Fuorivia, l’ultima raccolta di Luigi Manzi

Recensione di Annamaria Ferramosca

 Proponiamo qui di seguito, preceduti dalla magistrale lettura di Annamaria Ferramosca (26 luglio 2013 in Patria Letteratura) alcuni testi di Fuorivia (Edizioni Ensemble, 107 pagine, 15 euro) raccolta delle poesie più recenti di Luigi Manzi, terzo volume della collana “Erranze” diretta da Gëzim Hajdari.

Che il poeta Luigi Manzi, da molti anni estraniatosi da qualsiasi consesso-gruppo-accademia, mantenga tenacemente il proprio percorso “fuorivia”, è ben noto. Ed è pure motivo di soddisfazione, per chi da tempo segue e apprezza la sua scrittura, leggere quel che oggi ne scrive il poeta e direttore di collana Gezim Hajdari in retrocopertina, sottolineando la singolarità di Manzi come poeta esule nel proprio io centrale e annoverandolo tra gli ultimi grandi poeti classici italiani.

Del resto già nel lontano 2004 Manzi aveva dato titolo ”Fuorivia”alla terza delle sette sezioni della raccolta Mele rosse, (Kepos edizioni, Roma), così che riproporre lo stesso titolo in quest’ultimo libro è confermare la forte determinazione di un cammino poetico sentito come libera militanza intellettuale interiore, fuori da ogni logica di visibilità, teso a scavare nell’inganno  di una modernità in inarrestabile declino.

E’ noto come Il filtro personale del mondo che è alla base di ogni poetica, non possa che restare costante al fondo di una scrittura, ripetendosi in varianti in ogni opera, dando luogo alla cosiddetta cifra personale del poeta. Ebbene, in questo nuovo libro di Manzi si ritrova ancora quella “poesia dall’“etica fulminante, chiusa nelle piccole azioni, che proprio perché piccole vanno contro ogni miserabile minimalismo”, che Gian Piero Bona descriveva nella presentazione di Mele rosse. Anche in queste pagine si succedono, come sospese nel tempo, brevi scene polifoniche, dove le voci sottili di pietre e viventi tessono un dialogo largo, totale, inusitato, con l’umano e con l’oltre. Dove l’ascolto anche delle pause e dei silenzi si riempie di significato. Manzi è di sicuro consapevole dell’affermazione di Hoffmanstall, che “la profondità è nascosta dietro ogni superficie”, che ogni oggetto reale o visione apparentemente chiara, definita, sottende una sottostante verità che solo un’acuta sensibilità può raggiungere, indagare, restituire.

Fuorivia nasce da una visione disillusa della vicenda umana e da una più acuta percezione della dimensione effimera del tutto, proseguendo il canto eliotiano della desolazione. Ma queste pagine tradiscono pure una consapevole contraddizione tra  la salvezza ancora forse possibile di un passato sconvolto dalla modernità e di una natura violata, e la percezione amara di un’irreversibilità, un’apocalisse incombente, un destino segnato. Nel testo “Meandri” appaiono chiare le due scene contrapposte: la terra dei padri, le loro figure che guardano come da dentro un fotogramma, e quella natura ancora indenne, vergine, pànica, e a fronte la città opaca dell’oggi, quella dei dispersi, colmi di livore, che cercano un disperato rifugio dall’inarrestabile degrado.

Luigi Manzi crea in questa silloge un’architettura salda di amarezza e luminosa di epifanie. I titoli delle sezioni come limpide chiavi tematiche: una “Siccità”, che richiama l’inaridirsi dell’umano, un territorio di “Arbusti”, come residuali moti vitali,  poi il cumulo di “Sedimenti” lasciati dalla vita nell’estinguersi, che si vagliano per coglierne i “Detriti”, desolate riflessioni su ciò che resta, intuizioni di un cupo futuro.

Un esempio della costruzione perfetta dei testi, che fonde visione-senso-ritmo in un unicum che persuade per compiutezza (pur non afferrandone il lettore tutte le vibrazioni), è il testo “L’eco”, che Manzi pone, non a caso, in apertura. L’intera composizione ha il nitore e l’efficacia di una rivelazione. Si avverte  tutta la tensione all’ascolto dei segni visivi e sonori che nei primi due versi evocano l’atemporalità di una scena cosmica; seguono tre versi che rompono il ritmo attraverso l’eco del cane forestiero, richiamo al frastuono-disordine dell’oggi. La scena sembra di nuovo rasserenarsi con la successiva percezione di qualcuno(un  tu, amico o amica in cammino, che si assimila ad un viandante (noi tutti pellegrini alla ricerca di senso) che si assopisce cantando (la parola resta l’unico mezzo capace di spargere conforto).

Un testo dunque che è spia tematica-formale del libro, quasi compendio. Ma anche accattivante invito ad inoltrarsi nei tornanti di Fuorivia, che nella sezione Siccità apre il versante arido e disfatto della contemporaneità. Con essa bisogna convivere, attrezzandosi con gli strumenti del rispetto dei ritmi naturali, della conservazione della memoria, e insieme accettando di far parte di un ineluttabile ciclo.

Tutto è visto come da un occhio umano e insieme cosmico; gli stessi  testi sembrano mantenersi contemporaneamente dentro e fuori le rovine, come  indicanti dell’errore umano e insieme di un possibile  ravvedimento che inverta la corsa verso il precipizio. Questa possibilità è spesso lacerata dalla disillusione che spegne ogni sprazzo di speranza.

Ogni  poesia offre un flusso di immagini dalla natura in disfacimento come riflesso della città corrotta, i cui miasmi opacizzano i chiari aspetti naturali capovolgendoli in eventi-presagio della  fine.

La corrotta città fumiga

senza un foro sui muri ,

e nemmeno un orizzonte.

(Il sorbo, pag.13)

La singola scena può perfino apparire miraggio di se stessa, tanto acuto è il senso di disconnessione, di assenza.

…Possibile

che il bimbo

che trascina l’oca al guinzaglio sia scomparso persino

laddove è rimasto?

(Neppure, pag.14)

Costante lungo le pagine è lo sguardo al passato. Figure di progenitori  pro-teggenti come antichi lari, la cui  scomparsa dalla memoria produce fiero senso di sperdimento.

Avverto nel rimbalzo

Oltre la nuca, lo stupore di chi

Apre la porta e cade. Ma solo che mi volto,

scompare persino la mia stanza

e allora mi ritrovo

incerto, evanescente; senza una misura,

privo di sostanza.

 (Nella stanza, pag.15)

Le creature arrivano ad inscenare forme di suicidio, perfino, per  fame di senso.

…La poiana ascende, colore di selce,

turbina nell’assalto.

Ha catturato se stessa,

e ora s’ingozza.

 (Afa, pag.16)

Si succedono quadri dell’invivibilità totale (Città, Insegne, Periferia), che non risparmiano neppure l’amore, visto come contrasto tra l’isola distesa dell’offerta femminile senza  riserve e l’assenza emozionale-comunicativa dell’uomo( Solstizio).  E, prevedibile,  appare anche la riflessione sulla condizione di esilio insita nell’essere poeti ( L’ospite), dove il poeta è, appunto, l’ospite malvisto e allontanato dalla città, nonostante sia l’unico capace di acuto ascolto e visione, condannato ad essere ascoltato solo dai dispersi oppure da coloro che in silenzio procedono sul bordo ( dove il bordo è immagine dell’oltre, territorio del dissolvimento e del raggiungimento della verità).

Il linguaggio di Manzi ha in questa sezione una forza scultorea, capace di definire ogni scena  grazie ad un lessico nitido, scandito in frasi brevi, di sapore oracolare. E ogni scena emerge come in  una videosequenza  muta –eppure densissima – di immagini sospese nel tempo, di  forte potere evocativo, una mitopoiesi che accade, per citare solo due esempi, in Controra (pag.25), o in Tornanti (pag.29).

A tratti si potrebbero riconoscere , come nessi assimilati di pensiero e ritmo(vastissima è l’esperienza di lettura di Manzi, e note le sue predilezioni di grandi del Novecento) orme di Caproni, Palazzeschi, Gatto, Penna, Sereni, Bodini, forse anche il più recente Pusterla… ,ma  con la necessaria  considerazione che Luigi Manzi  mai punterebbe all’acquisizione di una sensibilità “professionale” di poeta, ma  solo e sempre a quella, comune e onesta, di uomo. Ne è prova  il lascito scarno, limpido e colmo di umiltà, nel definire la propria una inutile storia (Ombre, pag.82).

Nella seconda sezione “ Arbusti”, lo sguardo più spesso dilata lungo spazi abitati, dove il tempo è però l’elemento invincibile, l’ossessione che spinge il poeta a confinare ogni luogo, ogni moto, in una fissità quasi sacrale, che contrasti l’effimero. Una tensione incoercibile a fermare il tempo, annullarlo, avere l’illusione di dominarlo, per restare -paradossalmente,” parola- senza tempo”.

Così vediamo consegnare al rito dell’immobilità la figura della donna che si ama

Appena ti stringo sul petto resti inumata, docile, assorta

(Le luminarie, pag.45)

e le figure dell’infanzia:  il ricorrente monello autobiografico o i bimbi in fila

…correre a perdifiato

dietro un cerchio perfetto.

(Il sillabario, pag.50)

E questa assenza di storia, o narrazione, di azione-interazione, è forse l’impronta – ipnotica – di questa poesia, che procede scarnificata, essenziale, in un flusso vitale ridotto a scena-oltre-il-tempo, puro movimento, segmento della  spirale effimera che tutto comprende.

Un’apertura inaspettata  viene offerta al lettore nella terza sezione “Sedimenti”. E’ la luminosa lode alla donna di ” Nell’aria”, già preceduta, due testi addietro, dall’intenso canto di “Altera”.  Questi due testi, che sembrano isolati e davvero” fuorivia” rispetto a tutti gli altri della raccolta per impeto, felice intonazione e pienezza dispiegata di canto, rivelano una sorta di resistenza  del poeta al buio dilagante, una spinta a sopravvivere alle macerie, che agisce attraverso la fiducia nel vitale femminile che gli resta a fianco. La scrittura procede poi lungo testi via via più astratti, volutamente enigmatici, come a rispecchiare l’approssimarsi dell’umanità al margine irrevocabile…  Anche la figura femminile, qui più presente, oscilla tra seduzione e  inafferrabilità, metafora di una realtà viva che prelude alla fine.

Le immagini dalla terra e dal passato acuiscono la consapevolezza di un destino ineluttabile, e lo stesso poeta appare immedesimarsi nell’anziano che manifesta la propria gratitudine alla vita e alle sue meraviglie esperite (Il recinto, pag. 75 ) e nell’Ofelia-umanità sazia del viaggio, destinata a dissolversi nel ciclo eterno della natura (Nello stagno, pag. 76 ).

E, come prevedibile dall’architettura  del libro, l’ultima sezione appare quella dell’immersione del poeta nell’insondabile mistero cosmico, trascinatovi  dal preveggente intuito della sua compagna. E’ lei che spalanca la porte, e il poeta le oltrepassa:

…e se poggio il capo

sul tuo petto , cado atterrito

nel tuo stesso precipizio.

(Notturno, pag.81)

Ma pure emerge, tra queste ultime poesie, il canto intenso dove, nello splendore dell’umiltà, il poeta riconosce tutta la propria limitatezza di fronte all’impenetrabilità dell’universo, definendosi  inadatto e ovunque fermo (Un giorno, pag.83).

Hybris (pag.85) è poi  la poesia “paradigmatica” di questa visione, dove natura, moti umani e creaturali  e galassie si mescolano, e ogni entità finita e infinita si confonde nella fatale oscurità del futuro . E’ questo il solo senso che ci è dato raggiungere.  Materia e vita sembrano essere investite, non da un’armonia universale, bensì  da un destinato  disordine come una maledizione , e questo pensiero in Manzi rende la scrittura volutamente criptica, perché anche inconsciamente, sullo scriba dagli occhi di fluoro agisce l’amara convinzione  che ogni evento sia incluso in una cieca insensata spirale. Lo splendore effimero dei corpi,  l’umanità alla deriva, la cieca violenza sull’infanzia e di ogni guerra non fanno che confermarlo. E Il presagio di buio apocalittico continua con il riproporsi vacuo dell’umano patteggiare con le belve ( L’araldo, pag.99).

Eppure questa poesia invoca, nel suo inconscio farsi e anche in esplicito, come unica entità consolante e da proteggere, la “parola, capace di risorgere nonostante colpi e minacce.

Infine, pur riconoscendo che un libro di poesia come questo merita più letture per coglierne i vari piani di fruizione, propongo di indagare i primi versi del primo testo egli ultimi dell’ultimo come segnali rivelatori. Così si scopre:

un incipit che si identifica con l’invito all’ascolto delle voci sottili dalla vita, dal passato, dal cosmo

Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato/E il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto

e una chiusa che dichiara l’irriducibile potenza della natura, perenne misterioso cerchio che ci muove.

Unica, avverto la felce /che cresce i germogli /dentro il pugno

Una poesia, questa, di limpidi segni universali. Orme lasciate per chi limpidamente voglia/possa seguirle.

 

L’ECO

Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste
e s’arrovella.

Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei passi sul selciato
rimandati dall’andito.

Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.

 

AL MERCATO

Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette –
un gomitolo.

 

IN SENO

Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.
In seno a te riposo,
mio sobborgo disossato; mi ristoro
dai viali occlusi, dalle trombe altisonanti
sulle guglie.
In te riaffìoro sgombro d’ogni assalto
o contumelia.

E quando ritorno qui, fra gli alti
spigoli di roccia,
provo il volo con la mente,
quasi fossi
di nuovo ritto
in cima al picco, felice quanto
un avvoltoio.

 

LE LUMINARIE

Le insegne, le luminarie diffratte
che iniettano la luce isterica.
Il verde friabile delle lampade al sodio sui viali deserti.
Odora di siero il tuo labbro, il seno
di pece nera.

Stanotte non c’è lussuria più dolce
della tua lingua molle, della saliva che scivola
in fondo alla bocca.
Appena ti stringo sul petto resti inumata, docile, assorta;
e al culmine del desiderio
cadi nel sonno
come una testuggine capovolta.

 

SERA

Già riappare in lontananza
la città di marmo:

muta si riforma fra i vapori gelidi
come nel vetro d’un’ampolla.

Intanto, le gru sorvolano il cielo di Chagall;
si muovono oscillando
nel suo rosso, nel suo azzurro.

 

Luigi Manzi è nato nel 1945. Vive a Roma. Ha esordito in Nuovi Argomenti nel 1969. Ha pubblicato le raccolte di poesia La luna suburbana (1986), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), Mele rosse (2004), Fuorivia (2013), con note introduttive, rispettivamente di Dario Bellezza, Dante Maffia, Giò Ferri, Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Gian Piero Bona, Gezim Hajdari. E’ stato tradotto in varie lingue e antologizzato in Rosa corrosa (2003) traduzione macedone di Maria Grazia Cvetkovska (pref. A. Giurcinova); ne Il muschio e la pietra (2004) traduzione albanese di Gezim Hajdari (pref. P. Matvejevich). E’ presente in varie antologie. Ha vinto vari premi letterari, fra i quali il Premio Internazionale Eugenio Montale per l’edito; il premio Alfonso Gatto; il premio Franco Matacotta.