I poetici crinali di Bianca Dorato

di Nelvia Di Monte

Dalla prima raccolta di poesie in dialetto piemontese, Tzantelèina (1984), a questa Signaj, che è la sesta, Bianca Dorato ha saputo mantenere una fedeltà tematica e stilistica inusuale che le ha consentito ogni volta di approfondire e precisare le impercettibili intersezioni tra il proprio mondo interiore e il paesaggio: quelle sue amate montagne, ripercorse infinite volte in un movimento fisico e simbolico che ha affinato i sensi a captare – dentro ogni manifestazione della realtà – l’insondabile offrirsi della vita. “Le sue soglie sono passaggi verso l’alto e verso l’altro. Il suo è sempre un qui ed ora che si converte in ebbrezza di eterno. Le sue costanti sono la frontiera e l’attesa”, afferma Giovanni Tesio nella postfazione. Poesia che si muove lungo “crinali” (figura ricorrente) di elementi contrapposti, di ossimori solo apparentemente inconciliabili. Forse sarebbe più consono parlare di compresenze, di un apparire che richiama o allude a quanto giace nascosto, nell’ombra o nel silenzio; avvertirne la presenza richiede lo sguardo trasparente e l’ascolto attento di chi sa muoversi lungo na travërsera (il sentiero che valica il confine tra luce e oscurità, origine e finitudine, quiete e fatica) fino a sentire paròle sensa vos / che mach grinor a ’ntend, “parole senza voce che solo amore intende”.

Alla solitudine di questo itinerario conoscitivo e poetico corrisponde un atteggiamento del tutto estraneo al solipsismo e all’astrazione. Al contrario, c’è nella scrittura di Bianca Dorato una continua attenzione alla concretezza del paesaggio e alla fisicità di ogni esistenza che la stessa lingua avvalora e testimonia con i suoi toponimi, la sua aspra concisione, le sue circostanziate parole impregnate del trascorrere di stagioni naturali e umane. Dirupi e pietraie, pascoli e abeti, neve e ciuffi d’erba, stambecchi e uccelli, bufera e disgelo… ciascun elemento concorre a delineare un paesaggio reale che diventa un paesaggio dell’anima nell’istante in cui si riverbera nel viandante che ne percepisce i segnali, così che entrambi entrano in risonanza: A l’ha ’d signaj l’invern / – erba d’òr angrumlìa / drinta ’l cristal dla giassa, / o vos sombra ’d crovass / sola për tut ël cel: / póer ëd fiòca an ven / dzora, e a la possa ’l vent. // O ’nt l’ànima na mal / ëspersa che as arvìa: / an costa lus d’ambrun-a / pogne ’d ferìa stërmà (“Ha dei segnali l’inverno / – erba d’oro raggrumata / dentro il cristallo del ghiaccio, / o cupa voce di corvo / solitaria per tutto il cielo: / pulviscolo di neve ci viene / sopra, e lo sospinge il vento. // O dentro l’anima un dolore / struggente che si ridesta: / in questa luce di crepuscolo / pungere di ferita nascosta”).

C’è un’affinità della vita che tutto permea e con-fonde, così la realtà esterna sente e patisce, non per una meccanicistica personificazione ma perché la medesima sacralità giace nelle fibre dell’essere, custodita come le gemme nel gelo dell’inverno e irraggiungibile dré dla sea, oltre il crinale dove solo gli animali possono accedere ma da cui giungono i suoni di una bramosia di vivere che incessantemente si rinnova. Luogo  simile a quell’Aperto – dell’ottava elegia di Rilke – che sta davanti allo sguardo delle creature animali, mentre per l’uomo c’è sempre il mondo e la distanza.
In una scrittura poetica che, di libro in libro, si è andata modulando come la partitura di un’unica sinfonia, forse questa raccolta di Bianca Dorato si caratterizza per il prevalere, in alcuni testi, di umbratili velature che il dolore e la lontananza cercano di insinuare lungo un procedere che, tuttavia, mai dimentica le tracce che incontra né si smarrisce: tra pere e erba i marcio / urosa i scoto / – le mistà freme ’d pera / a son spìrit, e a canto, “tra pietre ed erba cammino / felice ascolto / – le immote figure di pietra / sono spirito, e cantano”.

Bianca Dorato,  Signaj, Interlinea Edizioni, Novara, 2006, pp. 96, euro 10.

01-12-2006