Questa raccolta del “bottegaro-poeta” secondo la bella definizione del poeta Nino Costa, è una riedizione – a cura di Ugo Onorati – della pubblicazione di più sonetti – a comporre un poemetto – sulla rivista “El Tòr” tra giugno e settembre 1946. Come ci illustra nella prefazione Simonetta Satragni Petruzzi, si tratta di sonetti dedicati alla guerra partigiana sulle montagne del Piemonte, probabilmente ispirati dalla morte dell’amico Nino Costa nel 1945, “vinto anche dal dolore per la morte di Mario, il figlio partigiano, avvenuta il 16 Agosto dell’anno precedente”.
Nella retrobottega del suo negozio di piazza Garignano, dove vendeva apparecchi radio autofabbricati e fisarmoniche, l’ingegnere diveniva poeta, componendo con il dialetto della sua città d’origine, Roma, nella città di adozione, della quale era innamorato: Torino.
Quello di Tartùfari è un romanesco semplice, per essere comprensibile non solo al di fuori della Città Eterna, ma nella stessa Città, crocevia di lingue e dialetti per la sua vocazione “internazionale” fin dall’epoca dell’Impero Romano.
Si potrebbe a questo punto disquisire sulla “purezza” o sulla “vitalità” dei dialetti, che nel caso del romanesco – o romano, come qualcuno preferisce dire appunto per distinguere il dialetto classico da quello contemporaneo – ma non credo sia opportuno; del resto, alcuni propendono per la “purezza”, altri per l’“evoluzione” e la “contaminazione” e non riescono a trovare un punto di accordo.
A far da “pacere” è l’Autore, che sceglie la strada della “comprensione” e della semplicità, e a mio avviso non sbaglia.
Eppure, non rinuncia il Tartùfari all’uso di termini gergali, coloriti e intraducibili, se non con una locuzione di parole: froci che contrariamente a quello che si pensa e oggi non si dice più, vuol dire i Tedeschi, nomignolo già usato dal Belli; smiccià, sbirciare, guardare con fare circospetto per non farsi notare; abbordà, prendere confidenza, accostarsi; appizzà, tendere verso l’alto, oppure volgersi verso, “appizzà le recchie” volgere le orecchie verso un suono, concentrarsi; m’accostumo, mi accingo a fare, mi vesto per, mi preparo a; imbarzimata, profumata, anche rigida- dal balsamo col quale si profumavano e si conservavano i defunti.
Il racconto poetico, come ricorda il curatore Ugo Onorati, “è svolto in prima persona da un sedicente poeta…insieme ad un bersagliere e ad un alpino…” incontrati sul treno che li porta verso i luoghi montani della guerra partigiana. Sono figure simboliche: il bersagliere, caro ai romani per la liberazione di Roma dal potere dello Stato Pontificio, con la breccia di Porta Pia nel 1870; l’alpino, amato dalle genti montanare come eroe della terribile guerra di trincea del primo conflitto mondiale. Mi piace aggiungere che il bersagliere rappresenta anche la prontezza dell’impegno, la corsa energica verso la vittoria, la sorpresa dell’avanzare con indomito coraggio; mentre l’alpino simboleggia la resistenza, fisica e del carattere, forgiata dalla durezza del clima e dalle fatiche del cammino e delle ascese.
Il poemetto inizia dal viaggio in treno, con i personaggi travestiti per sfuggire ai fascisti e ai tedeschi, e termina con l’immaginario incontro tra il poeta sopravvissuto e i compagni uccisi: poesia a ragione epica, celebrativa e patriottica, non retorica, anche grazie al dialetto, oltre che allo stile.
L’umiltà del poeta, che si definisce “er meno degno/ tra li compagni sui, pòri fratelli” non sminuisce, anzi esalta il suo canto celebrativo del martirio: il rosso del sangue dà più intensità al rosso del tricolore. Del resto, fin dai poemi omerici e via via nell’epica, l’autore, il poeta, si pone sempre al di sotto dei suoi eroi, pur essendo, in verità, colui che li fa grandi; con il suo canto lo stile, la fantasia, li copre d’onore.
Dunque, non c’è autocompiacimento, ma neppure l’insistenza su scene di violenza e di barbarie per un fine “politico”: del resto la forma metrica, le rime e le assonanze, unite alla particolarità del dialetto, rappresentano l’oggettività e l’ineluttabilità dello sguardo sulla realtà.
Congedo
Sopravvive er poeta, er meno degno
fra li compagmi sui, pòri fratelli,
e canta mo, pe queli du lioncelli
sti pochi versi come sacro pegno.
Che resta più de loro?Quarche segno
sperso fra le montagne, poverelli!
Ma ‘ntonerà l’arpino li stornelli
su quele croce misere de legno.
Dormite in pace, me pispijerete
sentennome arivà, stanco, tra voi:
“Laggiù so ritornate l’ore liete?”
Io v’arisponnerò, pieno d’amore:
“Er sangue generoso de l’eroi
ha rafforzato er rosso ar tricolore!”
Li cori
“Questo è tutto – ce disse – sò spariti!”
Doppo je se facessimo più accanto.
Er toscano sbottò tutt’in d’un pianto…
Arimanemmo lì come impietriti.
Ma ce guardò col’occhi inveleniti
ignettati de sangue, grossi tanto,
e urlò “Sangue ce vole!” Noi tratanto.
sortimio piano piano e ammutoliti!
De fora: un coro! Che melanconia!
Un canto lento e cupo valliggiano
pe li fratelli morti in priggionia.
In quele nenia, de le voce fine,
in contrasto ar dialetto valdostano.
M’entraveno ner core come spine.
Er prezzolato
Ce legarono contro a un tavolato
strigniénnoce la corda co ‘n bastone:
ariva un ceffo brutto, un mascarzone
che chiamaveno “er re der puggilato”!
St’atleta, st’italiano prezzolato
pe facce vede ch’era un robbustone,
se gonfiò tutto, e, doppo, co ‘r guantone,
ciammollò tante botte su ‘r costato.
Fischiettanno un stornello dondolava
come fusse un ginnasta che s’allena,
poi de botto rideva e ce menava.
Sentivi un tonfo drento e un gran dolore
che nun ve so spiegà.Oh, Dio, che pena
pareva de sentì spezzasse er core.
Filippo Tartùfari, Li partiggiani de la montagna, a cura di Ugo Onorati, ANPI, sez. Marino (RM) 2020