistenza pesante della citazione.
Di quartina in quartina, lippe lappe conduce il lettore ad una verità espressa con rara intensità nel componimento n. 79, dove piscialetto e papavre nton becchiere/ arcolte pien de vita cost’a ʼn campo (fiori di tarassaco e papaveri in un bicchiere/ raccolti pieni di vita vicino a un campo), adè mosciate e stracche (ora appassiti e stanchi) diventano il simbolo del prodigio della memoria che sa anche consolare sconfiggendo l’evidenza della realtà: è esperienza di ciascuno, infatti, guardare ciò che è precario per natura mò ʼn soché ch’aresta (“come qualcosa che dura”), alleggerendo la pena di buricche stracche […] momò tutte goitate d’arimbracceche.

Per questa via, forse, i giorne rintrubblate dal gastigo (giorni intorbidati dalla morte) si fanno dato esistenziale non temibile, nella consapevolezza che anco liggèro pol’esse ʼl murí (anche leggero può essere il morire), come tutta la Natura – che in questa straordinaria raccolta di Ombretta Ciurnelli è viva, cambia, comunica – testimonia in ogni stagione.

 

Rita Imperatori