Le rasoiate nel tempo del poeti

Marcello Marciani e i suoi nuovi libri di versi, 'La corona dei mesi' e 'Rasulanne'

di Simone Gambacorta*

Per Paolo Testone, «la lettura della poesia di Marcello Marciani suggerisce una complessità magmatica, un intreccio di sensi che si dipanano a partire da una matrice formale apparentemente ordinata secondo schemi rigorosi». Secondo Giovanni D’Alessandro, la sua produzone poetica è segnata «da un’attenzione allo sfrondamento della parola da ogni sovrastruttura e da una marcata sensibilità all’aspetto metrico-musicale». Anna De Simone lo considera invece un autore «nel quale ogni volta scopriamo ammirati aspetti inediti e il segno forte dell’originalità». Ora il lancianese Marciani arriva nelle librerie con due nuovi titoli: “La corona dei mesi” (LietoColle), e l’altro in dialetto, “Rasulanne” (edizioni Cofine), frutto della vittoria al “Premio Città di Ischitella-Pietro Giannone 2012” per una raccolta inedita, premio che appunto consiste nella pubblicazione dell’opera. Lo abbiamo intervistato.

Due tuoi libri, “La corona dei mesi” e “Rasulanne”, sono apparsi quasi contemporaneamente: una doppietta un po’ paradossale per te, che mediamente ti fai vivo in libreria ogni sei o sette anni.

E infatti questa cadenza sarebbe stata rispettata appieno se fosse stato pubblicato solo “La corona dei mesi”, che segue di sei anni il mio precedente “Nel mare della stanza”. Ma la vittoria inattesa al “Premio Ischitella-Pietro Giannone” ha sconvolto le mie abitudini e così i due libri sono usciti a distanza di una settimana l’uno dall’altro.

“La corona dei mesi” comprende anche delle fotografie. Perché questa scelta?

È stata una scelta editoriale. Considerati il titolo d’ascendenza medievale (“La corona dei mesi” di Fólgore da San Gimignano), il tema e la brevità del testo, che si articola in soli quattordici componimenti, io avevo suggerito un corredo d’immagini tratte da antichi almanacchi e barbanera, in vista di una sorta di calendario sui generis. Ma l’editore ha preferito fotografie in bianco e nero di artisti contemporanei, su orologi colti in varie situazioni, per esprimere la scansione ossessiva del tempo attuale: scelta audace e d’impatto più forte.

Più che il semplice tema del tempo, mi pare che a farla da padrone sia il sentimento della scansione del tempo, questa specie di prigionia biologica e psicologica; e poi anche ana certa ansia metafisica…

Nei testi il tema è più trasversale, la prigionia del tempo umano si intreccia a risvolti di tipo civile, a un sentimento di indignazione verso il “male di vivere” della società occidentale, ma anche ad una sorta di mancamento struggente verso un’innocenza perduta e degradata, non senza un’ansia spirituale, “metafisica” come acutamente dici, che affiora paradossalmente quando tutto sembrerebbe perduto: la vita che rinasce dopo la malattia (“Gennaio”), la forza salvifica della natura e del ricordo (“Giugno”), la nascita di un bimbo che è sempre qualcosa di miracoloso, un avvento e una pastura (“Dicembre”).

Cosa dicono queste poesie dei mesi a cui fanno da “corona”?

Per “corona”, come precisa Memmo nella prefazione, «si intende una serie di componimenti, di uguale struttura metrica, legati fra loro dall’argomento». E il metro di diciotto versi per ogni poesia sostituisce il sonetto dello schema medievale, l’argomento è appunto il tempo scandito lungo i mesi dell’anno, resi con tratti minimi in merito all’aspetto atmosferico e corposi invece per i fatti individuali e sociali, comportamentali e di costume. Così a gennaio il gelo esterno rispecchia quello interiore di chi ha subìto un intervento; a febbraio il Carnevale che impazza riflette la mascherata del Potere; a marzo lo stupro di gruppo su una ragazzina avviene nel giorno delle mimose; ad aprile il terremoto dell’Aquila fa sprofondare fra inerzie e speculazioni; a maggio le “roselline” impuberi svendono la loro vanità al lupanare televisivo; a giugno la magia dei riti popolari sul San Giovanni contrasta con lo scempio di piattaforme petrolifere sul mare; scempio che persiste a Luglio, mese di spiagge pressate, velli d’oro bruciati dalla finanza e Madonne del Porto travolte dai liquami; ad Agosto le vacanze di massa lasciano vuota e libera un’intera casa che considera la fatuità di tali evasioni; a Settembre i riti festivi ridotti a consumo folcloristico compensano vissuti irrisolti; a ottobre e novembre avanza «il gelo sempre più forte che attanaglia le generazioni più giovani, senza lavoro e senza prospettive» (Memmo); a Dicembre un neonato africano respinto per mare è il novello Gesù Bambino di un’umanità umiliata dall’egoismo e dal razzismo. Il tutto incorniciato, nei testi che fungono da prologo ed epilogo, dalla figura di Don Tempo, vecchio brontolone stanco della misura cronologica umana.
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“Rasulanne” si impasta di un dialetto di sapore frentano: che lingua è questa per te?

Io uso un lancianese piuttosto desueto, con recuperi arcaici, che include a volte anche termini di altre località dell’area frentana. Questa lingua arriva dal profondo, da certe suggestioni sonore legate a un’infanzia di nenie e scongiuri sepolti in un limbo collettivo non del tutto rimosso. È come un’onda seminconscia che monta in superficie, ancestrale e uterina, ricca di sensi e grumi di cose, morta al mondo della moderna comunicazione eppure palpitante come un evento biologico. I nessi verbali si susseguono per rimandi fonici, i concetti sono inesprimibili se non sorretti da associazioni fisiche, da metafore sensoriali e carnali. Tutto ciò mi permette di estremizzare quell’aspetto “espressionista” spesso presente anche nella mia scrittura in italiano.

Quale segnale ti dice che un verso vuole essere scritto in lingua e un altro in dialetto?

Non ci sono segnali precisi, salvo certe antenne interiori che segnalano appunto se un verso “suona bene” o “stona” in un codice linguistico o in un altro Ma quasi sempre la scelta è istintiva: quando inizio a scrivere so già che quel testo va reso in quella lingua, raramente mi pento e cambio registro.

“Rasulanne” significa rasoiate. Le tue hanno quasi sempre il “taglio” – uso questo termine pensando anche all’immagine di copertina – del monologo…

Sì, sono tutti monologhi i testi di “Rasulanne”, ad eccezione del componimento d’apertura che introduce il tema delle voci. E la voce dei vari personaggi viene “emessa” quasi in un ideale palcoscenico: la dimensione teatrale, stimolata dall’oralità tipica della parlata, è evidente, sostituisce l’io lirico di certe mie passate esperienze con un io rappresentato, dove poter introiettare situazioni lontanissime dal vissuto di chi scrive. Come un attore che interpreta più ruoli, da autore io provo ad entrare nelle vicende delle mie creature grazie alla fascinazione del dialetto, che è un lasciapassare incredibile. La sua musicalità e sensitività fa scattare il transfert, permette di “sapere” altre vite senza averle mai conosciute prima.

Che tipo di stagione creativa stai attraversando? Te lo chiedo perchè, nel leggere i tuoi libri, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte non a qualcosa di nuovo – perché l’idea di “nuovo” potrebbe far suppore che il resto sia invecchiato, e non è così – ma a qualcosa di diverso. Uno stadio, un segmento diverso…

Un stadio “nuovo” o diverso potrebbe essere proprio quest’io rappresentato, anticipato tuttavia già da certi sonetti “scenici” del mio precedente “Per sensi e tempi”. Stadio che può riscontrarsi anche in molti “mesi” della “Corona”, giocati sulla pluralità delle voci e degli spazi parlanti. Ma nella “Corona” c’è anche una nuova sperimentazione prosodica: l’adozione di un verso lungo, doppio o composto, che eccede di molto la misura dell’endecasillabo (presente solo in minima parte) e a volte si dilata in esametri larghissimi, simulanti quasi la prosa ma scanditi sempre dalla regolarità del metro. Non è questo un dato solo tecnico: esprime la volontà del verso di espandersi, di abbracciare più porzioni possibili di senso e di mondo.

Quali sono, fra i tuoi “colleghi” poeti, quelli che leggi con più amore? E quelli che senti a te più affini?

A parte la rilettura del sacro padre Dante e di alcuni classici del ‘900 (Eliot, Montale, Sereni, Celan ed altri), ammiro molto la lezione di un supremo “giocoliere” della parola come Toti Scialoia, e di due poeti che hanno saputo coniugare in maniera esemplare la varietà dei temi (esistenziali e civili) con quella del lessico e del metro: Raboni e Giudici. Ma senza parlare di impossibili affinità… ma di modelli di riferimento.

* da ‘La Città – Quotidiano di Teramo’, domenica 16 settembre 2012