[Aprile 2011] L’errore di Ovidio di Alessandro Santarelli, pp. 64, euro 12.
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IL LIBRO
Dopo due millenni, sono ancora oscure e misteriose le vere motivazioni che spinsero l’imperatore Augusto, con un editto improvviso e perentorio, a relegare il poeta Publio Ovidio Nasone nella lontanissiama e inospitale Tomi (nell’attuale Romania).
Questo libro tenta di indagare sul gravissimo errore del poeta che lo condannò alla morte civile dell’esilio, lontano dai suoi affetti, dalla celebrità e dalla sua amata Roma.
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L’AUTORE
ALESSANDRO SANTARELLI è nato nel 1944 a Macchia, una piccola frazione del comune di Accumoli (RI) e vive a Roma.
Ha pubblicato nel 1995 la raccolta di poesia Senza tempo. Ha in preparazione una silloge poetica in romanesco.
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NEL LIBRO
(…)Rientrato precipitosamente a Roma, con l’ordine imperiale di abbandonare la città nel più breve tempo possibile, soprattutto per evitare un aggravio della pena, il poeta trascorre la sua ultima notte assieme ai familiari e ai pochi amici presenti. Dei tanti amici, sono solamente due o tre quelli che in quella notte fatale si rendono partecipi del suo dolore e tentano di alleviare con consigli e parole di speranza le sue sofferenze: Caro, Celso, Attico; amici che nei Tristia il poeta, su loro richiesta, e per evitare pericolose conseguenze, si guarderà bene dal nominare direttamente se non attraverso un signum. Il poeta Caro verrà nominato con l’aggettivo Care, Attico con l’espressione attica apes.
È notte fonda, la luna illumina la casa di Augusto sul Palatino e all’orizzonte si incominciano a intravedere i primi chiarori dell’ultima alba. Il poeta si deve affrettare ad abbandonare Roma, raggiungere forse Brindisi (iam prope lux aderat qua me discedere Caesar finibus extremae iusserat Ausoniae: si avvicinava ormai l’alba, in cui Cesare mi aveva comandato di abbandonare gli estremi confini dell’Italia) e da lì imbarcarsi sulla nave che lo porterà in quella località, lontana e inospitale, dove è stato destinato. Di fronte a una imposizione così perentoria, il poeta si sente stordito, incapace di avere la lucidità mentale per coordinare i movimenti e organizzare le cose da fare; si muove come un automa, non si preoccupa dei servi, non prepara i bagagli, non sceglie i compagni con cui affrontare il viaggio. È solo con se stesso, con il suo dramma, con la sua angoscia quasi irreale, con la sua morte apparente.
Poi, a poco a poco, torna a prendere di nuovo coscienza della realtà e a rendersi conto dell’ineluttabilità dell’addio. Si rivolge agli amici, li abbraccia e li bacia mentre abbondanti lacrime scendono sul suo volto affranto. La moglie intanto, in preda alla disperazione, gli si getta con le braccia al collo e, pronunciando ad alta voce il suo nome, grida che non lo lascerà mai partire da solo e che anch’ella vuole essere esule, moglie di un esule, condividendone le pene.
Per tre volte il poeta si avvia sull’uscio di casa e per tre volte ritorna indietro (ter limen tetigi, ter sum revocatus…); non riesce a partire, ad abbandonare Roma, la grande città che gli aveva dato piaceri, onori e gloria. Sa che forse non potrà più rivedere i suoi templi, le biblioteche dove sono conservate le sue opere, i Fori; sa che forse non potrà più rivedere gli amici rimasti fedeli, l’amata moglie, la figlia Ovidia e i suoi due figli, nati da due diversi mariti, che, all’oscuro di tutto, viveva con il marito Fido Cornelio nella lontana Libia.
(…)