Ferdinando Falco è nato a Caivano (NA) nel 1936. Vive a Roma. Ha pratica poetica che si snoda dal 1974 fino agli anni Novanta ed altrettanta pratica di narratore con opere solo apparentemente pausa dall’impegno di poeta.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: In lode della magia, Il Messaggio, Gela, 1974, foglio n. 33; Tecnica di settembre, Il Libro, Roma, 1974; La bardana del Greco, Barbablu, Siena, 1980; L’ampiezza a dimora, Messapo, Siena, 1982; Sonetti in forma di poesia, Hetea, Alatri, 1989; L’ombra, “poesia in piego”, Roma, 1990; Piccole esecuzioni, Roma, 1993. Nel 2002 ha pubblicato per le Edizioni Cofine il romanzo Uneide.
Le poesie di Ferdinando Falco
compagni di giuoco all’appressarsi di un tempo di
saccheggio di sterpi di case vuote di sassi di
valve su spiagge squallide e di te che
descritti nei sogni e imparziale il futuro rapporti al re
neghittoso e nel volo di 12 destri colombi sul colle
dove un carteggio di insorti asfodeli transeunti il
luminoso lievitare dei seni Sono eventi che favole sveli
alla vampa del mio focolare io di me cercando la
chiave ti dico la chiave perdio che mai chi non sogna trova
distorto in un giuoco di insetti fra il muro la trave e l’ordito
di chiglie e di antenne del porto che dal futuro mi attende un
giuoco che un gesto scompiglia e di nuovo immutato riprende
salendo essi e schiamazzando animali senza nessi
nel sonno e nel vino pestando papaveri erbe cortecce radici
e discesi impazziti di odori e di amori in tessuti di rami
di gusci di sassi d’antiche mani sfiorate nel
diagramma capovolto della pioggia come nell’ossuto
radore del tuo ventre erompe la mia febbre
fino al trasalimento nei crocicchi dei nervi
tumulati in una carne prigioniera di una camera
infiorata di cuscini tappeti giornali pantofole
calze reggiseni preservativi resti di ostriche polvere di
cantaride fruste punteruoli parrucche barattoli
di talco profumo di muschio e più che selva
odorosa del tuo
violento e corporale odore dai gomiti pendente
Lascia che ti ricordi Sparsi in te la mia passione
umida come nelle vie degli alberi sale fisicamente
ogni linfa terrena e di tutto un monile una
traccia di pallore l’orologio lasciato nel cassetto e
testimone la vena straripata nella fronte Dunque
è così
e dopo un minuto di sapienza immemore
solo di nuovo
(da Tecnica di settembre)
padre di case ancorate a calcare (bamboli nudi ributtano
il giuoco che rotola le noci negli angiporti azzurri
di cui le ombre so dei fichi ai pozzi e lo specchiarmi
nell’acqua del bacile) mai tornerò Già sale con lenti modi
la nebbia dalla via come talvolta fa vento libeccio che gonfia
polvere avanti la tempesta in quella terra chiara che il padre mio
esiliò per pane con nuvole di avviliti uccelli cui infebbra
l’iride il mais i legumi la frutta di stagione fazione che
in vento di fronda malasorte infine tramuta nazione senza
nome dove il polipo brucia di biancori al piede di frangenti
arrivati da fanciulli stillanti umido sale
cauterio da tempi oscuri aperto sapore di ghiarete giro
breve di gabbiani a filo delle spume nella cale e in
quotidiano traffico gente agli approdi Ivi risuona al batter dei remi
il grido dei rapaci che cadono dal cielo ivi mi ammalia ed è usuale
filtro accimato da tortile limone in calcinoso portico Anche oggi forse
è tolta a onta di intelletto che annera i vecchi profuga mandria dalla
mia terra Fanciulli antichi (contrabbandieri fumi su pioppete transeunti
tralicci d’olmi e viti canapa acqua e sole) formiche per
tronchi lacrimosi salgono ai fichi Ah mio grido di dolore senza
inizio e senza fine ti ripeto a scandaglio di cielo simigliante
MERIDIONE mentre si invola astuta
a rifugi disposti in due contrade
la gazza che non si cattura
(da L’ampiezza a dimora)
ti riconosco appena fra zone di memoria salvate dal
diluvio di stagioni più folte scuola di tafferugli umanità
opaca ermafrodita e ti preciso parola mille volte segnata
nuvola sulla pioggia senza meta e non diversa in
analogici maestri benché tre volte ti abbia usata con
malizia (sgomento di – disagio di – pudore di) con chini
occhi al fianco e una rossura opportuna figuri
l’indifferenza il disordine che accomuna gli oggetti
alle ombre loro e a quella loro cenere in un regno di
diaspore parola tentata quotidiana maniera di sapersi
Perdonate pertanto l’errore di graffito la grammatica
convertita alla sommossa e la sintassi inusuale ma
non perdonate che l’albero
non albero nella parola sia
(da L’ampiezza a dimora)
sempre caro mi fu quest’ermo colle
che s’erge appena fuori del paese
ed un querceto copre le sue zolle
fra cui si fanno una omissis al mese
le ninfe e i satiri di qui nel folle
desiderio che prende con pretese
legittime di dar duro nel molle
(sia chi sia a farne poi le spese)
E non voglio da quinci allontanarmi
Qui siedo Qui mi spasso Qui rivolgo
pensieri fra di me Qui le zanzare
con sottili mi pungono lor armi
mentr’io dal cielo il guardo non distolgo
E il naufragar m’è dolce in questo mare
(da Sonetti in forma di poesia)
che pomeriggio e che giardino tetro
con musa di maniera avresti detto
e quanti rami intricano sul vetro
Ma né l’oscura spezzata del tetto
sarà per la memoria un giusto metro
né il melo sfiorirà nel grigio letto
del marciapiede illuminando il retro
solitario di questo palazzetto
quando mani chirurgiche entreranno
con le dita di uranio e di cobalto
a liberare gli atomi rinchiusi
nella lampa che ignari strofinammo
e questo mondo perderà il suo smalto
e saremo negati a tutti gli usi
(da Sonetti in forma di poesia)
acido assurdo ferdinandofalco
Stanno per chiudere e non se ne avvede
Tolgono sedie e tavoli dal palco-
scenico a pois del marciapiede
Ripiegano la tenda e non li vede
Ammazzano l’insegna tesa ad arco
sul nulla e sull’oscuro e non ci crede
Si fa l’ultima bionda sotto l’arco
di nuvole a festuche che lo ammaliano
come un ultimo dono a lui concesso
perché a un bel fumo che si innalza in aria
e presto si disperde aria esso stesso
e in aneliti eccentrici divaria
si sente e dunque si confonde spesso
(da Sonetti in forma di poesia)
Schiudesse gelosie e chiamami
– inazzurra
scarpetta di madonna –
asfalto di via Clelia.
Rondini stallano,
seguite da garriti,
da chiaro interasse
fra cimase.
Un volo
dirigo
(che si sa dell’uccello
migrato che non torna?)
di te mi calamito
in terra piovosa
Ecco la mia fortuna: ancora
il marciapiede accolga
il ragazzo, riverso
da sassata dolorosa.
(da Piccole esecuzioni)
Ti conosco, paese
che ricetti grasse volpi.
Di sole e di vino t’infebbri
al tempo che la canapa è tagliata
e amari braccianti rincasano
con talpe accappiate a canne
dritte nei chiari e scuri della sera.
Conosco i tuoi meriggi silenziosi
scanditi dai colpi del carraio.
(S’interrano i tratturi
fra muri a calce e viti
sugli olmi alte, a filari).
(da Piccole esecuzioni)