All’inizio del romanzo Der Zauberberg (continuo ancora a dare al romanzo il titolo “La montagna incantata”) Thomas Mann scrive, nella Premessa, dello scrittore come “raunender Beschwörer des Imperfeklts”, mormorante evocatore dell’imperfetto. A questa accezione, come tempo verbale, del termine “imperfetto” ho pensato quando ho letto il titolo che Gianni Montieri ha dato alla sua raccolta più recente, Le cose imperfette. L’attenzione ai tempi verbali, nel loro uso e fin dal loro nome, ricorre infatti nella sua scrittura poetica. Se in Futuro semplice la definizione di un tempo verbale costituisce il titolo del volume, Avremo cura sembra invece raccogliere il testimone lasciato dal precedente nella coniugazione del verbo, al futuro semplice, appunto.
Le cose imperfette è dunque un titolo che contiene un riferimento, anche se non diretto, a un tempo verbale. Troppo forzato l’accostamento? Vediamo. Certo, le cose imperfette sono non compiute, o non ancora compiute, dicono sì della lontananza dalla perfezione, tuttavia, allo stesso tempo, esse, le cose, sono suscettibili di cambiamento, non sono statiche, si muovono. Spetta al “mormorante evocatore” dell’imperfetto collocarle in un passato (remoto o prossimo) denso di attese, di aspettative che si sporgono sul futuro.
Nelle tre sezioni che compongono Le cose imperfette, vale a dire Lettere aperte al fronte sudamericano, Le persone rimaste, Previsione di marea, Gianni Montieri si fa allora “evocatore dell’imperfetto”, nel sussurro di una voce che si modula su toni pacati, che, letteralmente, non va mai sopra le righe.
Le «cose imperfette» si rivelano nei giorni sospesi, dominati dal sentimento, doloroso, dell’assenza. L’autore avverte nella Nota che tra tutti i testi, scritti fra il 2013 e la prima parte del 2019, quelli che compongono la prima sezione, Lettere aperte al fronte sudamericano, «devono molto, se non tutto, a un periodo di lavoro che Anna, mia moglie, ha trascorso in Brasile nel 2013.».
Ricordo quell’estate del 2013, ricordo di aver letto alcune di quelle poesie, allora inedite, che rendevano il desiderio di «accorciare le distanze». Le rileggo oggi, insieme ad altre che leggo per la prima volta e trovo conferma all’ipotesi formulata: “l’evocatore dell’imperfetto” coglie, nel percorrere le strade di una Milano che sa essere insieme consueta e nascosta, curata e trasandata, le storie «imperfette» che aprono prospettive su destini imperfetti di persone imperfette, persone che attendono, che rimpiangono, che hanno paura, che provano dolore: «mi si stringe il cuore al pensiero/ di cose che non so, di questa gente / che avrà speranze segnata sorte / qualcuno dall’altra parte del mondo.».
Sembra, dunque, che il sentimento della mancanza, lungi dal trasformarsi nell’autocompiacimento del proprio dolore, renda più acuto lo sguardo oltre il sé, verso gli altri. Ne sono prova versi che, letti in questi giorni di angoscia, si caricano di una notevole forza espressiva: «Oggi non è domenica per nessuno / è un lunedì lanciato in loop / all’infinito, come una paura / lunga tutta la vita.».
Chi siano gli altri si chiarisce ulteriormente nella seconda e nella terza sezione. Sono gli autori dei libri amati, frequentati come se fossero amici di lunga data, sono amici con i quali la conversazione avrebbe voluto dilatare i tempi, a dispetto di una sorte contraria, sono testimoni della storia e vittime di storie atroci, come Stefano Cucchi, sono indefiniti «Qualcuno» che ritornano a più riprese per dare l’avvio a testi poetici, con accenti e timbri talvolta molto distanti tra di loro (l’affetto fraterno e il moto di rabbia, la compassione e lo sberleffo), sono, infine, i dimenticati tra i dimenticati, i migranti morti nel Mediterraneo. Leggere i numeri, sommare le cifre, contare quei morti, è impegno nello sgomento.
Gianni Montieri, Le cose imperfette, LiberAria Editrice 2019
Anna Maria Curci
La ragazzina cinese piange appoggiata
al muro della Bank of China
un ragazzo la guarda poi una carezza:
di perduto amore o di mancato credito
mi domando, io che non avevo visto
lacrime orientali fino a stamattina
mi si stringe il cuore al pensiero
di cose che non so, di questa gente
che avrà speranze segnata sorte
qualcuno dall’altra parte del mondo.
*
Se moriamo il nome è sulle braccia
l’hanno scritto con il numero di telefono
elicotteri fanno fuoco sulla folla.
Oggi non è domenica per nessuno
è un lunedì lanciato in loop
all’infinito, come una paura
lunga tutta la vita.
*
In Cina è ricomparso un villaggio,
questa è la notizia: sprofondato
per un terremoto, riemerso
per un’inondazione. Grandi numeri,
l’unica legge applicata a quella terra
sterminata, tutto è immenso, così
sciagura arriva e cancella, così
sciagura scherzo di natura torna
e riporta a galla muri vissuti
case senza memoria.
*
E mi sembrano stanchi ogni giorno
di più, appoggiati alle porte, disposti
lungo le banchine, uomini, donne
tutta la vita che li guardo in viso
che mi chiedo dove la loro bici
parcheggiata, il bimbo all’asilo,
dove la stanchezza, la speranza,
scendono alla prossima fermata
li dimentico, chiudo gli occhi,
leggo, accomodo un’altra sera
a questa vita, a questo ritorno.
*
Non succede niente a Roma, adesso
è una sirena che spiega sull’acqua
nulla di nuovo lungo il fiume opaco
niente fosse il fango, niente sui ponti
non impari niente di Roma, oltre
il giro intorno alle rovine, la metro
che trasporta da nessuna parte
non dovrebbe essere di nessuno
Roma, oppure non esistere più
e forse non esiste e non è vero
questo camminare a testa in su
lo stupore, la cosa indimenticabile.
*
Suicidatomi senza prima saperlo.
Roma spariva come un’ecchimosi
che si riassorbe, i segni sulla faccia
restavano, erano destinati
a rimanere, a sopravvivermi.
Roma spariva ed era sentenza
dolore sordo, era silenzio di tomba.
Pubblicato il 25 marzo 2020