Le passioni di Sergio Cicalò

Lettura e scelta poesie di Maurizio Rossi

Sergio Cicalò “Passionis” Ed. Cofine, Roma, 2022

Passioni, nella doppia accezione di sofferenze e moti dell’anima verso qualcuno o qualcosa: spesso indistinguibili le une dagli altri e legati a doppio filo, come nella poesia di Sergio Cicalò, limpida nella sua architettura ritmica e sillabica, chiara nello sgorgare dall’intimo.

L’autore apre la silloge chiedendosi “Ita ingùrti’ de sa boxi su siléntziu” (Cosa inghiotte della voce il silenzio), che racchiude l’interrogativo sia di chi recita poesia, come di chi la scrive, o di chi compone musica o la esegue: cosa resta del suono e del senso, del grido di chi muore o soffre, dell’angoscia che spiega le sue ragioni? Il silenzio esige e chiede e sa divenire vuoto che morde, se non lo si sfama un po’.

Lo scrittore chiude con una speranza: poter ritrovare la parola custodita nel cuore di bambino, ad esso donata da suo nonno, attento e amorevole nel tramandare i suoni e il senso dell’esistenza. Ancora una volta, la “tradizione”: anziché tentativo di congelare il mondo, essa è forma e sostanza di interrogativi e di risposte che ogni generazione vive a suo modo.

Nel fra-tempo della raccolta, Sergio Cicalò ha l’onestà poetica di chiedersi “…it’è custu bisóngiu/ de iscrìri?”(cos’è questo bisogno/ di scrivere) le cose belle, quando la bellezza vive e stupisce di per sé, senza che nessuno la dica? Sembra quasi di sciuparla o appesantirla, parlandone persino in lingua poetica. Non è lo stesso per chi vede le bellezze di un luogo e le fotografa, quando basterebbe che si riempisse gli occhi dei colori e delle forme per custodirli nel cuore, come la parola di quel bambino?

Continuare a scrivere e comporre, come a fotografare, se avviene dopo essersi posto tali domande, permette anche ad altre persone di conoscere e godere il bello e il meraviglioso, così come il dolore, che non manca certo in questa poesia. Il titolo infatti si svela fino alla “passione” per antonomasia, quella dell’Uomo Crocefisso, il cui dolore raggiunge il parossismo nella ricerca di senso e nell’essere inascoltato. E’ proprio la solitudine e il non senso a rendere il dolore umano – pur naturale – disumano!

Infine i vecchi: il poeta che invecchia non sa se essere triste o curioso di questo suo cambiamento; l’anziana che ascolta la canzone e si chiede che c’entra “un mondo d’amore” con il dover “lasciare tutto”; quelli che temevano la luce, forse lo spreco, e ora temono il buio e fanno di tutto per goderne, come il solo desiderio e pace- o passione? – i vecchi, che per capirli “bisogna /abbassarsi per vederli, / guardare bene, ascoltare” sa bòxi de is antìgus, la voce degli antichi.

In questo “tradĕre” per poetare, l’autore scrive anche una traduzione – ardita ma efficace – dall’inglese al sardo e viceversa, accostando due mondi così lontani, eppure resi prossimi da un“olìa antiga bogada de su mònti suu” (vecchio olivo sradicato dalla sua collina): sebbene non visto da chi è distratto per un’occasione mondana, con magnetismo di pianta dolente – anch’essa vecchia!- esaspera e fa sanguinare e “gira le tue mani verso terra”, dove tutto inizia e finisce.

Sa poesia

Su fuéddu chi circas dd’a’ cuàu

pòdit essi in su còru

su pipìu ch’ìa’ do ndàu

a nonnu sùu: poìta

non mi cantas a mèi puru

su chi cantas a sólu?

La poesia– La parola che cerchi l’ha nascosta/ forse nel cuore// il bambino che aveva domandato/ a suo nonno: perché // non canti anche a me/ quel che canti da solo?

 

Su poèta imbecèndi

curri curri

còru còru

marchiòri

de si biri

imbecèndi

a ‘s fentànas

e vetrinas

e ollèras

e pensèndi

seu imbecèndi

impresseèndi

s’andadura

óia óia

su prexèri

de si biri

su panèri

cambièndi

sa bisura

de su còru

muru muru

Il poeta che invecchia– corri corri/ cuore cuore/ la pazzia/ di vedersi//invecchiare/ alle finestre/ e vetrine/ e occhiali// e pensando/ sto invecchiando/ affrettando/ l’andatura// ohi ohi/ il piacere/ di vedersi/ il sedere// cambiare/ l’aspetto/ del cuore/ muro muro

 

Nèmus

Cali curpa ses paghèndi

cravàu in cussa cruxi?

Sa curpa de Adamu o sa curpa

de babu tùu chi a’ fatu Adamu

a su dolòri e a sa mòrti?

Artzièndi sa bòxi

tua de ómini faci a su xélu

ghètas tzèrrius de ómini

chi nèmus intèndidi.

Nessuno -Che colpa stai pagando/ inchiodato a quella croce?// La colpa di Adamo o la colpa/ di tuo padre che ha fatto Adamo// al dolore e alla morte?/ Levando la voce// tua di uomo verso il cielo/ lanci grida di uomo// che nessuno sente.

Sergio Cicalò (Cagliari, 1970), ha insegnato Lettere nei licei e ora insegna nel carcere di Cagliari-Uta. Tra i fondatori della rivista di poesia “Erbafoglio” di Cagliari, ha pubblicato il libro di versi Giovane cagliaritano (1993), finalista al Premio Giuseppe Dessì di Villacidro. Un’altra raccolta di poesie, Lo sguardo degli occhi chiusi, uscirà prossimamente. Nel 2021 è stato finalista nella sezione “poesia inedita” del Premio Internazionale Rainer Maria Rilke di Duino. Pubblicazioni recenti di poesia: Sette sonetti sono usciti nella rivista “Smerilliana” 22, 2019; alcune poesie in sardo campidanese sono uscite nella rivista “Avamposto” 1, 2022; la raccolta in sardo campidanese Passionis ha vinto il Premio nazionale di poesia in dialetto Città di Ischitella – Pietro Giannone 2022 ed è stato pubblicato dalle edizioni Cofine, Roma, 2022; alcune traduzioni di poesie in lingua pāli delle prime seguaci del Buddha, con un saggio di commento, sono uscite nella rivista “Avamposto” 2, 2022.

Maurizio Rossi 16/3/2023