Non ho avuto il piacere di conoscere di persona Mario Dell’Arco, ma ho costantemente seguito la sua attività di poeta e di promotore culturale. Inoltre, ho imparato ad apprezzarne le qualità dell’animo, la gentilezza dei modi, la squisitezza dei sentimenti attraverso una parca ma significativa consuetudine epistolare, occasionata, per lo più, dalla pubblicazione delle sue numerose plaquette di versi in dialetto romanesco e dalla mia collaborazione ad alcune sue iniziative letterarie.
Ma cosa dire della sua esperienza poetica in poche righe? Di un’attività creativa che vanta una cinquantina di titoli (da Taja ch’è rosso! del 1946 a Ponte dell’Angeli del 1955, da Roma levante, Roma ponente del 1965, ad A li quattro cantoni del 1973, da Arciroma del 1978, a Gatti del 1980, da Assolo del 1982 a Vince il turchino del 1985), che ha richiamato l’attenzione di “lettori” di prestigio (come Pancrazi, Anceschi, Spagnoletti, Getto, Ravegnani, Flora, Binni, Cecchi, Sapegno, Pasolini, Mariani) ed ha saputo, reinterpretare l’umorosità, l’ironia, l’icasticità, la finezza espressiva della grande tradizione poetica romanesca dal Belli al Pascarella al Trilussa?
Mi pare che Mario Dell’Arco riveli il suo più segreto e autentico volto di poeta circuendo un sentimento stupefatto, gentile, elegante e dolente al medesimo tempo, mettendo in moto i meccanismi, delicatissimi, d’una raffigurazione fantasticante delle cose, senza tuttavia precludersi la possibilità d’una nitida e a volte impietosa oggettività. Tra la durezza morale di Guerra, il realismo popolare di Buttitta, il virile idillismo di Clemente, il descrittivismo cupo e tagliente di Pierro, l’autobiografismo aristocratico e popolare insieme di Noventa, la sua poesia in romanesco (un romanesco, peraltro, sempre ad un livello più alto di raffinatezza espressiva della lingua) si pone come un esempio di purificazione verbale, di perspicuità figurativa, dove il movimento musicale e il colore, le tonalità e il suono, la visività e il commento psicologico, l’elegia e l’epigramma, la realtà e il trasalimento emotivo, sono variazioni d’uno stesso sentimento della vita.
Ciò lo pone in un rapporto critico con Pascarella e Trilussa. Al “realismo epico” del primo ed alla “favola moralistica” del secondo, Mario Dell’Arco oppone una delicatezza sentimentale ed un piglio descrittivo sospesi tra stilizzazione e naturalezza, un simbolismo che diventa parola, proiezione figurativa, enunciazione. Se Pasolini può parlare di “Vigore verbale, intensità di scorci, inventività di immagini, di lingua ellettica ed aderente”, Giorgio Vigolo non esita a vedere in lui uno “Stravinski dialettale” per quella sua capacità di rielaborare certi sintagmi belliani e portarli in una diversa tessitura ritmica e musicale; e se Rosario Assunto parla d’attenzione a una maggiore intimità di argomenti, ad una partecipazione ancora visiva, ma nello stesso tempo più interiore, Giacinto Spagnoletti vede, accanto al poeta dagli “innumerevoli motivi cari alla tradizione poetica del romanesco, il poeta dei sentimenti che si rifà al Govoni e al Palazzeschi prima maniera, talora nella forma stringata della poesia pura (…), capace di ombreggiature e rilievi che l’intonazione dialettale rende più saporosa”. (1).
Valgano, ad esempio, i versi che seguono, nei quali un elegante gioco letterario è portato a livelli di rarefatta purezza lirica:
La canna stretta in pugno e l’occhio svejo,
come er sughero guizza
a fiore d’acqua, guizza in petto er core.
Lucci? tinche? ciriole?
No, no. Pesco de mejo:
sempre raggi de sole. (2)
A ben vedere, infatti, Dell’Arco ha sempre teso a condurre il suo discorso poetico su un’unica linea di sempre più esplicitata essenzialità di oggetti e sensazioni, di disposizione d’un mondo fermo e irreale, di situazioni ridotte a frammenti onirici. Le metafore della pietra, della luce, del colore, degli angeli, degli animali esprimono perfettamente questo momento di “straniamento” della realtà, ma segnano al tempo stesso anche quello di un approfondimento e di una dilatazione del loro intimo significato, del loro stesso orizzonte fisico.
Se, da una parte, la sua esperienza poetica scandisce le tappe di una progressiva rarefazione della realtà (tutta contenuta nell’estrema semplicità di un’allucinata sensualità), dall’altra, persegue lo scopo di una coerente apertura d’ogni possibile spora dell’irreale o del soprareale, nei termini di una forma di religio, in cui si riassume il mistero dell’uomo in tutta la sua ambivalenza di bene e di male, di gioia e dolore, di finito e infinito.
Si è parlato anche, a proposito della sua poesia, di barocco, ma, come scrive Emerico Giachery (3), “un’anima veramente barocca avrebbe caratteri profondamenti diversi da quelli del mondo poetico di Mario Dell’Arco, il quale non nasce intrinsecamente barocco, ma si compenetra, per lungo e indicibile amore, col più vero cuore di Roma che è barocco. Il suo barocco è dunque un modo, senza dubbio pertinente e fecondo, di interpretare ed esprimere il cuore barocco della sua città. Città segnata per sempre dal genio lirico dei due grandi avversari Bernini e Borromini, capaci entrambi per vie diverse di dare volo e canto, di infondere anima alla pietra unanimata”.
1 Cfr. G. Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton Compton , Roma 1994, pag. 798.
2 Cfr. Mario Dell’Arco, Poesie romanesche, (Newton Compton Editori, Roma, 1987, pp. 115-116), un’antologia che raccoglie il meglio della sua poesia.
3 Cfr. Emerico Giachery, Dialetto in Parnaso, Giardini Editori e Stampatori, Pisa, 1992, pag. 79.