Ancora il tempo protagonista della poesia di Nelvia Di Monte, le modalità della sua presenza nella nostra mente, così permeata di una cultura che lo vuole quasi entità a sé, soggetto di azioni quali scorrere, passare, ritornare, fermarsi, in una sorta di percorso incerto da ricordare e/o dimenticare.
Ecco allora la metafora del viaggio a dire il trascorrere dell’esistenza, che già in passato l’autrice aveva evocato in Ombrenis (2002) (Ombre), dove erano treni a passare più volte da una stessa stazione, il cui bar, gestito da una “signora” inquietante, sicura che prima o poi da lei ognuno dovrà fermarsi, diventava luogo di sosta per i viaggiatori in transito e occasione per riflettere.
Nella prima parte di Dismenteant ogni burlaz (Dimenticando ogni temporale), titolata Peraulis sfrisadis (Parole scalfite), il viaggio è quello del capitano di un cargo internazionale che attende nel porto di Surabaya (Indonesia) le operazioni di carico sulla sua nave. Seduto al tavolo dell’Ocean’s Club di Java (ancora un bar), il capitano parla con qualcuno del presente: il commercio di materiali pregiati, i rischi della deforestazione, le conseguenze della globalizzazione, la disumanizzazione dei rapporti.
Dai Cjanz da la Meriche (1996) in poi, Nelvia Di Monte ha sempre tenuto d’occhio la realtà concreta con la sensibilità di chi sta nel mondo senza chiudere gli occhi e prendendo posizione netta, vuoi etica, vuoi politica, ma si comprende subito che il suo pensiero va oltre a questa, per interrogarsi sulle radici profonde del vivere, senza delegare ad una impersonale entità storica cause o colpe, ma assumendosi in prima persona il peso della ricerca delle ragioni. In questa recente silloge è il capitano che indaga e lo fa in modo radicale, mettendo in discussione appartenenze, identità, scelte, sullo sfondo di una natura brulicante di vite indistinte, di umori, di merce, di confusi giorni che dis-traggono da se stessi. Sempre che ci si possa riconoscere, si sia in grado di recuperare per sé qualcosa di noto, di autentico, quando tutto attorno cambia : «A ogni viaz, a ogni cargo no cjati plui / tal stes puest nissun gran, nissune muse…» (A ogni viaggio, a ogni carico non ritrovo più / nello stesso posto nessun granello, nessun viso…). Non solo, quando siamo noi stessi a cambiare: «no domandami chi ch’o soi / diventât» (non chiedermi chi sono /diventato) .
È difficile ricordare, ancora più difficile è dimenticare, in un intreccio indissolubile perché si tratta di lasciar andare ciò che pesa e fa male, trattenere ciò che viene detto «la polpe vive», o anche «moments tignûs / di cont framiez faturis e slavins» (momenti tenuti / da conto tra fatiche e nubifragi) o ancora «il pôc che ti plaserès meti al sigûr» (il poco che ti piacerebbe mettere al sicuro).
Si rivela in questo poemetto in undici quadri il nodo cruciale di chi si volge a guardare il passato: come riuscire a non perdere tutto, nell’inevitabile accumulo di esperienze che impone comunque una selezione: «di bon che tant o dismenteìn, senò / trôs barcis par stivâ dut il passât?» (per fortuna tanto dimentichiamo, se no / quante barche per stivare tutto il passato?).
Si fa chiara la consapevolezza che non si può forzare la memoria, né basteranno impegno o volontà a mantenere intatto ciò che si è avuto. Figure dell’oblio si rincorrono nel poemetto, fino alla cancellazione definitiva del «taulin netât», tavolino pulito, nel bar, pronto ad accogliere nuovi viandanti.
Non c’è disperazione in questo assunto, piuttosto una sorta di raggiunta saggezza capace di porsi l’obiettivo di far tacere la pressione del tempo «come cuan ch’al rive il salustri, / celest framiz dal burlaz» come quando si affaccia il sereno, azzurro nel mezzo del temporale.
Si tratta di vivere dentro la vita, essere sempre pronti a ricominciare il viaggio, anche se le tracce del passaggio verranno di nuovo cancellate.
La seconda parte della raccolta, che le dà opportunamente il titolo complessivo, ripropone la dialettica fra il ricordare e dimenticare. Il gerundio, «dismenteant», forzando la grammatica, assume valenza ottativa, e introduce un susseguirsi di immagini prese dalla natura nella sua duplice veste di terribilità e di quiete, ma orientate a una visione di accettazione serena, che sa assumere anche il passato doloroso, visto «come cuarz dentri claps spezzâts», come quarzo dentro sassi spezzati, che sa cogliere i segni di un altro domani, pur nella fatica di vivere simile alla pressione del chiaro di luna per uscire da una nuvola (tal scûr un clâr di lune si sburte / fûr di une niule e j fâs l’orladure).
I versi, di una leggerezza meravigliosamente sospesa, devono molto alla profonda conoscenza dei modi e ritmi naturali, ma anche a un’interpretazione dei fenomeni che fa propria una cultura più della nostra in grado di attraversare l’esperienza senza dicotomie, in cui le contraddizioni – anche quella massima tra il vivere e il morire – sono contenute in un medesimo respiro, senza premi, senza pene, senza angoscia o scopo al di fuori della vita stessa. Da questo sentire nascono versi perfetti come questi: «… Aghe fresche / dopo une cjaminade d’istât, nuje / par tignile di cont otri la sêt» (Acqua fresca / dopo una camminata d’estate, niente / per trattenerla se non la sete).