“Diversamente”: un’antologia della poesia di Walter Cremonte

Recensione di Ombretta Ciurnelli

 

Con l’impermeabile chiaro, un fascio di giornali sotto il braccio, lo si può incontrare mentre attraversa Piazza Grimana e dall’Arco Etrusco sale verso il centro della città. Se ne coglie la riservatezza e la modestia in una postura che sembra evocare, come è stato detto, l’eleganza e la pensosità delle esili e longilinee sculture di Giacometti.

Parliamo di Walter Cremonte, nato nel Nord dell’Italia, ma vissuto nel milieu culturale di Perugia, già docente di Italiano e Latino nei Licei e conosciuto e apprezzato come poeta oltre i confini regionali per l’intensità del suo canto.

Nel tempo ha proposto la sua poesia in percorsi di scrittura per lo più brevi, a volte libriccini di poche pagine, sempre distanziati nel tempo, in alcuni casi stampati in proprio, talvolta in pochissime copie ormai introvabili: “sottili” plaquettes, che con modestia lui chiama raccoltine, che di “sottile” hanno soprattutto la finezza del dire e la sensibilità poetica, come Vicini del 2014, una raccolta di solo dieci liriche, poco più di novanta versi.

Sono già questi indicatori di un particolare modo d’esser poeta, lontano da complessità strutturali, pur nella profondità del pensiero che si esprime sempre in un canto discreto e appartato, in «una parca manifestazione di sé» (Pusterla). Non c’è che da rallegrarsi, quindi, per l’uscita di un’antologia della sua poesia, da lui stesso curata ed edita da Marcos y Marcos nella collana “Le Ali”, con la Premessa del poeta Fabio Pusterla che ben evidenzia l’intensità e la ricchezza di un percorso poetico seguito negli anni «con caparbietà e fedeltà a un’idea di poesia e di resistenza civile».

Le sei sezioni che compongono il volume offrono un ampio e significativo saggio di un’attività poetica che copre ormai mezzo secolo, a partire dai primi testi apparsi nella raccolta Vedi che nel 1978. L’Autore, in una memoria forse più attenta alla produzione recente che a quella del Novecento, se da un lato ripercorre le tappe significative del suo “fare poesia”, dall’altro sembra quasi proporre un nuovo percorso, mantenendo solo alcuni dei titoli pubblicati e accorpando insieme più sillogi.

C’è, forse, da chiedersi che cosa sia cambiato nella scrittura di Cremonte in un arco di tempo così ampio e se le sue scelte privilegino alcuni temi piuttosto che altri, perché è pur sempre uno scrittore maturo che, attraverso un’antologia, ricompone un quadro del sé poeta, dalla giovinezza a oggi.

La sua poesia non sembra caratterizzarsi per forti discontinuità, pur essendo cresciuta nel tempo in essenzialità, limpidezza, pregnanza lessicale. La colloquialità, che ne è tratto distintivo, non rappresenta un punto d’arrivo, è piuttosto la costante in una scrittura a volte densa di interrogativi, a volte lucido e dignitoso racconto di ingiustizie sociali, a volte lirico canto dell’amore e degli affetti, altre volte profonda partecipazione al respiro affannoso del vivere, anche attraverso le più umili creature, nella volontà di dare voce a chi è più debole. Ma sempre lontano da tentazioni retoriche, da facili suggestioni foniche, pur nel procedere piano e melodioso di una lingua che a volte si risolve in un borbottio, magari custodito tra due parentesi che nella scrittura di Cremonte divengono quasi “un luogo” appartato in cui interrogarsi sommessamente sul senso profondo di un’ingiustizia o fermare un breve e fuggevole incantamento oppure confermare un pensiero accennato, a volte anche in un «sottovoce ironico» (F. Pusterla). Ma sempre con i toni pacati di un canto che sa sciogliersi in una tessitura di sottili e discreti rimandi letterari, in una sintassi piana, con un lessico prossimo a quello di uso quotidiano, in un racconto sempre essenziale, in cui si coglie la sapiente distillazione formale e tematica di una poesia in cui «c’è solo ciò che serve, nient’altro, non una sillaba di troppo» (S. Pasquandrea).

Le scelte dell’Autore ricompongono un quadro complessivo delle tematiche presenti nelle raccolte pubblicate negli anni: ci sono i temi civili, c’è la poesia degli affetti, ci sono le piccole cose di cui si sostanzia il nostro andare. Dopo la lettura di Diversamente, tuttavia, sembra essere la poesia lirica a restare impigliata nelle trame della memoria: quella poesia che si scioglie, ad esempio, nel canto dell’amore, degli affetti familiari, nel ricordo degli amici, dei vicini, che racconta di alberi e animali, a volte fragili e indifesi. Poi, però, ci si accorge che non può cancellarsi dal pensiero l’eco della vibrazione etica che percorre le trame di tutta la sua scrittura. Come dimenticare le liriche di Respingimenti in cui l’Autore raccoglie dalla cronaca nuovi e drammatici tasselli che si aggiungono al lungo respiro della storia dei popoli migranti? Nelle liriche civili Cremonte libera i fatti dalla polvere del tempo e va oltre l’apparenza fenomenica, cosicché i respingimenti o le violenze sociali, la condizione degli «ultimi della terra», oltre ad essere documenti della storia che viviamo, divengono una condizione dell’esistere, che si fa immagine nella pregnanza di una realtà in cui i versi di Primo Levi, citati nella lirica Considerate, tornano a proporsi in tutto il loro valore: Considerate se questo / anche questo / è un uomo.

Lo sfondo letterario su cui si colloca l’opera di Cremonte rimanda, tra i tanti, a Penna, Caproni, Scataglini, Fortini, Leopardi e, più in generale, a quella poesia moderna e contemporanea che sembra non lasciare al lettore vuoti di senso e che apre il lessico al confronto con la realtà, lontano dalla ricerca della parola assoluta o metaforica, ma che, oltre la semplicità apparente, è ricca di echi e di sottili risonanze. L’orizzonte si allarga anche alla poesia classica, offrendo nell’ultima sezione del volume, Autori, anche eleganti traduzioni di alcuni testi di classici latini.

Dall’opera di Cremonte traspira sempre una poesia nutrita di intense e meditate letture, tessuta in una leggera trama di rimandi al canto di altri poeti, cosicché fare poesia diviene una sorta di vibrazione corale, al di là del tempo e delle contingenze, quasi un intimo colloquio, chiamando accanto a sé chi ha già cantato drammi, emozioni, sentimenti, chi ha già detto delle ingiustizie e delle creature più deboli. A volte la citazione – che è più di un lampo di memoria poetica –, senza mai creare discontinuità o dissonanze, trova un suo fondamento nel nitore rappresentativo di parole o espressioni, come recitano in Rovina i versi di qua di là di su di giù / li batte il mare, esplicita citazione dal quinto canto dell’Inferno. Altrove, in alcune liriche più recenti, l’Autore sembra, invece, rimodulare il canto degli amici-poeti, come in Cuore di luna che rimanda al Canto notturno di un pastore errante di Leopardi; questa volta non è il pastore-poeta a porre domande alla luna, è lei – la luna – a raccontargli la propria pena di non poter placare le sue ansie (vorrei tanto sapere / non per me, ma per te / che non t’acquieti), invitandolo, tuttavia, a contemplarla e a perdersi in lei nelle notti in cui è più bella. Conferma e sostanzia questa sorta di intimità poetica la nota finale nel volume A margine (2005), una raccolta di prose critiche, in cui l’Autore esprime gratitudine a poeti e a critici della poesia «per il loro ostinarsi a cercare di dare un senso alla nostra esistenza».

Dietro la colloquialità di una scrittura piana e lineare si può cogliere a tratti anche un’ansia del dire, in una percezione della poesia in bilico tra limite e necessità: come posso dire / come devo dire recita la lirica Come posso dire, non presente in questa antologia. Ma, quando sembra persa la fiducia nella parola poetica, il rammarico che il verso sia povero e che le cose non restino lascia il posto anche a convinti slanci: e ora va poesia, che devi correre.

E così la scrittura, anche se a volte sembra essere negata sia per le prove durissime della vita sia per i limiti di «un linguaggio sempre più povero di grazia e di energia» (in Con amore e squallore), resta la strada da percorrere nell’ostinata caparbietà di trovare un senso a questa nostra esistenza.

Il chiaroscuro che colora la riflessione metapoetica sembra trovare corrispondenza sul piano tematico nell’alternarsi di una dignitosa e lucida constatazione dei limiti in cui si è costretti a momenti di tregua in cui possono aprirsi varchi. E, se l’insistere anaforico del verbo vorrei nella lirica “L’erba voglio” rimanda a un gioco, senza soluzione, di desideri e attese disattese, in un afflato che include tutti (e pure degli altri vorrei lo stesso), può essere anche che qualche volta, quando gli accadimenti […] sonnecchiano un poco, un cielo azzurro, un dolce vento, / non più di tramontana siano lì per placare il respiro affannoso del tempo, in uno slancio a cogliere spiragli, ad assaporare una tregua, come nella prima poesia dell’antologia (Vedi che), paghi soltanto del fatto che la primavera ci attraversa, che i rami continuano a fiorire uccellini e che è possibile ribellarsi e che si può ancora scrivere una poesia.

Se povero è il verso / e le cose non restano, magari, andando e guardando come tutto è bello, possiamo godere di un incantamento, e se i giorni scappano / come ladri colti sul fatto e se il tempo non raccoglie il nostro invito a rallentare – e se non c’è nulla da fare, perché a decidere è solo lui –, potrebbero essere anche i sogni a confortarci, non quelli della notte, che son solo imbrogli, ma quelli che facciamo da svegli che son come i pollini / che profumano l’aria, / l’acqua fresca che cogli / nel cavo della mano (da Sogni).