«Tout ce qu’on peut savoir quand on ne sait rien, je le sais», scrive Marguerite Duras nelle prime pagine di La douleur, Il dolore: «Tutto ciò che si può sapere quando non si sa nulla, io lo so». L’io narrante femminile vaga per le strade della città negli ultimi giorni di guerra e la sua è un’attesa prolungata e straziante. È dolore, è lutto.
Camminare, portare con sé, scrigno e lama, un dolore immenso. Camminare, guardare intorno a sé, scavare dentro di sé ed estrarre le parole che pronunciano ciò che prima si riteneva impronunciabile. Dare voce all’inconcepibile, dalla condizione di sopravvissuta: «Sono sopravvissuta alla mia morte» è la citazione di Rose Ausländer posta in esergo.
Il dolore è un’urna che si stringe al ventre: «Ho stretto l’urna contro il ventre». Con questa immagine che apre Ex madre di Francesca del Moro si riprende il filo intravisto in La douleur di Duras; ci si addentra, altresì, in una topografia del dolore che ha tratti propri.
Concepire l’inconcepibile, contenere l’incontenibile. L’immagine ci si fa incontro dalle prime pagine del libro: «Un figlio lo contieni sempre/ e ogni minuto io contengo,/ ogni minuto sento dentro/ mio figlio che muore,/ mio figlio che decide di morire» (p. 17).
Le parole pronunciano, sì, ma del percorso verso la pronuncia vengono narrate le tappe del buio, dell’ingorgo, di un’articolazione spezzata prima di farsi, appunto, pronuncia: «Le nostre grida,/ il fiato spezzato,/ il rumore del pianto.// Tutte le parole/ che accalchiamo.// E su di noi la sua pace,/ Il suo silenzio di marmo».
La lotta tra es-pressione e silenzio è additata da una progressione nel numero delle sillabe dei versi iniziali della poesia a p. 23: la terzina che apre il componimento vede infatti in successione un quinario, un senario, un settenario. Segue un distico che è in realtà un endecasillabo diviso in un settenario e in un quadrisillabo. Quest’ultimo contiene l’unico verbo del testo ed esso si riferisce a una prima persona plurale; ha come oggetto le parole «che accalchiamo». L’affacciarsi confuso dapprima, l’assieparsi, l’affollarsi delle parole per dire l’indicibile diventano ingorgo, accumulazione di un noi che grida, che si è appropriato dell’urlo e che, allo stesso tempo, dall’urlo è posseduto, che ha perso, per un tratto, il ritmo e la cadenza, ha il respiro franto, « il fiato spezzato».
Che cosa diventeranno queste parole accalcate? Prima che sia data risposta a tale interrogazione, il distico finale si apre a un territorio “dall’altra parte”, si distende in due ottonari e si affaccia sulla quiete del marmo. Pietra e amore. Il panno che deterge in realtà accarezza: «È un prendersi cura,/ ancora, lei dice/ guardandomi/ salire sulla scala/ passare e ripassare/ il panno lentamente,/ posare un fiore nuovo,/ far brillare l’oro/ del tuo nome» (p. 58).
Pace e silenzio, «la sua pace,/ il suo silenzio» fronteggiano la calca delle parole che cercano a fatica una strada per affiorare. E il silenzio è deserto che deve essere attraversato: «The deepest feeling always shows itself in silence;/ not silence, but restraint.» (“Il sentire più profondo si manifesta sempre nel silenzio; o meglio, non nel silenzio, ma nel riserbo”), scrisse Marianne Moore in Silence (Selected Poems, 1935).
Dinanzi al «restraint» di coloro che Marianne Moore definisce in Silence «superior people», Francesca Del Moro propone, per contro, il suo parlar franco, la sua parresia, ché del dolore non intende cancellare alcunché, anche se si palesano – e Del Moro li registra con un moto di opposizione – i tentativi diffusi, messi in opera da altri, di ridurlo, di annullarlo, di “archiviare la pratica”.
Il silenzio va percorso, il deserto va attraversato, con suo «sole di luglio irridente» (p. 19), sotto la «trafittura del sole di luglio» (p. 84).
Il dolore scava, trafigge, morde feroce, strappa la carne; è nel corpo che si manifesta il dolore e, d’altro canto, la poesia si fa corpo: «el poema es mi cuerpo/ esto la poesía/ la carne fatigada/ el sueño el sol/ atraversando desiertos/ los extremos del alma se tocan/ […]/ y vuelves con falso nombre de mujer/ con tu ropa de invierno/ con tu blanca ropa de/ invierno/ enlutado», scriveva la poetessa peruviana Blanca Varela in Dama de blanco (“Dama in bianco”), apparsa nel 2000 nel volume El falso teclado (“La falsa tastiera”)[1] e ogni pagina di Ex madre conferma il nesso tra sentire, sofferto, sterminato, che segna il corpo e il corpo che si fa segno.
Il dolore comporta, nella poesia di Francesca Del Moro, ribellarsi alla rimozione: «Mi dicono il tempo/ calmerà il dolore/ ma io non voglio/ perché il tempo che scorre/ lo allontana, lo trattengono/ questi morsi in tutto il corpo,/ questi morsi sono ancora lui» (p. 29).
Mai tuttavia, il dolore rilascia un passaporto di superiorità, intesa come autorizzazione all’insensibilità per il sentire altrui. La pienezza dello sguardo non taglia fuori gli altri, l’orrore che è toccato in sorte non funge da anestetico dinanzi a ciò che accade nel tempo. Tutt’altro: Ex madre di Francesca Del Moro si volge a guardare, a riflettere, a mettere insieme, a denunciare, perfino, e dunque non solo a pronunciare, misfatti, ipocrisie e illusioni collettive della contemporaneità, l’offesa inflitta ai travolti, per omissione, dimenticanza, rimozione: «”Andrà tutto bene”/ mi colpisce, passando/ davanti a una tabaccheria,/ questo augurio feroce/ per chi piange i suoi cari/ e per me, che partecipo/ a questa pagina di Storia/ con il lutto più atroce» (p. 48).
La luce emerge dal ricordo, dal sogno, anche dallo sguardo donato agli altri, dal “con-dolore” come segno limpido di umanità: « Il sole che da luglio mi ferisce/ torna buono in questo giardino./ Ecco le aiuole, le rose, il tavolino/ tondo, le ombre del fogliame,/ il sorriso di Adriana./ Nella stanza per me il letto fresco/ mi ridona l’emozione del viaggio,/ delle bozze sul comodino./ Piangere è dolce la sera tra la meliga/ e l’orsa che seguiamo nel cielo/ pulito, è un pianto condiviso» (p. 42).
La luce, splendente, è orma, è fonte alla quale Francesca Del Moro, nei versi di p. 108 che ripropongo qui di seguito nell’originale e nella mia traduzione in tedesco, si rivolge come un girasole:
Ha brillato qui per vent’anni,
poi si è incamminato altrove.
Da allora io sono ferma
voltata verso la sua orma di luce
come un girasole.
Zwanzig Jahre hat er hier geleuchtet,
dann hat er sich woandershin auf dem Weg gemacht.
Seitdem stehe ich still
wie eine Sonnenblume
seiner Lichtspur zugewandt.
[1]«la poesia è il mio corpo/ questo la poesia/ la carne affaticata/ il sogno il sole/ attraversando deserti/ gli estremi dell’anima si toccano/ […]/ e torni con falso nome di donna/ con abiti invernali/ con i tuoi bianchi abiti/ d’inverno/ in lutto», ora in: Blanca Varela, La pienezza dell’occhio, Poesie scelte (1949-2001) a cura di Cinzia Marulli e Mario Meléndez. Traduzione di Emilio Coco, La Vita Felice 2020, pp. 122-125
Francesca Del Moro, Ex madre. Contributi critici di Rosaria Lo Russo e Luigi Carotenuto. Con due opere di Loredana Catania, Arcipelago itaca 2022