Francesco Dalessandro è nato nel 1948. Vive a Roma. È stato tra i fondatori e redattori della rivista di letteratura “Arsenale”, diretta da Gianfranco Palmery. Ha pubblicato sei libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (con una nota di Elio Pecora – Barbablù, Siena, 1983); L’osservatorio (Il Labirinto, Roma, 1989, e Caramanica, Marina di Minturno, 1998), finalista “premio Dario Bellezza”, V Edizione, 2000; Lezioni di respiro (Il Labirinto, Roma, 2003), segnalato al “premio Attilio Bertolucci”, I Edizione, 2004 e finalista “premio Frascati”, 2004; La salvezza (Il Labirinto, Roma, 2006); Ore dorate (Il Labirinto, Roma, 2008); Aprile degli anni (Puntoacapo, Novi Ligure, 2010) e cinque libri di traduzioni: Wallace Stevens, Domenica mattina; Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese; Gerard Manley Hopkins, I sonetti terribili; George Gordon Byron, Il sogno e altri pezzi domestici; John Keats, Sull’indolenza e altre odi (tutti per Il Labirinto, Roma, rispettivamente 1998, 2000, 2003, 2008, 2010). Altre traduzioni su rivista dal latino, dall’inglese e dallo spagnolo. È da poco uscita, per Moretti & Vitali, una riedizione aggiornata de L’osservatorio con una testimonianza di Attilio Bertolucci e un breve saggio di Gianfranco Palmery.
Le poesie di Francesco Dalessandro
Latte e sonno
Nevicava. Cadeva anche la notte
su case e strade e al lume delle prime
lampade i fiocchi sembravano gocce
di miele trasparenti. Nella buia
cucina ardeva un fuoco sazio. Latte
caldo e sonno bevevo a una schiumosa
tazza mentre mia madre che cuciva
e raccontava storie era ai miei occhi
torbidi perché da stanchezza chiusi
rosa e blu nel riverbero del fuoco
e nelle tenebre fredde oltre la scala
che ora avrei salita per andare
a letto e per sognare anni futuri
fiorire presto di bellezza e d’ansia.
Nasceva da innocenza o impudicizia
puerili il turbamento che bambini
cugini scoprivamo in quei mattini
di neve e gelo quando appena usciti
dal sonno infreddolita mi stringeva
e toccava aspettando che le tazze
schiumose e calde della colazione
fossero pronte? Se in quelle carezze
non c’erano intenzioni né malizia
perché scaldando il latte sulla stufa
nuova dalla cucina “non toccatevi!”
nonna intimava? Se era solo il primo
ingenuo incanto perché quel piacere
intenso e breve mi tremava dentro
come paura?
I racconti
Neve e notti svegliavano i racconti.
Io, che allora vivevo il tempo incerto
dell’infanzia, seduto nelle lunghe
sere d’inverno con altri bambini
minori d’anni inquieti accanto a madri
e zie giovani intorno alla stufa,
ascoltando la storia lacrimosa
di Genoveffa e di come tradita
e abbandonata in un’orrida selva
alla pietà d’una giovane cerva
dovesse vita e nutrimento per sé
e suo figlio neonato, avrei dovuto
imparare a discernere tra bene
e male…
Appresi le virtù educatrici
della paura (portandone a lungo
a lungo dentro ferite vive e mai
mai del tutto sanate) mentre il pianto
sgorgava naturale da quei cuori
semplici a consolarli di disgrazie
più vere e grandi d’ogni loro vera
pena poi che il racconto la rendeva
più banale e più misera legata
a stanchezza delle ossa che il riposo
presto avrebbe curata mentre era
morale l’altra e solo nel castigo
provvidenziale del peccato avrebbe
trovato il suo riscatto il suo condono.
Ombre
per Attilio Bertolucci
“Io dove vado poi che m’allontano
da voi nell’ora temperata e quieta
della sera? Con passo svelto elastico
(di voi chi m’accompagna ombre perdute?)
dove sono diretto mentre il silenzio
nella mia mente aggroviglia un nodo
di pensieri dolenti e irragionevoli
che invece di frenarmi mi sospinge
più avanti verso il buio della notte
quindi dove la notte si schiarisce
nel chiasso cittadino che ingombra
le piazzette notturne e le feconda
poi che nessuno più m’attende o cerca
o domanda notizie o le dispera?”
Per quale porta o suburbano varco
il tuo cuore spaurito fuggirà
dalla crescente onda che l’incalza
e ne minaccia al polso il sordo battito
costante anche se l’ansia lo sfida
e ne accelera il ritmo se avrai
attraversato in tempo la palude
limacciosa del sonno e dei suoi incubi
e sarai sceso a ristorarti all’acqua
Marcia dietro le mura alte e sovrane
della santa città che è silenziosa
e solitaria come te, eremita
che vai ora per vie nuove ma antiche
già prima d’intraprendere il cammino?
Imitazione
per Attilio Bertolucci, ancora
Se un giorno mi lascerò, fuggendo
da questi viali di platani malati
e lungotevere invasi di traffico,
alle spalle la città nella tua Parma
verrò e salendo ai monti Casarola
raggiunta mi vedrai seduto
sulle sue pietre a piangere il fiore
della tua poesia per sempre caduto,
ma oggi nel caldo di un mattino
di giugno cercando invano parole
che curino il dolore esco in giardino
a osservare la piccola famiglia
di tartarughe – genitori e figli –
sostare quieta in un cerchio di sole.
Questo di tante speranze mi resta
oggi: il calore di un pallido sole
che illude tutti, i testardi animali
corazzati contro le offese naturali
e anche i poveri poeti indifesi
e pieni di un’angoscia che rinnova
il dolore premendo sullo sterno
e soffocando il cuore ma lasciando
la mente presa nella rete dei suoi
ragionamenti… L’estate vicina
già punge con questi primi raggi
domenicali. Non serve e non vale
oggi incidere versi se in giardino
anche il merlo riposa sugli allori.