La pubblicazione dell’attesissimo e pregevole libro Èrme (Perugia, Guerra Editore, 2010) di Giampiero Mirabassi rappresenta una svolta nella poesia dialettale di Perugia. E c’è da auspicare che il dialetto ne tragga nuova linfa vitale, nonostante l’Autore sostenga con forza che sta lingua mòre, / dietro al su pensiero (questa lingua muore, / dietro al suo pensiero), inadatta ormai a raccontare le contraddizioni e la disperazione del nostro tempo.
Movendo anche da questa convinzione, Mirabassi gioca sull’ambiguità del titolo della raccolta: Èrme, parola che in dialetto significa “eravamo” e in lingua italiana può valere anche come “busti cimiteriali”.
Nonostante ciò questa lingua antica gli prende la mano e lui la plasma e la modella alle proprie esigenze narrative e stilistiche, con profonda reverenza, quasi nel timore di mancare di rispetto alle fatiche e alla durezza della vita a cui un tempo essa dava la sua voce. E così l’affondo è completo in un dialetto a volte terroso, rasposo, altre volte più delicato e rarefatto. Liriche dense sul piano lessicale, con un martellante susseguirsi di aspri grumi di sonorità, si alternano, infatti, ad altre più lievi, con suoni meno duri, in una discontinuità che risponde con efficacia alle esigenze stilistiche, alle situazioni tematiche, sprigionando una vasta gamma di sonorità, sottolineate da felici onomatopee, da frequenti allitterazioni, dal ritmo stesso del verso, cadenzato in molte poesie dal sapiente uso dell’anafora.
Mirabassi, che nelle sue liriche tradisce un’ampia e meditata cultura classica, usa il dialetto per raccontare una sensibilità profonda e sottile, per compiere un viaggio a ritroso nel tempo, per ripensare la vita in un νόστος non privo di άλγος. Una nostalgia, quindi, da intendersi nel suo più profondo valore etimologico, composta e dignitosa che coinvolge profondamente il lettore per la forza di condivisione della poesia.
Con l’efficace metafora del cinghiale che esce di notte e nfròcia l grugno a asaggià la terra molla (affonda il grugno per assaggiare la terra bagnata) e in una pozzanghera con una zanna va a ncoccià n pezzin de stella (va ad urtare un frammento di stella) Mirabassi delinea la sua poetica. Il suo è un canto discreto; egli è poeta delle povere cose che si fanno idea, del fragmentum assunto a segno dell’essere e del vivere, è cantore degli umili, e con grande maestria e profondità di sentire realizza lo straordinario prodigio, superando le angustie lessicali e concettuali di un dialetto, come quello di Perugia, in cui è innegabile la difficoltà di esprimere l’ampia gamma dei sentimenti e degli affetti.
La filosofia di vita che traspare nei versi di Mirabassi appare amara, sia pur in un alternarsi di luci e ombre, perché quando la forza dell’acqua si placa, dopo aver abbattuto querce e pioppi, arvién’ó la sciutta / e l sole arbolle come a vendicasse (torna l’aridità / e il sole ribolle come per vendicarsi), in una ricorsività al cui arbitrio l’uomo soggiace impotente.
Così, maturate disincantate consapevolezze, l’Autore spesso insiste sulle speranze deluse, quasi fossero attese di leopardiana memoria. Ad aspettarci potranno esserci i mille baci di chi ci accarezzerà per poi ingannarci, in una dimensione assoluta di precarietà, in cui la condizione dell’uomo è paragonabile a quella di una pulce che si trovi a vivere in mezzo al pelo di un cane. E su tutto incombe il tempo, il cui scorrere implacabile ci rende diversi, allontana gli affetti e poi annebbia, se non cancella, i ricordi, ma pur sempre nella magia della poesia che fa rivivere il passato. E poi la fine: quella morte che avrà occhi grandi e vuoti, boni da urlacce drénto la mi strizza (buoni da urlarci dentro il mio spavento); una morte lontana dallo spirito francescano, percepita, se non con paura, almeno con il fastidio de stó tramonto fatigoso / che n serve a gnènte / e non finisce mae (questo tramonto faticoso / che non serve a niente / e non finisce mai).
Il disincanto lo si percepisce anche nello scorrere monotono della quotidianità, quando si cerca nello specchio una scusa di identità, un filo di pensiero che n fusse la fatiga / d’armette adosso / sta vita gualcita (che non fosse la fatica / di rimettersi addosso / questa vita sgualcita). E nell’ètà in cui si fanno i bilanci non ci si può illudere, perché è come se n lallerone rimpiangesse / de nn avé fatto cerase (un corbezzolo rimpiangesse / di non aver fatto ciliege). E nella ricerca spasmodica di onori, celebrità, a cosa serve la grandezza, quando un fosso in piena, che ha la pretesa di essere un fiume, pò fa l fanfarone (può fare il fanfarone)soltanto per un momento?
Nella quarta sezione del libro (L come e l dóppo che nissuno sae), dove il racconto va a scavare nell’intimo della spiritualità, nelle nascoste pieghe del rapporto con l’Essere, nulla c’è di miracoloso; a guidarlo è stata la mi vita, quist’è l fatto, / è stata quela la vita / che ciò drénto (è stata la mia vita, questo è il fatto, / è stata quella vita / che ho dentro).
Si tratta di una strada trovata e poi insistita con determinazione, ma non ad illuminare di una luce chiara e totale l’esistenza dell’uomo. Perché le ombre restano, pur nel quadro di una fede profonda e conquistata e a volte gli accadimenti fanno vacillare le certezze. Non è una fede dispensatrice di verità assolute; l’Autore osserva, medita, studia, non precludendosi alcuna possibile interpretazione: chi l sa? Famme sentì. Tutto pòl èsse / mmezz’a sta solitudine de campi, / sfrusci de frasche, strilli de ciuétte (chi lo sa? Fammi sentire. Tutto può essere / in mezzo a questa solitudine di campi, / fruscii di frasche, versi di civette).
Diceva Eugenio Montale: i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla. La poetica di Mirabassi non è lontana da questo intento programmatico e, come in tanta poesia del poeta ligure, anche nella sua, i luoghi che si intravedono sono per lo più scabri, sono spazi colti nella calura estiva o nelle nebbie autunnali, in cui gli uomini vagano cercando di mitigare un sentimento eterno di precarietà e di solitudine. La terra è arida (sciucca), o vista ntra le rogaie de stó scatrafosso / a pel del macco de na tròscia sporca (tra i rovi di questo burrone / vicino al fango di una pozzanghera sporca).
Oltre alle campagne, che raccontano le fatiche degli uomini e quelle del vivere, ci sono anche le mura di un’antica città, una torraccia che sfida orgogliosamente il tempo, i vicoli bui: quele stradette buie del centro, / che nn évon visto mai farfalle (quelle stradette buie del centro, / che non avevano visto mai farfalle). Non c’è mai l’idillio bucolico, né il lindore di una città che si pavoneggia e l’Autore, figlio di questa terra, paga dei suoi cieli – che rappresentano il sogno di un mare che non c’è, coi strilli di rondoni a navigallo (con le strida dei rondoni / a navigarlo) – rivendica fieramente le proprie tradizioni: umbri èrme / umbri e contadini … raiche d’ulivo / de sta terra sciutta (umbri eravamo / umbri e contadini … radici d’ulivo / di questa terra avara), dove non si incontrano verdi fronde, ma fucellacci sciutti / e storcignati e scuri (fuscelli asciutti / e storti e scuri), così che si capisca che la nostra è una terra partecipe delle fatiche degli uomini.
Da sola la lirica Aqqua de fosso rappresenta l’antitesi dell’idillio bucolico, così lontana dal classico incipit petrarchesco (Chiare e fresche dolci acque) o dal francescano per sor’Acqua / la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Quella cantata dal nostro Autore è, piuttosto, un’acqua di fosso zzuppa de zanzare / e de girini. / Aqqua amara / disutile a la sete (intrisa di zanzare / e di girini. / Acqua amara / inutile alla sete)
Èrme è un libro che trabocca di storie umane, è popolato da gente rustica, è una raccoltain cui la poesia si distende nel canto che diviene anche leggenda o epico ricordo, in una narrazione ampia che intriga il lettore. Un mondo e un tempo lontani sono filtrati attraverso i ricordi di un adulto che fa rivivere il bambino o l’adolescente o il giovane innamorato e, per un magico gioco memoriale, tutto sembra diventare vero nell’atto stesso del ricordo.
Quello del nostro poeta è un viaggio nella vita che ci fa vivere la vita, anzi altre vite, attraverso figure appena abbozzate, in una galleria di personaggi che popolano soprattutto la terza sezione della raccolta (Quando l mondo fnisce tlì dal fosso). Figure ricordate per la loro semplicità, ma anche per certe stranezze, perché può essere che la miglior poesia nasca dal racconto degli strambi, degli umili.
La via Bruschi, i paesi e le campagne,tra piani lunghi e rapide zoomate, si animano di voci, di vite a volte tristi, come quella di Sergino, il ragazzo malato. E lentamente si compone un fiabesco – quanto realistico – affresco borgaiolo e paesano, un caleidoscopio d’umanità quasi felliniana: il pragmatico fruttivendolo Vandro, la Giovannina, seduta su lo sporco de n gradino che fa grandi palloni con la gomma americana. Nella ricca galleria incontriamo anche Cencio, il salumaio cieco, L’Untalpane che per dimenticare suona l’organetto sino allo stremo, Migliarino che annega nel vino le sue miserie di contadino, Decio e l’Ada che nascondono con la loro fuitina la povertà e le ristrettezze di tempi difficili. Ed è indimenticabile l’immagine dell’Ada che dal ballatóro … vinne giùe, / i zzòcchi ntna mano, i piedi scalzi, quattro robbette mmezz’al fazz(o)letto (dal ballatoio … venne giù, / gli zoccoli in una mano, i piedi scalzi, / quattro cosette in mezzo al fazzoletto): una delle tante immagini della raccolta che fanno pensare al nostro miglior cinema neorealista.
Tra tutte le figure, colma di lirismo, si staglia la figura di Menca, la tessitrice (che fa correre la mente a quella cantata da Pascoli). Il tessere è metafora del vivere e il tempo si misura nella tazza liscia scavata nel pavimento dal calcagno della Menca,mentrele sue mani sonavono coi fili del telaio. Ella, timida, nasconde i segni implacabili del tempo che hanno reso sgraziato e vuoto il suo sorriso, ma non per questo privo di dolcezza, e non fa altro che mormorare con grande serenità e meraviglia: “Ho fatigato tanto!” Che semplicità e grandezza al tempo stesso, in questa umile donna che, senza essere Silvia, senza avere occhi ridenti e fuggitivi, ma con le sue mani gonfie, curte e screpacciate (corte e screpolate) ha trovato il suo cantore!
Spesso sono personaggi portatori di una sana saggezza, di un pragmatismo proprio di una società contadina, e mai sono messi lì per ridere dei loro gesti, delle loro battute, per burlarsi della loro ignoranza, come accade in tanta poesia dialettale bozzettistica e caricaturale. Per loro c’è tutto l’affetto dell’Autore, che nell’ottica del narratore popolare annulla la distanza culturale e, se la pagina si colora di ironia, questa non è mai fine a se stessa.
Dell’amore è sommesso e discreto il ricordo; l’amore è un guardare lungo benzì, asordante o come nó strillo matto / de cicala (un guardare lungo, però, assordante / come uno strillo impazzito / di cicala). Dice l’Autore: d’amore n parlo mae, / benzì quann’ero frego / lettere d’aria e luna / scrivevo su pî tetti / ndua nun guardava lia (d’amore non parlo mai, / però quando ero ragazzo / lettere d’aria e luna / scrivevo sopra i tetti /dove non guardava lei).
L’originalità della poesia di Mirabassi sta anche nel tono colloquiale, nel dialogo che intreccia a volte tra sé e sé, con versi quasi borbottati dentro il parlare di chi non sa ascoltare, con parole quasi rimangiate prima di essere dette, nello stile della gente rustica che parla poco e sempre se nvergogna / de dì quil che se sente (sempre si vergogna / di dire quello che si sente.).
Anche in tal senso la sua poesia è accostabile a quella di un grande poeta dialettale, Tonino Guerra, l’“Omero della civiltà contadina”, alla cui poliedricità artistica il nostro autore può essere avvicinato anche per la sue note capacità espressive in ambito grafico e teatrale.
29 novembre 2010