Mercoledì 23 novembre 2022 alla Biblioteca Vaccheria Nardi la presentazione del libro antologico “A Roma Pietralata Casal Bruciato – Portonaccio”, a cura di Giuseppe Pollicelli (Edizioni della Sera, 2022) e della raccolta poetica “Il mare a Pietralata” (Tic, 2021) di Claudio Orlandi, mi ha riservato il piacere di conoscere due persone speciali, amanti come e più di me di Pietralata e delle periferie.
Ho maneggiato prima e durante la presentazione, il libro di Orlandi, ammirando l’immagine di copertina in verde di Leonardo Crudi, in cui figurano due date: 1990-2020, trent’anni di attesa a testimoniare la pazienza della scrittura poetica, poste ai lati di una macchina dattilografica simile al volto di un robot con due remi per suggerire l’idea di un mare da attraversare e, sottostante, una foto di Pietralata.
«Vivo a Pietralata – precisa Orlandi – da quando sono nato e ho visto l’evoluzione del quartiere, della sua gente, dei modi di vivere. In estrema sintesi posso dire di amarlo».
La raccolta poetica, raccoglie poesie inedite e testi delle canzoni di Pane, scritti da Claudio Orlandi dal 1990 al 2020. Pane è un gruppo musicale acustico nato nei primi anni ’90 composto oggi da Vito Andrea Arcomano (chitarra acustica), Claudio Madaudo (flauto traverso-bansuri) e Claudio Orlandi (voce-testi) e che suona una musica «esplor-attiva» per «stimolare forme di consapevolezza di se stessi e del Mondo che ci ospita». Ai testi delle canzoni è dedicata la seconda parte della silloge, ma di esse non mi occuperò in questa nota.
Cos’è questa storia del mare a Pietralata? La parola al poeta: «Quasi ogni sera, soprattutto durante il primo lungo periodo di confinamento, ci sentivamo al telefono per raccontarci la giornata e commentare i fatti del mondo. Le telefonate spesso prendevano una piega surreale e scherzosa, magari partendo da un termine trasformato in un altro o giocando su strambe assonanze di senso, come solo Carlo (Bordini) sapeva fare. A volte nascevano delle vere e proprie poesie telefoniche, come accadde per Il mare a Pietralata».
Ed ecco com’è nata la poesia che dà nome alla raccolta.
“Pronto Claudio come stai? / Tutto bene Carlo, tu? / Bene grazie, sto bene, dove sei? / Sono al mare! / Al mare? / Sì al mare qui a Pietralata, hanno messo un mare qui vicino casa. / Ma veramente? /
Sì un mare con tutto quello che c’è al mare / Ma un mare con l’acqua? / Sì un mare vero con l’acqua / Ma l’acqua è blu! / Sì un bellissimo blu, hanno preso acqua dall’Oceano pacifico e l’hanno portata qui a Pietralata. / Che bello! / Sì / Ma ci sono anche le ragazze in bikini? / Sì, è pieno di ragazze bellissime che giocano sulla riva. Hanno portato anche la sabbia c’è tutto e tutti stanno bene e si divertono. Chi gioca in spiaggia e chi passeggia. C’è anche il bigliardino! / Ma ti sei fatto il bagno? / No il bagno no, perché l’acqua è freddina. / È acqua oceanica, è piena di correnti. / Ma tu pensa. / Carlo appena possibile ti devo portare qui al mare a Pietralata! Vedrai è bellissimo / Sì ci verrò molto volentieri. / Sì!”
Concordo con Marco Lodoli (La Repubblica, 21 giugno 2021 in https://www.ibs.it/mare-a-pietralata-libro-claudio-orlandi/e/9788898960378): «Eppure esistono ancora artisti ostinati che poeticamente continuano a creare sul margine, senza pretendere nulla, orgogliosi della loro irriducibile diversità». E Orlandi lo dichiara esplicitamente: “Viviamo ai margini / il margine vive di noi” (p. 20). Conosce pedestremente i luoghi in cui vive, girando a piedi, in bici oppure prendendo i mezzi pubblici periferici, uno per tutti il 211 al quale dedica Lode al 211: “Parte dal nulla / osserva il secondo fiume di Roma / ma forse il primo per inquinamento in Europa / si innerva sulla via / collega Nomentana e Tiburtina / affronta buche ciclopiche / per pochi spicci e pochi passeggeri / tutti rigorosamente residenti a Pietroburgo. / Poi affoga nella Magna Tiburtina / tra piccole forme umane di borghesia / quindi in stazione / dove il mondo sfreccia ad alta velocità / È un eroe. / Passa poco”.
L’amore per il suo quartiere dove “i cieli scoppiano di salute” (p. 50) e la passione per la scrittura sono consustanziali, perché “interagire con la realtà” (Perché dovrei scrivere, p.16) è il suo obiettivo di vita e poetico, e (Ardentemente, p. 63) “tutto quello che possiamo fare è intensificare la nostra attività poetica / il resto sono previsioni del tempo”. Il suo fervor creativo e la sua forma poetica, scabra ed essenziale, senza inutili orpelli, trovano origine nell’aderenza al suo territorio periferico romano e, in parte, anche a quello abruzzese per via dei legami e delle radici familiari e per predilezione. Tutto ciò è dichiarato a chiare lettere nella poesia La mia scrittura è un sasso (p. 13) che apre la raccolta: “Terra di terra, peso su peso / Far fluire l’acqua / Ma è liquame torbido e fitto / Caviglia su caviglia / Polso su polso / Anziani si muovono poggiandosi su stampelle rudimentali / Così le mie parole avanzano lentamente, aratri legnosi. / Lascerò le forme belle ai nuotatori sublimi dalle spalle larghe / I muscoli allungati. / A me la chiatta dei navigli, le cisterne dei carghi africani. / Il mio tempo è il tempo di ora / Le mie sillabe le forme del giornalaio / Pesanti misure senza grazia / Il tronco di un bosco abruzzese”.
Un altro aspetto che caratterizza il fare poetico di Claudio Orlandi è la sua “visionarietà”, con i piedi ben piantati nella realtà del quotidiano, nel suo amato quartiere e nella sua casa perché “la grande poesia risiede al quinto piano” (p. 75), perché, confessa il poeta (p. 65) “ho bisogno di un albero / che mi capisca / lasci crescere le mie fronde / germogli lucenti. Perché (A Pietralata leggeremo la fine del mondo e la sua rinascita, p. 68), e proprio lì “lasciando accesa la luce della camera” (…) Alla spalla del mio letto le sorgenti del Nilo / nelle mie gambe il Rio delle Amazzoni / copioso inonda la pianura / fino alla tua casa in campagna / accovacciata tra gli alberi di olivi”.
Il timore di un “crollo nel nulla eterno” (p. 69) “perché le bombe sono ancora tutte / nell’arsenale”, sorge nel poeta facendo un giro nell’isolato dove abita ed è visto attraverso gli “occhi spauriti di alcune persone lontane” (a bordo dello sferragliante 211) mentre egli si immerge nell’incanto del suo parchetto pubblico di via Pomona, chiuso per lockdown, dove giganteggia un suo albero “in un silenzio maestoso e assolato” dominato da un meraviglioso canto di uccelli e dove riscopre “la voglia di esistere ancora”. Segnalo infine, in tema di visionarietà, Stanotte ho sognato di avere un cavallo in macchina (p. 71) – nel cui comportamento viene spontaneo individuare quello dello stesso poeta -, che si libera dalla prigionia dell’auto in cui è costretto, si fa un giro e sfila davanti al bancone di un bar e poi se ne va in un prato, bellissimo nella sua corsa.
Lasciano il segno nella memoria le sue poesie d’amore, di cui citerò solo pochi versi per invitare alla lettura: in “Un giorno” (p. 22): “la tua testa nelle stelle non mi lascia dormire”; in “La terza guerra mondiale” (p. 47): “L’amore è un albero di limoni in una tazzina da tè (…) L’amore è bere quel tè insieme a te / mentre fuori scoppia la terza guerra mondiale”;
Gli affetti più cari sono racchiusi (p. 59) nella poesia Esperienza (“esperienza della morte”, sottolinea il poeta): “Mia madre non voleva morire, sperava di guarire da un male / ma è morta. / Mio padre voleva morire, e c’è riuscito / è morto andando via in silenzio. / Mia nonna doveva morire perché gli anni erano tanti /ed è morta salutandomi con un cenno della mano / dopo l’ultimo bacio”. Due toccanti poesie (pp. 54 e 55) sono dedicate alla amatissima nonna (“Non eri una donna in poesia / ma in prosa, una prosa costante e battente…).