“Ma sì che la vediamo, la vita è questa cosa qui,/ questo tramonto smanioso di rosso in rassegna/ ai tetti delle fabbriche che urlano ventiquattro,/ su ventiquattro. A intiepidire i tigli intossicati/ dal fiato acido degli stabilimenti.” Inizio con questi versi e con la versione in lingua, non certo per sminuire l’originale dialetto, ma perché chi non conosce il friulano possa entrare subito nel cuore di questa poesia, che Indrigo “plasma” lavorando il contrasto del tempo, della natura, del gesto ripetuto e nuovo d’amore, con i suoni sgraziati, i miasmi e la decadenza dell’ambiente che trascina nel guasto chi fatica nelle fabbriche del Nord e chi ci vive.
D’altronde l’autore dichiara di aver “sempre pensato al dialetto come ad un mezzo di comunicazione straordinario…una lingua…dalle grandi potenzialità letterarie”. “E a j è chista manciansa/ in-tal desert da li’ plazis,/ no un vuet, ‘na manciansa./ Ch’i sin nun i fores’c ch’i ciaminin/ ta chista aria nova ch’i si vin/ vodagnat…” Nel ritmo si coglie la potenzialità espressiva, in quel “vuet” che suona come un colpo d’ascia, un taglio, contrapposto alla “manciansa” su cui scivola la malinconia e si fa nostalgia; e si apprezza l’espressività del movimento senza fretta nel “ciaminin” e l’orgoglio nel “vodagnat” così come l’aria “nova” , che nel vocabolo cogliamo nitida, senza scorie.
La poesia di Indrigo è colma di pensieri profondamente laici e di compassione che adombra un animo religioso: per l’ambiente, le persone, persino gli animali.
Anche quando sembra che non abbia più niente da dire -ci hanno apparecchiato la tavola, nostro malgrado – “..adès ch’a ni àn pareciat/ la taula cu li vanzadisis/ dai discors, cu li’ friguis/ da li’ paraulis…” ribadisce l’importanza del raccontarsi “la memoria dal sun…fa la conta dai sfris” (sfregi, cicatrici); del fare la conta degli sfregi, segni indelebili per i vivi -altro che tatuaggi! – e l’ineluttabilità di un colloquio con chi non c’è più, in “una storia di eternit e di sangue”.
Il raccontare “il flat dols da li’ rosis dal Mai/ (che) al scumbìna i pinsiers.”, mentre invoca “il vint da la justizia”, perché non c’è contrasto tra il godimento della natura e dei giorni, e la denuncia-ricerca della giustizia: anzi, la denuncia e il grido nascono proprio dal godimento della bellezza, da un animo “buono e giusto”. E così il dramma dei profughi nel porto siciliano, evoca al poeta turista angoscia e pena perché “la verità è nascosta sotto le rovine di Troia”, che tuttavia non impedisce allo scrittore di vedere “le mani svelte” delle infermiere della Croce Rossa, di percepire il loro “profumo dolce di gelsomino” e di udire le “parole leggere” dei poliziotti, in sofferenza per l’afa, come i profughi.
Vedere, udire, percepire profumi nel mondo che rischia di estraniare, riuscendovi spesso, anche chi non smette di sperare; attendendo nell’anima un arrivo con la corriera, pur sapendo, con la ragione e la memoria, che “a son trentanouf ch’il neri dal vint/ a lu à tombolàt tal sidinès di chista vecia/ solitudin…”.
In questo sfasamento esistenziale, si è stranieri persino a sé stessi, ci dice Indrigo: se è vero che recuperare relazioni d’amore, riparando ad errori del passato, è impossibile al pensiero della mente, ma non a quello dell’anima.
Par il crut dal unviȃr ch’al vignarà
a la miezaombrena di un secu slavràt
par un distìn zuiàt e par chel ch’i vin incrosàt
par la lȗs ch’a riva di scundiòn
a scorsȃ il calighes dai fossài di frovȃr
par la pietàt dal vint ta li’ arbis di autùn
par dutis li’ vȏs a sorèli amont
e par i noufs sidinès
par ogni veciu zouc ch’a nol dura puc
par la seda dal jevàt e par li’ vuaitis
da la vita a la vita e par chista olmàda
ch’a polsa intor di te
Per il gelo dell’inverno che verrà / al crepuscolo di un secolo slabbrato / per un destino giocato e per ciò che abbiamo incrociato / per la luce che incombe / a sfrattare la foschia dai fossi di febbraio / per la pietà del vento sulle erbe d’autunno / per tutte le voci al tramonto / e per i nuovi silenzi / per ogni vecchio gioco che non dura poco / per la seta dell’aurora e per le imboscate / della vita alla vita e per questo sguardo / che su di te riposa.
A è chista aria, chistu tratignȋ il flat.
Epùr li’ parussulis e li’ passarutis a somein
contentis e l’arba pì lustra.
Li’ nulis a van instès a passòn par il sièl
e il vint a torzeonȃ par i curtiì.
Forsi a è la carestìa di peraulis zalis
e blu, e rossis e verdis ch’a ni giava il rispìr.
Chȇs che chistu timp di cunfinament
a ni à robat via. A la radio a contin
che tal giardìn dai zoucs dal Asilo
’pena screàt, àn soterat lastris di eternit.
’I cambi stazion e un salvadi rock ’n roll
a si spampana par duta la ciasa.
In-tal tinèl la me femina a si dispèa
in-tun bal spirtat. A’ un fìl di schena
sempri frut e l’anima gardilina.
A mi clama a balȃ, ma jo ’i cundùri
e ’i speti ch’a metedin su un lento
È quest’aria, questo trattenere il fiato. / Eppure le cince e i passeri appaiono / felici e l’erba più lucente. / Le nuvole passeggiano comunque per il cielo / e il vento a vagabondare per i cortili. / Forse è la carestia di parole gialle / e blu, e rosse e verdi che ci toglie il respiro. / Quelle che questo tempo di lockdown / ci ha trafugato. Alla radio raccontano / che nel parco giochi della scuola materna / appena inaugurata, hanno interrato lastre di eternit. / Cambio stazione e un rock ’n roll impavido / si diffonde in tutta la casa. / In soggiorno mia moglie si libera / in un ballo indiavolato. Ha vertebre / sempre bambine e l’anima sbarazzina. / Mi invita a danzare, ma io resisto / e attendo che trasmettano un lento.
Coma se pardabon a no j fos nuia altri.
Il gran’ tei dulà che li’ parussulis a si ciapin
tars a morosȃ e l’arba in zenoglon a preȃ
la set di ’stu sièl sglonf di nulis in piciulon,
e la glesiuta di Santa Sabida a è lì
da sincsent ains, viarta e vueta, sglonfa
di ombrenis claris, e ta la plaza da la capital
i puliziots ch’a fan il lȏr lavòr, a bastonin in operaios
ch’a àn piardut il lavòr e uchì li’ fantatis
a si movin coma paveis in-tal prat a cunfin cul mont
e il miedi a Gaza al strens a fuart in-tal pet
il frutut ’pena nassut, in chel che li’ bombis
a ciatin l’ospedal, che il fìl spinat samenat la not
al cres vivaros a sorèli jevàt,
’i lassi ch’il polvar al roseèdi i miòs libris,
enciamò massa sflandȏrs da li’ divisis in zȋr
e i poets àn massa primura di ciantȃ li’ nulis,
e li’ feminis enciamò obleadis a balȃ a scȗr
chistu timp siaràt, in chis’cius paȋs ch’a no àn sielzut,
coma se pardabon a no j fos nuia altri.
Come se davvero non ci fosse nient’altro. / Il grande tiglio dove le cince s’attardano / ad amoreggiare e l’erba in ginocchio ad implorare/ l’arsura di questo cielo gonfio di nuvole sospese, / e la chiesetta di Santa Sabina che è lì / da cinquecento anni, aperta e vuota, pregna /di ombre chiare, e nella piazza della capitale / i poliziotti che fanno il loro lavoro, bastonano gli operai / che hanno perso il lavoro e qui le ragazze / si muovono come farfalle nel prato a confine con il mondo/ e il medico a Gaza stringe forte al petto / il neonato, nel mentre le granate / scovano l’ospedale, che il filo spinato seminato la notte /germoglia fervido all’alba, / lascio che la polvere eroda i miei libri, /ancora troppi bagliori dalle uniformi in giro / e i poeti hanno troppa fretta di cantare le nuvole, / e le donne ancora costrette a danzare al buio / questo tempo chiuso, in questi paesi che non hanno scelto, /come se davvero non ci fosse nient’altro.
Francesco Indrigo “Fores’c” Forestieri Cofine Ed. Roma, 2023
Francesco Indrigo è nato nel 1956 a San Michele al Tagliamento (VE). Dal 2008 risiede a San Vito al Tagliamento in provincia di Pordenone. Il fiume Tagliamento ha formato la sua esistenza. È entrato presto nel mondo del lavoro, respirando da subito il vento dell’impegno sociale, sindacale, del volontariato e della pubblica amministrazione. È stato coordinatore del laboratorio di scrittura poetica “Mistral” e da quasi trent’anni fa parte del gruppo “Majakovskij” con cui ha pubblicato diversi libri. Il dialetto friulano della natia frazione di Cesarolo, è lo strumento linguistico da lui scelto per provare a dire il mondo, nella sua accezione più ampia. Ha pubblicato in riviste, antologie, albi e quaderni. Ha editato: nel 2001 la raccolta Matetȃs /Ammattimenti; nel 2005 Foraman / Fuorimano; nel 2008 Foucs / Fuochi; nel 2009 Revocs di tiara / Echi di terra; nel 2013 La bancia da li’ peraulis piardudis / La panchina delle parole perdute; nel 2018 Nissun di nun / Nessuno di noi; nel 2022 Forsi il vint / Forse il vento. È vincitore di premi nazionali ed internazionali.
Maurizio Rossi 12/10/2023