C’è una sorta di ossimoro nel titolo che esprime metaforicamente anche lo sguardo poetico e quell’attenzione alle cose, tipica di un/a poeta. Un alveare nel suo insieme non dorme mai, sembra assopito perché di notte o in particolari condizioni di tempo, le operaie non escono per raccogliere il nettare; eppure, al suo interno ci sono sempre api in fervente attività. Un po’ quel che accade nel mondo degli umani, anche in periodi apparentemente oscuri.
Così nella raccolta di Angela Caccia“…I ricordi non muoiono/ s’addormentano vigili/ Io so di lei/ la ricordo!…” in un dialogo di sguardi con una foto (forse della madre?) in uno “sparigliare” e nello “sciamare di presenze” ferve e si esplicita un mondo, pur nella quiete attenta dell’osservare e dell’osservarsi.
“Avesse un rumore la solitudine/ sarebbe di silenzio/ e quello di una stanza d’albergo non dà eco/ eppure/ avanzano tamburi al suono di neve” Quiete e silenzio, così diversi, quanto lo sono il tempo e i giorni; ma la poesia non spiega, non descrive, la diversità: replica domande “Sentinella/ quanto resta del giorno?” e ancora “quale tempo/ s’accorgerà che ce ne siamo andati?” .
La poesia di Angela Caccia “affastella” pensieri e immagini, in uno stile originale, apparentemente mai chiuso, come la notte che non è fatta solo di buio. Sembra che lei viva in un tempo “che si è fatto breve” – il kairòs evangelico, ma anche l’esistenza contratta dal web e dai mezzi di trasporto superveloci – eppure si affretta, sembra, a“sbirciare la pagina che segue” per voler capire se i desideri contano più di quello che non abbiamo “se la nostra è più fame di domani che digiuno”; se ci può ancora rendere felici un tempo che compensa con la piacevolezza esteriore di luoghi e situazioni sia la sua avarizia di promesse, che la nostra povertà di attese.
Né mancano nella sua poesia fughe di immagini ardite che riecheggiano miti platonici – il desiderio che sia l’ombra a guidare il corpo e non viceversa – per esprimere la solitudine e la “nudità” di chi scrive “La verità/ è che si entra indifesi nel verso” dove ciascun istante di suono e senso contiene l’impronta di ogni “sé disperso” i tanti toni dell’io e delle umanità perdute. Angela Caccia sa bene che “dislocare vita sul foglio” per dare consistenza alla poesia e espressione al ricordo, è impresa ardua e spesso si è traditi dalle stesse parole che si tramutano in “pietre di inciampo”, in scandalo; e tentare comunque una forma – come più di qualcuno fa – non è sua intenzione, lei così schietta e profonda, così esigente in sé.
Per l’Autrice poetare è difficoltà di “vuotare le parole” come otri da versare fino al loro “lato ghiacciato” ma senza farsene sommergere né compiacersene: il dolore ha spesso un gusto dolce, al quale non si vuole rinunciare. Così lei conserva la “memoria del bianco” – la chiarezza, la luce – il foglio sul quale si può ancora scrivere il diario del ritorno, una traccia minima che pure fa uscire dal buio dell’assenza: il ritorno è la memoria, dove entra il tempo a dare colori nuovi all’infanzia, ma anche a ricordare che “l’orco non se n’è mai andato”.
Verrebbe di danzarla
quest’aria che inizia e si fa
spiffero Verrebbe
da sbirciare la pagina che segue
capire se la nostra
è più fame di domani che digiuno
se attende rivelazioni – a settembre
le nuvole s’ammatassano –
verrebbe da chiedere all’Angelo
colpevole dei veleni di ciò che passa
– Sentinella
quanto resta del giorno?
Se vivere
è questa inerme militanza
al bene e al male i versi
non avranno mai la forma di
un amore privato
S’impara tutti per prossimità
e tutti le stesse le cose:
vuotare i minuti insidiati
riempirli del sole a disposizione
trovare i giorni che mancano a
riallacciare la vita alla vita
isolare la pozza senza luna
Mi piacerebbe
per una volta
srotolare l’ombra in avanti:
fosse lei a pencolare il corpo
La verità
è che si entra indifesi nel verso
ad ogni semitono
il timbro di un sé disperso
Dislocare vita sul foglio le dà
spessore ma un’accozzaglia di parole
non trova il bandolo – ovunque
solo pietre d’inciampo
Tutto sa di tenerezza e tutto è distanza
non è facile togliere il silenzio alle cose
– … smalizialo allora il verso
tenta l’approdo qualunque! – ma
la voce si incrina
Dicono sia la perdita
la misura dell’amore e a me resta
un pezzo di vita mancata dalla
parte del buio
Ti direi che è facile vuotare
le parole conoscerne il lato
ghiacciato
o l’alveare assopito – alcune
a deviarne una sillaba
tornano crepe – bisognerà
attendere che il sole le asciughi
scongiurare solitudini in cattività
gli alberi in lutto ostinato e altre
ghiottonerie del dolore – tu
conserva sempre
memoria del bianco
un diario minimo del ritorno
L’infanzia
sul meridiano del bel ricordo
latte che non inacidisce
Il tempo la netta la ricolora
racconta che l’orco
non se n’è mai andato
Fa presto il tramonto
ad arrochire i resti del giorno
i contorni non danno più noia
e gli occhi si gingillano
in ombre di antiche tenerezze
– mi chiedo se la
notte sappia
che non è fatta solo di buio
Angela Caccia, L’alveare assopito, Fara Ed. Rimini, 2022
Angela Caccia, funzionaria in un ente pubblico, vive e lavora a Crotone; studi classici e laurea in materie giuridiche la hanno via via più legata alla poesia. Gelosa dei suoi affetti, ritiene con Octavio Paz che “I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro biografia”, l’unica che restituisca il riflesso più fedele di un autore –molte volte sconosciuto all’autore stesso. Ha vinto diversi concorsi ed è inserita in numerose antologie. Con Fara ha pubblicato le raccolte pluripremiate Nel fruscio feroce degli ulivi (2013) e Il tocco abarico del dubbio (2015). Con LietoColle ha dato alle stampe Piccoli forse (2017). L’alveare assopito ha vinto il premio Faraexcelsior 2022, ultimo di una lunga serie di premi e riconoscimenti. Web:ilciottolo.blogspot.it