Ci sono figure il cui grado di maestria, nel richiamo ad un necessario rinnovato rapporto col mondo ripensato nell’indispensabilità dei suoi motivi e dei suoi continui e ripetuti ammaestramenti, resta esemplare nella capacità di ricostruirsi dal basso, nell’umiltà di piccole e grandi rifondazioni che sanno nella lingua aperta delle cose, perché aderente all’ascolto, il respiro non condizionato del fluire. Così questo raffinato, ultimo lavoro di Mariella Bettarini, nome tutelare della poesia e della cultura italiana a partire dagli anni Sessanta, va a ripensare in un tempo segnato nella pandemia da scardinamenti di dinamiche e sistemi non sempre benigni il modo stesso del nostro abitarci, e di dirci ripartendo a proposito di essenzialità da una parola riappresa nella verbosità breve e per questo infinitamente risonante di immagini e riflessioni covate ora come in un mistero d’origine ora, piuttosto, nel loro confonderci entro un gioco che ha proprio in questa sapienza il dono di reimprimerci.
Tutto è stato detto, tutto è stato interrogato, la Bettarini lo sa bene e lo ricorda bene avendo attraversato nella sua esperienza di scrittura modalità più diverse, lei così addentro al Novecento e insieme così aperta allo spirito evocativo e proprio, non imbrigliante della lingua e poco forse, dicevamo, insieme si è avanzati (se non, nel dubbio, pericolosamente statici anche?). Ed allora nel ricominciamento sillabico del nostro esserci adesso, nel tempo e nel ricordo, e nel costume di esserlo appunto con gli altri è come se la lingua stessa riprendesse le redini, ci riportasse come sui banchi della sua scuola, di una esistenza ora pronta a svelarsi nella sua più profonda natura ora a richiudersi secondo disposizioni ed ascolti.
Non sorprende allora, perché inevitabile forse nelle caratteristiche di essenzialità e rispetto e affondo che le pertengono l’uso dell’antica forma dell’haiku nella dilatazione e nella interrogazione alfabetica di temi e proposizioni del vivere. Una forma per lei non nuova, già affrontata in passato ma qui come ben rivelato dalla Vanalesti nella precisa postfazione, la riproposizione è nella “‘ridefinizione’ degli oggetti e dei termini presi in considerazione” nei richiami tematici delle venticinque lettere (quattro in più nell’aggiunta di lettere non in uso nel nostro alfabeto e ciascuna nell’ordine dialogante dei cinque movimenti) grazie anche a una espansione che si richiama direttamente alla voce diremmo, e non solo alla lettura (che allora dovrebbe essere a voce alta) come se poi solo nella sua esplicita dizione e nella sua ripetuta risonanza la riflessione levandosi dal suono e dall’immagine possa compiere e compiersi originariamente e rinnovatamente nel termine richiamato. Vita detta nella tessitura di un amore investito di una luce che ha nella lode e nel dono l’accezione stessa del suo abitare cui ci riporta nel richiamo terrestre degli elementi e delle reciprocità di cui ci nutre, di un abitare e di un abitarci nel grembo che ha cuore e comunione nella identità data dunque dalla lingua, dal suo costituirci a partire da questa comunità.
Questo nel starle dietro risale esemplarmente dal continuo richiamarsi e avvolgersi tra loro dei termini stessi, alcuni dei quali appena usati e riutilizzati da noi nel costume rinato da un’attenzione che viene di qui, dalla illuminata disposizione dell’insieme (vita, luce, dono, elementi, cuore) a dimostrazione di una scienza dello spirito e dell’uomo nel gioco stesso del suo percepirsi e farsi nella sua umanità habitat (non a caso altro termine indagato), umanità nel valore effettivo e profondo della sua incarnata intelligenza e passione solo se richiamata, vegliata e accolta lontana da pregiudizievoli aspettative ed appigli e piuttosto allora, queste stesse, ricomposte e illuminate nella reciprocità di una consapevolezza che in un tempo “mai immoto” non può che venire dalla perdita. Il viaggio allora è in un “avvento ombroso”, annuncio nel quale il nostro mistero in un altro più grande è racchiuso ed allora la sollecitazione, molto classica e assolutamente adesso assai moderna nel suo richiamo ad un futuro compibile solo nella rimozione di ciò che dai codici non ci appartiene, è quello del coraggio, e dell’onestà di una sorte che viene dalla scelta. Da un imprinting di pace che viene dall’esporsi, in Mariella dichiarazione di fede e di vita qui perfettamente sciolta nella sua descrizione: “Quando potei/vidi – scrissi una pace/pace cercando”. Imprinting di fede e di vita che non a caso è lo stesso dei suoi editori, Roberto Maggiani e Giuliano Brenna dietro ai quali si cela il marchio di “Il ramo e la foglia edizioni”, casa editrice romana nata durante la pandemia (a proposito di coraggio!) con la quale si è inteso allargare l’area divulgativa e d’indagine esperita nell’avventura ormai più che decennale de “LaRecherche.it”, sito, rivista, associazione culturale tra le più penetranti del nostro paese (ed in cui già si è sperimentata la cura e l’edizione di testi nella sezione Libri liberi dedicata agli ebook). Autori essi stessi, ben hanno saputo descrivere nel perché del logo motivazioni e direzioni di un progetto a cui si augura quanto auspicato: il ramo e la foglia infatti sono “intimamente in simbiosi: l’uno attinge dal fusto, dunque dalla terra (la tradizione), l’altra raccoglie dal cielo la luce (l’innovazione), insieme definiscono continuità e rinnovamento”. Che straordinariamente è quanto risale dall’affondo della Bettarini, in questa prima pubblicazione (corredata anche, a proposito di raffinatezza, da splendidi disegni di Graziano Dei) nella collana dedicata alla poesia. Un bel matrimonio non c’è che dire, e che ha nello sguardo rivolto a una natura maestra (“Vitale sempre/fedele alle tue leggi”) pratica d’elevazione, e gioia come in questi versi da Foglie:” Quando stormite/con voi l’anima canta”.
Mariella Bettarini, Haiku alfabetici. Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2021.