È “un’anima divisa in due” quest’ultimo lavoro di grande maturità di Nelvia Di Monte, Dismenteant ogni burlaz (Ed. Cofine, 2010 – Premio Città di Ischitella-Pietro Giannone) un libro in due sezioni, come l’interno di un medaglione. Nella prima, Peraulis sfrisadis (Parole scalfite), troviamo la parte “civile” del cuore di Nelvia Di Monte: poemetto in undici quadri numerati, fluidi, senza mai un punto fino alla fine, rivolto al fenomeno della globalizzazione, con toni dolenti e spesso drammatici (bene ci aiutano le note finali dell’autrice). La seconda parte, eponima, Dismenteant ogni burlaz (Dimenticando ogni temporale) raccoglie in otto quadri un cantare più intimo: pensieri, minime illuminazioni del quotidiano. Neppure qui ci sono punti a spezzare la narrazione, solo titoli brevi, quasi asterischi. Tutto questo in un ritrovato friulano dell’infanzia (trascorsa a Pampaluna in provincia di Udine) di miracolosa lucentezza e scandito in endecasillabi che danno il giusto ritmo meditativo al racconto.
Esistono ancora poeti, per nostra fortuna, che rivolgono la loro attenzione all’ “altro” da sé, ai nuovi, attualissimi fenomeni sociali che ci coinvolgono e alle responsabilità che ne conseguono. Nel poemetto Peraulis sfrisadis il poeta dà voce a un capitano di cargo su rotte internazionali (un emigrante d’élite che torna a casa in Friuli dopo ogni viaggio) che parla della globalizzazione perché ci lavora e ci vive dentro, la sua è stata una scelta di vita: «I veri emigranti sono i clandestini che si imbarcano di nascosto nella sua nave. – dice Nelvia Di Monte – Nel poemetto il tema dell’emigrazione è presente così in due dimensioni: nel capitano la lontananza è vissuta come migrazione esistenziale, come sensazione che niente è mai fermo, riflessione sul fatto che tutto si trasforma troppo repentinamente e tutto rischia di perdersi, anche il tempo e la propria l’identità. E poi c’è l’emigrazione reale di chi, da lontani paesi, emigra in condizioni disperate in Europa, anche in quel Friuli fino a pochi decenni fa terra di emigranti.»
La “Global economy” nel pensiero del capitano del cargo prende a volte sembianze di un diabolico “essere” che ha la capacità di cambiare l’anima delle persone: «Global economy – mi à gambiât/ in tun barcjarul framiez doi infiârs:/ sence dignitât, dulà isal plui ben?» (Global economy – mi ha trasformato/ in un traghettatore fra due inferni:/ senza dignità, dove è meglio?). Nei versi subito precedenti ci racconta il perché di queste sue parole: «Robis e omps spaurîts che cirin un gnûf/ destìn e s’imbarcjin d’ascôs e cuan che/ tu ju cjatis, tu ju puartis istès/ daûr – surîs che no tu viodis l’ore/ di parâ vie, jù dal to granâr» (Merci e uomini spaventati che cercano un nuovo/ destino e s’imbarcano di nascosto/ e quando li scopri, te li porti dietro/ comunque – topi che non vedi l’ora/ di cacciar via, giù dal tuo granaio). Sono i clandestini per i quali «la tua carne non vale niente, se/ viaggi stoccato peggio dei sacchi di caffè/ di un casco di banane, che almeno/ da una carta viene accompagnato!».
Nelvia Di Monte si è già interessata al tema dell’emigrazione in un precedente volume del ’96 Cjanz da la Meriche (Canti dall’America, Firenze, Gazebo), dove in forma epistolare dà voce agli emigranti friulani che nel secolo scorso partivano per l’Argentina in un esodo forzato per fame, dando forma al senso di straniamento e alla nostalgia di chi mai prima si era mosso dalla propria casa dove un distacco è sentito “per sempre”. Forse le stesse persone che oggi hanno dimenticato la loro esperienza e perciò non sono sempre umanamente accoglienti con i nuovi emigrati.
Racconta la Di Monte che a circa sei anni è andata via dal suo paese per andare in Lombardia. Il dialetto natale era considerato dalla famiglia lingua proibita e l’integrazione la necessità primaria. Dapprima, quindi, parole messe da parte “come i nomi di una vecchia agenda telefonica da cambiare”, allontanate, poi riascoltate durante le vacanze scolastiche, alla fine riscoperte dopo una perdita familiare importante in età adulta. “Parole intese un tempo, carezze, sogno, che entrano poi in una dimensione di senso”. Lingua dell’ascolto e lingua narrante per Nelvia Di Monte: difficilmente, infatti, parla in prima persona nella sua poesia, ma “fa raccontare” storie ai protagonisti. Accade in questa sua ultima fatica, in Cjanz da la Meriche, già citato, ma anche in Ombrenis (Ombre) del 2002, una “Spoon River gelida e fangosa come le acque del fiume che rotolano sulla voce narrante” (Anna De Simone in Poesia Italiana) tutta al femminile.
La seconda sezione del libro ci riporta al qui e ora del quotidiano, a piccole esperienze personali, che fanno da spunto per considerazioni più ampie, a volte sapienziali, temi presenti anche in Cun pàs lizêr del 2005. Poesie che danno ascolto “all’urgenza di comprendere più che di narrare” (Achille Serrao in Periferie). Anche al bisogno (esplicitato nei “condizionali”) di andare verso un tempo più sereno, una natura “buona” e salvifica. Parole che suonano un po’ come una preghiera: «Propi di aghis o vorès contâ ma no/ dal fons: de lôr inmagade serenitât/ che rive sence inacuargisi// dismenteant ogni burlaz traviarsât,/ monsons ch’a messedin fôs e mâr, burascjis ch’a rivochin ondadis/ di pôre a torzeon dentri oceanis» (Proprio di acque vorrei raccontare ma non/ del fondo: della loro trasognata serenità/ che giunge senza accorgersi// dimenticando ogni temporale attraversato,/ monsoni che rimescolano delta e mare/ tempeste che eruttano ondate/ di paura a zonzo dentro oceani//), oppure in Rifles: «Nol treme il spieli di aghe basse/ ch’al siare intôr palûts e vencjârs,/ dut fêr il rifles dal cjanêt…» (Non trema lo specchio di acqua bassa/ che abbraccia giunchi e salici,/ immobile il riflesso del canneto//). Ma nell’ultima strofa struggente e bellissima della medesima poesia si dice anche «Dentri un voli lontan il rifles/ di noaltris: nuje plui di curtis/ ingrispaduris tal timp? Il svual/ une olme tal blanc, rimarginade» (Dentro un occhio lontano il riflesso di noi: nulla più di brevi/ increspature nel tempo? Il volo/ una traccia nel bianco, rimarginata).
C’è un “riflettersi”, un guardarsi dentro: la natura fa intuire a tutti noi la condizione umana, ma il poeta la “dice” sulla carta, diventa nostro “portavoce”. C’è sempre in Nelvia Di Monte un rivolgersi al “noi”, la necessità di condividere con i compagni di avventura: ancora una volta è come se facesse “raccontare” e desse voce al mondo.
Nella chiusa finale del libro, colta e profonda, il poeta ci ricorda, novello Qoelet alla rovescio, che certamente tutto è vanità, ma anche possibilità di riscatto, attraverso la memoria, attraverso la delicata speranza della poesia: «A saràn altris musis ancjemò/ par lèi alc di nô – chês forsi piardudis/ o in spiete dentri critai di zilugne // “al è un timp par vivi” e peraulis par rivivi…» (Ci saranno altri visi ancora/ per leggervi di noi – quelli forse perduti/ o in attesa dentro cristalli di brina// “c’è un tempo per vivere” e parole/ per rivivere…)
Anna Elisa De Gregorio
5 dicembre 2010