Laura Rainieri e il ragazzo dalle mani grandi

Pubblicato il suo racconto in versi: La Bassa piana e le Fontanelle
La Bassa piana e le Fontanelle. Racconto in versi (Tielleci, 2012, pp. 164, euro 13,00) di Laura Rainieri si apre con questo exergo: “È una terra tutta speciale: piatta, uguale, e, in quel suo cielo che non finisce più, c’è spazio finché si vuole per i morti, mentre i vivi sono schiacciati da quel cielo immenso che li fa sentire più piccoli ancora di quello che sono” (Giovannino Guareschi – “Don Camillo e Don Chichi”)
 
“La terra molle, lieta e dilettosa, / simili a sé gli abitator produce”, così Torquato Tasso nel canto primo della “Gerusalemme liberata” e questo, secondo il prefatore Egidio Bandini, “è il succo del poema che L. Rainieri, nata a Fontanelle di Parma (paesello natale anche di un tal Giovannino Guareschi) ha dedicato alla sua terra e alla sua gente”.
 
Laura non ha mai dimenticato quella “fettaccia di terra”, pur vivendo a Roma ormai da lunghi anni, anzi soprattutto perché, di lontano ha continuato a rimanere legata al suo paese nel quale è ritornata più e più volte, e del quale conosce ogni sua piega, ed allo stesso torna con la memoria “cristallizzata” di chi ha subito il trauma del distacco e da quella separazione attinge i più vividi ricordi, tentandone ogni recupero. Da “Poetessa di Luogo, di Tempo, di Linguaggio, di Geografia, di Storia, d’Arte e d’Amore” come la definisce Plinio Perilli il quale apre la sua efficace presentazione citando un verso di Laura, tra i più belli in assoluto della raccolta, dedicato al suo fiume: “Il Po è un ragazzo dalle mani grandi…”.
 
Un fiume perciò: “da trattare con i guanti. / Scorre lento, s’incaverna, semina laghetti / bacia nel riflesso le sue rive / e t’invita anche per un tuffo. / Il sole roggio al tramonto s’innamora. / Ma d’improvviso estrae la sua forza / s’innalza con il vento in poppa / supera gli argini, tiene sospesi i cuori… / Piove, piove, le acque diluviano con il cielo. / Sale sale sale: senza pietà.
 
Ed eccoci quindi immersi nel “racconto in versi” che non sapremmo meglio definire rispetto a quanto fatto magistralmente da Perilli:
“Poesia ardua, impennata e insieme dolcissima – questa di Laura Rainieri, sorprendente, pacifista creatura ‘caparbia in amarcord’, e solo armata della nobile, temprata penna dei suoi semplici versi -: che dunque stende un variegato, frastagliato poema sulla sua terra (…) ben conscia che aggregare cuore e mito, radici e linguaggio, aneddoti e destini, fede e jattura, patimenti e umori, mattàne e sapori, chiede alla prosa/habitat di farsi lirica, distillarsi in lirismo, suffragare ogni evento od avvento, grumo esistenziale o artistico pinnacolo, in fluido dettato, e perseguire, raccontare insieme il luogo e il tempo, la parlata e la Storia e l’Amore…”
 
Questo libro viene dopo “E serbi un sasso il nome” del 2004: “dedicato a mia madre, alla serena relazione con lei, e scritto appena dopo la sua morte” – sono parole sue -.
Allora lei avvertì “un immenso vuoto, come se, consegnato il libro alle stampe, mi fossi spogliata del suo amore e della possibilità di parlare ancora di lei e dei luoghi dove eravamo vissute”. Invece poi: “si è fatta strada l’idea di continuare a nominare quei luoghi, sotto una nuova veste e con una struttura poetica più ampia che mi permettesse di esplorare nel tempo e nello spazio terre percorse, prevalentemente della Bassa padana”.
 
Il nuovo libro è stato composto nel 2006 mentre lei si trovava a Fontanelle: “luogo intimamente legato alla genesi di tutta la mia scrittura”. Abbraccia molti temi, che Laura didascalicamente (è stata pur sempre e per tanti  anni un’insegnante) ha ordinato in capitoli per i lettori, soprattutto perché quella materia eterogenea che veniva raccogliendo “coabitava in me contemporaneamente”. E gli sono stati prodighi di aiuto i suoi compaesani “con la loro viva presenza, con quel bel dialetto che parliamo e con il quale mi hanno riferito accadimenti che ho cercato di trascrivere poeticamente”. Laura Rainieri è partita da lontano dalle origini storiche dei luoghi, ma la sua materia (e la sua penna), a mano a mano che si articolava il racconto “scivolava sempre più vicino, stringendo il campo e illuminando il presente; ruotando intorno alla casa natale, agli affetti famigliari, alle persone scomparse, alle amicizie rimaste: poiché l’interesse del poeta verte al presente e tanto fa con la propria memoria ed emozione da richiamare in vita tutto ciò che ha partecipato intimamente del suo vivere”.
 
In questo poemetto ci colpiscono soprattutto quella sua terra “così bella piatta com’è”; quel capanno dove lei ha respirato nel bosco che “cresce rigoglioso nella palude”, verde degli alberi che lei nomina, specie per specie (pioppo nero, bianco, gattice, ontani, salici, bossi…) quel “verde d’ogni specie” che si confonde con le acque del fiume, per cui “la Bassa è una distesa verdazzurra”. Ci affascina quel cielo sotto il quale lei è nata e “sente la purezza / dell’aria temperata e salubre / che il Taro trascina dal colle / e non vuole tornare in cielo”). Ci ammalia quella condensa natale che si trasforma in “fittissime nebbie. / Scompare e si amplia la pianura / dormono i confini e si naviga nel nulla”. Poi “si torna al nulla al prima del pensiero, / a nascere si torna. Ricacciati nel guscio / di noi stessi, cuore della prima nebbia”.
 
Ci stupisce la ricca fauna fluviale in cui, volatile per volatile, confessa la poetessa (anzi la poeta, come vuol essere chiamata) “mi fingo in quel sogno primitivo / e mi diverto a nominarli”. Senza naturalmente trascurare tutti i pesci del Po signoreggiati dallo “storione immenso”. E poi le campane dei paesi: “ogni giorno in quei dodici rintocchi / rinverdisco il sabato di Pasqua”. E le zanzare che lei, “nata nella culla sotto il velo per difesa”, conosce assai bene: “dalle paludi estive a nugoli / t’appinzano zanzare: sansos senz’ossa. / Non t’aspetti la puntura, il prurito, il rossore… / Zampine eteree. Si posano con grazia / e la femmina impudica estrae il pungiglione. (…) castigo del buon Dio precipitato / su una terra tutta speciale, piatta e uguale”.
 
Terra dominata da “quel ragazzo dalle mani grandi chiamato Po che regala i dolci sonni cullati dal mormorio delle acque e l’affaccio da finestre che “respirano fiume e cielo” ma è capace di infliggere tremende inondazioni: “Quante case e campi spazzati via in golena! / Le formiche ricompongono / il nuovo sopra il vecchio nido”. Come quel “14 novembre 1951 memorabile / l’alluvione del Polesine” e la spontanea solidarietà verso gli alluvionati: “Capitarono al n. 11 della mia Valle / e noi  eravamo in sedici. Stringiamoci / dividiamo l’uovo coi radicchi / c’è posto per tutti. / Sono passati come ombra o sogno. / Nemmeno i nomi”.
 
E nella parte finale del poema la casa, quella che “esce dal verde” e “dentro è un altare”. “Così ti sogno, o mia casa notturna / e m’infondi paura / tu, la mia culla, buia e stravolta”.
Riaffiora il ricordo di suo padre e del suo mestiere nomade: famì da fagòt, “famiglio da fagotto”, (che aiutava a lavorare la terra o accudiva le stalle) non a caso sull’onda del suo dialetto, di cui è depositario l’amico Pietro Dioni, che ne conserva i termini più arcaici, “abbarbicato alla sua terra come pietra” che scioglie il suo inno d’amore al paese in chiusura del poema: “Cosa me ne faccio / della piana di un mare / di una distesa di sabbia / se ho la pianura della mia terra. / Cosa me ne faccio / delle nevi eterne della Marmolada / se il sole anche qui abbacina / Sass Pordoi Sella Rolle / cedono al verde molle / e intenso di questi prati / né devo allungare piede e collo / per vedere profilarsi a Fontanelle / in un rosso tramonto / l’ultimo abbaglio d’orizzonte.”
 
Il libro è corredato di fotografie ogni volta inerenti al tema poetico trattato (foto scattate da amici e compaesani) e da note che costituiscono a loro volta un libro in prosa. Ma le tre parti, sia pure di cui si compone il volume, pur di genere diverso costituiscono un tutto unico.
 
Da ultimo il dialetto. Già il dialetto, quello della sua gente “così caparbia in amarcord”, quello di Laura, autrice, e questo lo sanno in pochi, quorum ego, pure di una silloge poetica inedita in dialetto “Adess av cont (adesso vi racconto), presentata in un Concorso di poesia dialettale di cui non vi dirò il nome in cui nelle prime tre poesie parla del dialetto, del dialetto del suo paese e del suo contrastato rapporto con esso.
Voglio citare in conclusione la prima, in cui ricorda il trauma del rimprovero bruciante rivoltale dalla maestra: “Vergognati, non conosci l’italiano” / Sono diventata rossa come una brace / fino alla radice dei capelli. / Mi si è aperta una piaga / tutta italiana nel cuore. / Il dialetto era una cosa brutta, / sporca, adatta ai poveracci. /Allora ho preso in mano i libri / per studiare quella lingua straniera / una vita intera, / quel benedetto italiano che non andava giù. / E adesso che ne so’ un po’ / punge e punge / per venire alla luce il dialetto / bambino in fasce / con tutta la forza d’allora / con tutto il suo profumo.
Ora, dopo tanti anni, (nella seconda poesia “Al pütén”, Il bambino), in Laura spinge “la voglia di nascere un’altra volta”, di dare “fuoco al bell’italiano / alla televisione e compagnia bella / intanto che l’acqua corre in dialetto…”

Quindi attendiamoci cose nuove da Laura Rainieri, ancora non narrate, neppure in questo libro, pur così così intimo. Perché, come lei stessa dice nella terza di queste poesie, “Dialàt” (Dialetto): Ma serti robi / o is disan in dialàt o is disan mia (ma certe cose / o si dicono in dialetto o non si dicono). 

Vincenzo Luciani

28 novembre 2012

Ed ecco alcune poesie tratte dal libro:

L’alba

E’ l’alba della creazione.
Un pullulare d’acque vergini,
polle e zampilli, spingono dal buio
come bambino dal grembo
s’innalzano limpidissime e coprono la terra.
Rivoli rivoletti sorgenti e laghetti
a ragnatela si riflettono nel sole.
Era prima la terra o l’acqua?
Viva acqua: Fontevivo Fontanellato Fontanelle.
Il rivo Stirone corre inclinato al Taro
con i minori scoli Rigosa e il Lorno di Colorno
si tuffano tutti nel grande Eridano
che giovanetto brama uscire dal letto
e trotterellare curioso sulla riva:
una linea di sabbia, una finestrella.
Acqua di polla acqua di Po
sotto l’argilla acqua sorgiva
acqua di neve dall’Appennino al mare.
Queste Le Fontanelle
prima del gran maniero di Roccabianca
con la giostra delle frazioni:
Stagno, Volpariola-Ragazzola Fossa Fontanelle,
Rezinoldo-Roccabianca e Tolarolo.
Paradiso corrivo delle acque.
Terra Bassa, irrigua, incisa da orma alcuna.

Da una limpida polla ho avuto vita e voi, paesi.

Lo spretato

Tra Via della Villa e stradello 
Fossadassa abitava lo spretato.
Una casa signorile, centrale ed isolata,
con una muraglia davanti e una magnolia.
Dicevano: spretato con tale spregio
nella mossa della bocca, sacrilegio,
capii, gettare l’abito talare.
Come se il fatto irraggiasse male.
Un cerchio lo isolava, la gente lo evitava
per timore del sacro, dissacrato.
Dicevano: lo scomunicato. Scopriva
il paese la pelle medioevale.
Anche i bambini giravano alla larga.
Un soffio inebriante di magnolia
e con una pedalata tira avanti.
Uomo mite era invece
e mite la compagna
muto nel serrato silenzio.
Camminava a passi lenti, ombra
compressa, rigorosamente in blu.
Ma in quel fiore aperto
a maggio il bianco calice
perseguito posseduto e offeso come un Graal:

nell’ombra l’uomo e il suo mistero.
 

La Chiusa

E per chiudere chiamo all’appello Chiusa.
Enrico Chiusa.
Come le molte chiuse di queste parti
sbarrano e nel profondo l’acqua lavora
per una primavera di germogli:
Chiusa blocca e feconda la memoria.
Ha posto la sua chiusa, catalogato libri
e documenti, scattato fotografie,
conservato lettere e giornali della Bassa.
Chissà se in quel solaio
di rimembranze collettive
in quella mente dove i tempi si scandiscono
e s’intrecciano con memorie di altra gente
chi lo sa
se nel caos è l’orientamento: scivolare
indietro fin dove è dato.
La memoria è rete a lacerazioni e strappi
su cui la storia tesse umanamente.
E anche la mia velleità scrittoria
È passione che vuole fermare la memoria
tra quel ciarpame di carte-caos
dove ogni tanto nei cassetti:
ordine! Diventa imperativo.

Ho visto Enrico sfogliare
(un Correggio o un Caravaggio?)
con quella levità che nemmeno i dotti.
Sfiorava la pagina
col rispetto delle cose sacre.
E anche il suo orecchio musicale capta.
Una cultura solitaria
radicata nelle sere di nebbia
per accendere tra la fuliggine la luce.
Ma di "gente così" caparbia in amarcord
a Fontanelle e nella Bassa non è poca
e questo non è poco.

Tra questo gregge sono nata, e voi.

Laura Rainieri, nata a Fontanelle di S. Secondo (Parma ), il 3/10/1943 risiede a Roma.
Per un decennio si è interessata della poesia femminile presso la Casa Internazionale della Donna di Roma; è stata consocia fondatrice, nella stessa città, per un altro decennio, della Associazione Culturale “Rosella Mancini” importante poetessa pugliese scomparsa nel 1995; collabora con l’Associazione “Periferie” e con la Biblioteca comunale “G. Rodari” per interventi culturali diretti al pubblico e alle scuole. In versi ha pubblicato: La nostra spada, la parola, Ibiskos, 1997: primo premio Padus Amoenus; Nessuno ha potuto sposarci, Bastogi, 2001; E serbi un sasso il nome, Campanotto 2004. Il racconto in versi La Bassa piana e Le Fontanelle, La Colornese 2012.
In prosa i racconti: L’ultimo Guancho, Campanotto 1998; Angelo pazzo e altri racconti, ExCogita, 2007; Badante sissignora, ExCogita, 2010. Un suo racconto dal titolo “Miraggio a Mosca” é stato pubblicato nella raccolta di racconti dal titolo “Incontrarsi”, nell’ambito del progetto ”Migranti e native” promosso dalla Provincia di Roma per l’anno 2012.