Haiku alfabetici di Mariella Bettarini

Recensione di Gian Piero Stefanoni

 

Ci sono figure il cui grado di maestria, nel richiamo ad un necessario rinnovato rapporto col mondo ripensato nell’indispensabilità dei suoi motivi e dei suoi continui e ripetuti ammaestramenti, resta esemplare nella capacità di ricostruirsi dal basso, nell’umiltà di piccole e grandi rifondazioni che sanno nella lingua aperta delle cose, perché aderente all’ascolto, il respiro non condizionato del fluire. Così questo raffinato, ultimo lavoro di Mariella Bettarini, nome tutelare della poesia e della cultura italiana a partire dagli anni Sessanta, va a ripensare in un tempo segnato nella pandemia da scardinamenti di dinamiche e sistemi non sempre benigni il modo stesso del nostro abitarci, e di dirci ripartendo a proposito di essenzialità da una parola riappresa nella verbosità breve e per questo infinitamente risonante di immagini e riflessioni covate ora come in un mistero d’origine ora, piuttosto, nel loro confonderci entro un gioco che ha proprio in questa sapienza il dono di reimprimerci.

Tutto è stato detto, tutto è stato interrogato, la Bettarini lo sa bene e lo ricorda bene avendo attraversato nella sua esperienza di scrittura modalità più diverse, lei così addentro al Novecento e insieme così aperta allo spirito evocativo e proprio, non imbrigliante della lingua e poco forse, dicevamo, insieme si è avanzati (se non, nel dubbio, pericolosamente statici anche?). Ed allora nel ricominciamento sillabico del nostro esserci adesso, nel tempo e nel ricordo, e nel costume di esserlo appunto con gli altri è come se la lingua stessa riprendesse le redini, ci riportasse come sui banchi della sua scuola, di una esistenza ora pronta a svelarsi nella sua più profonda natura ora a richiudersi secondo disposizioni ed ascolti.

Non sorprende allora, perché inevitabile forse nelle caratteristiche di essenzialità e rispetto e affondo che le pertengono l’uso dell’antica forma dell’haiku nella dilatazione e nella interrogazione alfabetica di temi e proposizioni del vivere. Una forma per lei non nuova, già affrontata in passato ma qui come ben rivelato dalla Vanalesti nella precisa postfazione, la riproposizione è nella “‘ridefinizione’ degli oggetti e dei termini presi in considerazione” nei richiami tematici delle venticinque lettere (quattro in più nell’aggiunta di lettere non in uso nel nostro alfabeto e ciascuna nell’ordine dialogante dei cinque movimenti) grazie anche a una espansione che si richiama direttamente alla voce diremmo, e non solo alla lettura (che allora dovrebbe essere a voce alta) come se poi solo nella sua esplicita dizione e nella sua ripetuta risonanza la riflessione levandosi dal suono e dall’immagine possa compiere e compiersi originariamente e rinnovatamente nel termine richiamato. Vita detta nella tessitura di un amore investito di una luce che ha nella lode e nel dono l’accezione stessa del suo abitare cui ci riporta nel richiamo terrestre degli elementi e delle reciprocità di cui ci nutre, di un abitare e di un abitarci nel grembo che ha cuore e comunione nella identità data dunque dalla lingua, dal suo costituirci a partire da questa comunità.

Questo nel starle dietro risale esemplarmente dal continuo richiamarsi e avvolgersi tra loro dei termini stessi, alcuni dei quali appena usati e riutilizzati da noi nel costume rinato da un’attenzione che viene di qui, dalla illuminata disposizione dell’insieme (vita, luce, dono, elementi, cuore) a dimostrazione di una scienza dello spirito e dell’uomo nel gioco stesso del suo percepirsi e farsi nella sua umanità habitat (non a caso altro termine indagato), umanità nel valore effettivo e profondo della sua incarnata intelligenza e passione solo se richiamata, vegliata e accolta lontana da pregiudizievoli aspettative ed appigli e piuttosto allora, queste stesse, ricomposte e illuminate nella reciprocità di una consapevolezza che in un tempo “mai immoto” non può che venire dalla perdita. Il viaggio allora è in un “avvento ombroso”, annuncio nel quale il nostro mistero in un altro più grande è racchiuso ed allora la sollecitazione, molto classica e assolutamente adesso assai moderna nel suo richiamo ad un futuro compibile solo nella rimozione di ciò che dai codici non ci appartiene, è quello del coraggio, e dell’onestà di una sorte che viene dalla scelta. Da un imprinting di pace che viene dall’esporsi, in Mariella dichiarazione di fede e di vita qui perfettamente sciolta nella sua descrizione: “Quando potei/vidi – scrissi una pace/pace cercando”. Imprinting di fede e di vita che non a caso è lo stesso dei suoi editori, Roberto Maggiani e Giuliano Brenna dietro ai quali si cela il marchio di “Il ramo e la foglia edizioni”, casa editrice romana nata durante la pandemia (a proposito di coraggio!) con la quale si è inteso allargare l’area divulgativa e d’indagine esperita nell’avventura ormai più che decennale de “LaRecherche.it”, sito, rivista, associazione culturale tra le più penetranti del nostro paese (ed in cui già si è sperimentata la cura e l’edizione di testi nella sezione Libri liberi dedicata agli ebook). Autori essi stessi, ben hanno saputo descrivere nel perché del logo motivazioni e direzioni di un progetto a cui si augura quanto auspicato: il ramo e la foglia infatti sono “intimamente in simbiosi: l’uno attinge dal fusto, dunque dalla terra (la tradizione), l’altra raccoglie dal cielo la luce (l’innovazione), insieme definiscono continuità e rinnovamento”. Che straordinariamente è quanto risale dall’affondo della Bettarini, in questa prima pubblicazione (corredata anche, a proposito di raffinatezza, da splendidi disegni di Graziano Dei) nella collana dedicata alla poesia. Un bel matrimonio non c’è che dire, e che ha nello sguardo rivolto a una natura maestra (“Vitale sempre/fedele alle tue leggi”) pratica d’elevazione, e gioia come in questi versi da Foglie:” Quando stormite/con voi l’anima canta”.

Mariella Bettarini, Haiku alfabetici. Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2021.