di Anna Elisa De Gregorio
È stato un dono inatteso il piccolo volume dal titolo La casa viola in lingua siciliana di Marco Scalabrino, con in copertina un ritratto del poeta davvero originale: su un naso virtuale l’occhialino tipico dell’intellettuale e una mezza luna vòlta al sorriso al posto della bocca, disegno tenero firmato Ester (la figlia del poeta, suppongo). Originale anche nei contenuti questo libro, discreto, elegante, nella pletora di pubblicazioni, che navigano ovunque e con qualunque mezzo. Siamo già alla quarta raccolta di Scalabrino, studioso del dialetto siciliano, impariamo tante altre cose di lui dalla lunga introduzione o attraverso le note della postfazione di vari critici e poeti, anche grandissimi come Nino De Vita.
Sfogliando le pagine di quest’ultimo lavoro colpisce la magrezza dei testi, che immediatamente li rende preziosi, che obbliga all’attenzione, alla riflessione, come davanti a un epigramma, a un haiku, a un’iscrizione su una lapide, colpisce il tono basso della “voce”, che obbliga a drizzare le orecchie, a riflettere, cioè a guardarsi allo specchio.
C’è una raffinata ricerca del ritmo infantile e antico delle filastrocche, dei nonsense, ma in realtà in ogni componimento pur breve (l’arte del levare è la più preziosa in poesia) troviamo l’eco delle contraddizioni e delle tragedie dell’oggi. Subito, dalle prime righe della prima poesia, eponima, il poeta ci comunica la solitudine e i pericoli del vivere con metafore tanto più lievi, quanto più pesante è la realtà; per questo possiamo subito dire che l’essenza del linguaggio di Scalabrino è l’ossimoro (che, a sua volta, è l’essenza della poesia): «Staiu / na casa / cu li naschi viola. // Stulani / a conza / di collamitina. // E lampi / e trona / pi viviruni». (Abito una casa con le narici viola. Inquilini a prova di colla d’amido. E lampi e tuoni in terrazza). Terribile è la verità nascosta in Sapuni n° 5, una “calandra” di numeri mai tanto folgorante: «Na calandra di numari /1939/1940/1941/1942/1943/1944/1945/ marcati a focu nna la carni/ di la Storia». Non c’è bisogno di traduzione. Grande eppure delicata l’ironia di certi interrogativi come in Scarpi: «Specialista di supratacchi e punti, / patreternu di lazza e cirotti // smurfiu / li cristiani /di li scarpi. // Chi fini ficiru /li tochi di trentacinc’anni fa?» (Specialista di sopratacchi e punte/ signore di stringhe e lucidi // decifro gli altri dalle scarpe. // Che fine hanno fatto/ quei brillanti giovani / di trentacinque anni fa?)
Non proviamo nemmeno a fare un panegirico del dialetto, a dire che il dialetto è lingua aristocratica, di eccentrica verità, arcaica e sempre nuova perché “fatta” ogni giorno da chi la parla in musicalità e bellezza Fortunatamente sono tanti i poeti neodialettali, che fanno rinascere ogni giorno le “parole” originarie, e, decisamente, con esiti sorprendenti.
Ma nel libro c’è anche un altro “motivo” di eccentricità, e cioè la scelta di trascrivere accanto all’originale più di una traduzione in varie lingue. Quindi passiamo dal dialetto, lingua di recinto e di giardino a lingua del mondo. Di nuovo il concetto di ossimoro fa capolino.
Significativa la poesia “cancellata” riga per riga con un segno nero di lutto e di rabbia dal titolo, Faddacchi, che racconta le morti bianche, del disprezzo della vita degli ultimi. Ed è certo che quelle poche parole colpiscono al cuore e fanno vergognare tutti noi (nessuno è innocente) più di lunghe analisi sociologiche: la poesia è davvero un miracolo dell’uomo.
Scalabrino con il suo “piccolo” libro ci è compagno e, al contempo, maestro di vita come pochi e per lui possiamo usare in sin-patos le parole del giovane Holden: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue, vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira».
24-09-2010