Inquieto, non consolatorio, allusivo l’ultimo libro di poesia di Anna Maria Curci, già dal titolo quasi in antilogia: Nei giorni per versi, un luogo-tempo (Nei giorni) attraversato da versi, o un luogo-tempo perverso per un distanziamento (per versi) grafico inavvertito.
Si sgrana ed è fissato in CLXXIII quartine di endecasillabi sciolti: constatazioni, riflessioni, emozioni spezzate o, raramente, lasciate libere («Al portatore d’acqua non si chiede / di narrare di sé e della sua fonte. / Sorda sete che s’avventa sul secchio / scansa polvere suole e passi stanchi.», V), sensazioni (sussulti, scatti corporali), sentimenti di indignazione, amore per la vita, sconcerto per la sua sacralità offesa evocata da scarti di cronaca. E, inoltre, vocativi rivolti alla lingua («Taci adesso, compagna mia rabbiosa, / tu lingua che vuoi essere fedele, / a cosa poi, soldatino di stagno, / il cuore tuo l’ha già dimenticato.», LXIV), e a metri e ritmi della poesia (mottetti, ditirambi) a esorcizzare presenze e assenze dovute alla denutrizione dei per-versi (cattivi, indifferenti, assurdi) tempi correnti, alla sottrazione di radici vitali a contrastare le quali insufficienti sono memoria e ricordo, ma necessaria e irriducibile si fa la poesia.
I versi scavano il nucleo del pensiero poetico chiamando conoscenze e richiamando esperienze, studi e reminiscenze, legando o fermando la sostanza dentro pensieri che vanno a formare il senso di un agire o di un non agire, di accensioni di desideri e loro spegnersi, di accostamenti a una possibile verità esistenziale e suo cadere, di tentativi sempre spostati in avanti come lucciole d’incanto venute da fuori e baluginanti ma mai confluenti verso un termine di umanità meno provvisoria, meno consumistica. Meno in perdita, in definitiva.
Vi è, nel passare da una quartina all’altra di Nei giorni per versi, l’ansia di trovare un “punto” da cui partire, la tensione verso un gradino da salire, l’attesa di una risoluzione del conflitto, la scoperta – e quindi l’abbattimento interiore – dello scacco inflitto da un intorno non prossimo al sentire né sostenuto dalla razionalità. Dilavamenti pregressi, testi sapienziali, ricorsi autoriali (tutti appropriati e significativi, come quello a Silvio D’Arzo di Essi pensano ad altro, al Meursault di Camus, a Giuda, a Gorgia, ad altri tra cui alcuni in rimessa da giochi d’infanzia) potrebbero supportare passi e giorni del vivere. Non divenuti essi, però, sostanza del vivere comune, si resta sospesi, claudicanti, nell’attesa indistinta, nell’indugio (nel migliore dei casi) o nel limbo o nel vuoto. (Esempi di quartine: ad libitum). Vale il continuum a insistere, la così detta oggi resilienza, il durare del coraggio, la ricerca pur nella precarietà, la consapevolezza del meno e del più regalato dalla vita stessa o conquistato o fatto proprio nell’abitudine silente del camminare.
E, letterariamente, valgono anche in questo libro ironia e autoironia («Anch’io come in Arcadia vorrei stare / o come Biancaneve nel cartone…», LV), già stilemi dell’autrice romana in Nuove nomenclature e altre poesie del 2015. Anna Maria Curci muove le due figure in contrappunto, generando amarezza (per un tutto esistente, o che sembrava esserci magari in speranza, scomparso o in sparizione), guardando la realtà, constatando l’andare e il tornare senza sosta con qualche inganno e poche soglie di riposo.
Diretto all’esterno il riso amaro vela, ma non nasconde, il lieve scoramento. E attinge, perché forse chiarore di certezza, antidoti nell’amore (i tolstoiani Andrej e Marja, CXXV), nelle risorse dell’individuo (CXXXIII), nella devozione agli affetti parentali, nel diario delle loro giornate laboriose (passim), nella tenacia della formica e, perfino, nell’illusione vanesia della cicala, nella eterna narrazione di Sheherazade.
La dissipazione dei giorni si fa lucida alla coscienza, ma non giunge all’abbandono della propria esistenza: «Man mano che s’accende lume a lume / sostiamo nel silenzio che rapprende / lo squarcio all’improvviso rivelato. / Noi che veniamo al mondo lacerando.» (CLXXIII).
La quartina chiude la raccolta. Come tutte le altre che la precedono, la sua posizione non è puro caso: lume, squarcio, rilevazione, lacerazione. La clausola afferma e sottolinea le coordinate del tempo che è dato, che si snoda ininterrotto fino alla «sera sopraggiunta» (CXXXIII). Tempo che va e che, non lasciato al suo vento, va attratto a sé e riempito.
Anna Maria Curci, Nei giorni per versi, Prefazione di Patrizia Sardisco, con una Nota dell’Autrice, Osimo, Arcipelago itaca, 2019, pp. 108 € 13.50
Maria Lenti
18 novembre 2019