di Anna Elisa De Gregorio
Sul limite del silenzio questa (preziosa nella sua brevità) nuova raccolta di Francesco Indrigo, la quarta dopo Matetâs (Nuova Dimensione 2001), Foraman (Campanotto 2005) e Foucs (New Print Edizioni 2008).
Preziosa fin dalla copertina fatta di piccole tessere ognuna divisa dall’altra da una sottile “rima”, schema di un più compiuto, discreto pavimento.
Il libro si divide in due ante, la prima Revocs, la seconda Di tiara a formare la porta d’entrata in un mondo per pochi (vocazione della poesia), all’insegna della “riduzione” e “della frugalità” di rara, incantata bellezza.
Senza quasi titoli, senza quasi punteggiatura, grande spazio per l’ombra, per l’accenno, nella “stagione” dell’uomo più intensa e complessa, l’autunno. Un “rendiconto” scritto nella solitudine: la solitudine è già lavoro, è già vocazione, è il modo di essere e di lavorare del poeta. Solitudine parallela alla fanciullezza: “grande, intima solitudine, come da fanciulli si fu soli”, avverte Rilke.
Le composizioni della prima sezione hanno come filo conduttore “l’inafferrabilità” con intuizioni poetiche folgoranti, quasi brevi haiku di totale perfezione.
Inafferrabilità dell’amore, vento che sfiora, vetro di finestra che specchia il sogno, il tutto in versi brevi e sorprendenti enjambements: «Varda li’ lastris/ch’a ti spielin intant/ch’i ti ti vardis,ch’i ti/ti comedis i caviei/e il vardâ,/ lôr a san di nun.// Scolta il cisicâ da li’/ parèts dulà ch’i ti pois/ li’ spalis e il sornèli a tana dal mont, lôr a san di nun». (Osserva le finestre/ che ti specchiano mentre/ ti scruti, ti/ aggiusti i capelli/ e lo sguardo,/ loro sanno di noi.// Ascolta il sussurro delle/ pareti dove appoggi/ le spalle e la fronte// a riparo del mondo,/ loro sanno di noi).
Misura del desiderio che è già “res amissa”: «Dut al à ’na misura:/ il sal, la cuarda, la domenia/ matina e la stradèla/ dovor cjasa. ’I stai sintàt/ tal murèt a viodi la coriera/ passâ, che tant ’i sai/ ch’i no ti dismontaràs». (Tutto ha una misura:/ il sale, la corda, la domenica/ mattina e il viottolo/ dietro casa. Sto seduto/ sul muretto a guardare la corriera/ passare, che tanto so/ che non scenderai).
Situazioni di understatement, parole che accompagnano mancanze, ma si avviano a un distacco necessario e compreso. Una “serena disperazione”, come direbbe in un ossimoro Umberto Saba, il traslato più tipico e caratterizzante del dire poetico.
La seconda parte è composta di terra, di concretezza, di attenzione all’oggi, così come il titolo preannuncia (Di tiara). All’interno nascono poesie più ampiamente svolte, la parola riacquista carnalità, il verso è disteso, narrativo, ovunque richiami alle origini del “vivente”, che sta qui ed ora, su un piano più basso o anche sacralmente dentro la terra, come i nostri padri. Il tono è a volte struggente, a volte solenne per la reiterazione dei concetti, quasi biblico: «In prin a j era la tiara./ A no ‘ndèrin pichèts e nodârs,/ i parons da la tiara a son vignùts dopu./Me nonu a nol veva tiara./ Me pari a nol veva tiara./La tiara a ju vûs ducju’ doi./»…(In principio c’era la terra./ Non c’erano picchetti e notai,/ i padroni della terra sono venuti dopo./ Mio nonno non possedeva terra./ Mio padre non possedeva terra./ La terra li ha posseduti entrambi.)
L’impegno verso il sociale si fa sentire chiaramente pur nella discrezione che accompagna tutta l’opera; il poeta si cala nelle storie di ogni giorno dove tutto ormai pare “un fuoriluogo” e dove comunque alberga un’ombra di bellezza salvifica: …«E trop fiâr, diu trop fiâr tal cjacarâ dai fantassins,/ un sgruasìt ch’al sturnìs chista lenga ch’a ni môr/ ogni dì di pì, ogni dì di pì, ogni dì di pì.// Ma ’Lessio ’l à cjatatt un pissu di bolp, spaurit/ e di bessol in-ta la boschèta dai Prats Noufs./ ’L’à platàt in cjasa sô e lu nudrìs di not a stelis/ e contis, ch’il vint cuant ch’al monta su, a lu cjati za grant». (E quanto ferro, dio quanto ferro nel parlare dei ragazzi,/ un rauco che stordisce questa lingua che ci muore/ ogni giorno di più, ogni giorno di più, ogni giorno di più.// Ma Alessio ha trovato un cucciolo di volpe, spaventato/ e solo nel boschetto dei Prati nuovi./ L’ha nascosto in casa sua e lo nutre la notte a stelle/ e racconti, che il vento quando si alza lo scopra già grande).
Di questa lingua friulana baciata dalla poesia non c’è da dire altro che racconta se stessa in “gentilezza”. Basta nutrirla di ascolto e cura.
Revòcs di tiara, edizioni Kappa Vu, 2009
01-09-2010