«ma la luce che filtra dalla grana/ dice a me – nel silenzio – tutto il bello»: parto dal distico che conclude Ad A.C., componimento che si trova nella sezione Primo tempo, per raccontare di un rinnovato viaggio nei versi di Fabio Michieli in Dire, ora alla sua seconda edizione, e dunque in una versione ampliata e in una rete più fitta di linee e curve e nessi.
È bene premettere che si tratta di un viaggio tra i versi, giacché il richiamo che a me giunge da tempo da questa raccolta (la cui prima edizione risale al 2008) e da questa poesia è simile a ciò che l’Orfeo di Fabio Michieli dice di sé in (Orfeo a Euridice): “inselvarsi oltre il limite concesso”, tornare ad addentrarsi. Se mai è il momento in cui sarà dato al mistero di risolversi interamente nel mondo del finito, a chi si tuffa, si immerge, si “inselva”, in Dire, a chi ne percorre le direttrici principali così come i cunicoli, gli antichi e gli ulteriori, è dato sempre di cogliere «– nel silenzio – tutto il bello».
Dal cogliere al pronunciare, al Dire «tutto il bello», cionondimeno, si estende l’arco composto da infiniti punti, da molteplici angolature e da svariate sfumature cromatiche. È proprio questa la ragione per cui quello che segue sarà il resoconto di uno solo dei tanti viaggi intrapresi nella poesia di Dire. È proprio questa la ragione, soprattutto, per cui la storia della composizione di Dire reca con sé, attraverso il lavoro incessante sulla disposizione, sul suono, sulle combinazioni, il segno dinamico e drammatico di una battaglia condotta per dare facoltà di parola a «tutto il bello» colto nel silenzio.
Questo particolare viaggio trae ispirazione da luci, contorni e colori nella pittura di Ingres, la cui compiutezza scaturisce dal dramma della risoluzione del conflitto permanente tra naturalezza e ideale. La perfezione della bellezza giunge come un’opera – nella quale avvertiamo quasi dolorosamente tutto il pathos della cura – di posizionamento, di cattura della luce su contorni dalle linee impeccabili e che pure tradiscono il guizzo di «carne e ossa e tendini e muscoli».
Sulla scorta dei dipinti di Ingres (penso per esempio all’Autoritratto a 24 anni, alla Mezza figura di bagnante, a Edipo e la Sfinge), questo mio resoconto di viaggio si sposta ora, dopo la prima (distico finale in Ad A.C.) e la seconda tappa ((Orfeo a Euridice)), verso la terza tappa, il componimento la cui intera architettura è manifestazione di un desiderio di fisicità intatta e, allo stesso tempo, di totale espansione e confluenza dell’io nel tutto, fino ad annullare ogni contorno, ogni confine: «mi fosse dato spandermi nell’aria/ e confondermi a nuvole di noia/ e placare quei mali che divorano/ intero il corpo –».
Un bello doloroso, dunque, che serba memoria dello sbranamento, della scomposizione, dello schianto. La quarta tappa passa, sempre traversando i testi di Primo tempo, per alcuni loro versi in particolare: «le foglie già da tempo marce al suolo/ avidamente attendono lo schianto» (in Das Bild), «a volte penso d’essere un involucro/ cavo dove trova rifugio l’uomo/ che non sarò ancora» (in Sebastiano).
Per procedere in questo viaggio, occorre andare a ritroso e in avanti, a ritroso nel volume di questa seconda edizione, perché la quinta tappa tocca i testi della sezione che vi appare come prima, Genesi, in avanti, allo stesso tempo, perché se le poesie che compongono Primo tempoerano già apparse nell’edizione del 2008 di Dire, i sei movimenti di Genesi – come i sei giorni della creazione del mondo secondo l’Antico Testamento – risalgono al 2013, a sei anni fa, dunque, e a sei anni dalla data di redazione (2007) del ‘primo’ Dire.
Inizio e scaturigine, nascita e interrogazione, fondamenta e nucleo, saetta e grimaldello, ardore inestinguibile e inestinto, incanto di una fiamma che consuma e attrae, forza sprigionata dalla parola, che chiede di essere interpretata e, nello stesso tempo, pare resistere a qualsiasi resa: «ritrovo il tempo andato tra la cenere/ se si consuma il fuoco –// costringe a camminare su roventi/ in equilibrio lamine» (Genesi I); «che mi devi ora in premio?/ il segno chiaro/ che brutalmente forzi quest’inerzia/ di sentimenti e modi».
Anafora e anastrofe, aggettivazione battente e, per me che racconto di questo mio viaggio, la sfida dell’andirivieni tra una delle poesie di Ingeborg Bachmann, la prima della raccolta Invocazione dell’Orsa maggiore, Il gioco è finito, con un verso citato in epigrafe e l’insieme che da anni mi chiama alla traduzione dal tedesco all’italiano (“Fratello mio caro, quando sarà che una zattera costruiremo e il corso del cielo discenderemo?”), e i versi di Genesi di Fabio Michieli, che in parte ho tradotto in tedesco.
Chiede, questa quinta tappa, di essere continuamente ripercorsa, senza timore di vortici e abissi. Il gioco è finito, l’incanto resta e, come scrive Bachmann nella poesia citata da Michieli in Genesi, il richiamo di una “tenda nel deserto”. Avvenne. Può avvenire ancora? Quale il destino del prodigio nel tempo? Resta l’interrogazione permanente, la “saggezza interrogativa”, la rottura della catena causa-effetto tramite il sogno e l’immaginazione, la chokmah, ovvero la «forza del che cosa?», che, secondo la Qabbalah, è una delle tre dimensioni fondamentali dello spirito.
A questa interrogazione risponde con un ventaglio di luoghi e di manifestazioni la sezione conclusiva, Circostanze, la sesta e ultima tappa del resoconto di uno dei miei viaggi in Dire. Circostanze si apre con un immediato collegamento alla chokmah, alla saggezza interrogativa di Genesi, alla dimensione poetica dello spirito umano che nella Qabbalah viene chiamata aba, padre. I primi dieci componimenti di Circostanze sono dialogo e compianto, desiderio e rimpianto, ricordo e dolore per il distacco dal padre. Ci sono passaggi di una forza straordinaria sia per il quesito battente («dimmi! di che parlammo?»), sia per il futuro che è anche amore per la Parola e impegno («presto verrò da te»), sia, ancora, per l’amara constatazione nei momenti di sconfitta nella ricerca di “frasi vere”: «rimango con le frasi fatte:/ un pugno di ali nello stomaco per compagne». Una sconfitta che, si badi bene, non sopprime mai la ricerca dell’origine, pur nella consapevolezza che essa è destinata a fallire. I passi di Dire non imboccano mai, dunque, la strada del cinismo o del nichilismo.
Non stupisce allora di poter cogliere, nei componimenti successivi, a partire da “La passeggiata”, l’interrogarsi e il rispondersi reciprocamente di visione (soprattutto attraverso la ‘lastra impressa’ della foto e la contemplazione di opere d’arte) e parola, di sogno e «cabala»: «mentre Luna di certo/ sfila al sogno una cabala».
La sesta tappa di questo mio viaggio in Dire si compone, a ben vedere, di innumerevoli tappe, è fatta di battiti del cuore, di balzi del respiro, di sussulti per intuizioni e di avvistamenti, quelli agognati e quelli inattesi, viaggia per i luoghi di tante vite e di tante storie, che si sono dati convegno qui per svelare e per svelarsi, per aggiungere un tassello, o toglierlo, o spostarlo, alla sciarada permanente alla quale concorrono pensiero logico, saggezza interrogativa e intelligenza emotiva. Lo sguardo sorridente e pensoso illumina e guida il percorso in questo ‘itinerario degli itinerari’: lungo la salita enigmatica di Costa San Giorgio, insieme alla poesia di Montale; accanto ai movimenti felpati e al miagolio di Luna, la gatta; in un paesaggio familiare, quello di Venezia, che nella nebbia, dai finestrini del treno e con i «versi di un amico», si riveste di mistero, lungo le rive della Senna a confermare la simbologia vivissima di Parigi; in una riedizione dell’episodio dal Faust di Goethe (Gretchen am Spinnrad, che diventa Fritz am Spinnrad, “Fritz all’arcolaio”), nella quale affetto e giocosità concorrono a dire l’amore e la preoccupazione per il verso, la sollecitudine per la lettura, la scelta, la fattura del verso, la cura quotidiana richiesta anche all’editore (Gianfranco Fabbri, editore di L’arcolaio, anch’egli poeta e qui in ideale dialogo con il poeta Fabio Michieli); con la pittura di Picasso e di Mirò tra riscoperte e delusioni a Barcellona; con le tele di Caravaggio a segnare i contorni, e i tentativi di oltrepassarne i confini, dell’umano nel suo dibattersi nel mondo e interrogare il sacro; con i versi dall’Eneide di Virgilio a far risuonare lo sgomento per le morti per acqua, «l’ansia di attesa di corpi/ riversi su altri corpi sotto le onde».
© Anna Maria Curci
da Genesi
II
Chi cade ha le ali.
Ingeborg Bachmann
seppi volare un giorno questo cielo:
distesi le ali in sogno –
(d’altri cieli volevo
percorrere l’azzurro)
V
che mi devi ora in premio?
—-il segno chiaro
che brutalmente forzi quest’inerzia
di sentimenti e modi, di pentimenti e…
——————————————-tutto
il non detto ascoltato e rivissuto
negli abiti già smessi, e sempre nuovi,
che furono di quanti allora mi parlavano
senza che comprendessi un solo suono,
ma solo ritentando un furto antico
da Primo tempo
Das Bild
il ramo si secca al gelo se l’albero
decreta la sua morte per la vita:
le foglie già da tempo marce al suolo
avidamente attendono lo schianto
(Orfeo a Euridice)
superai il corpo e il salto mi portò
oltre l’ombra accasciatasi sul suolo
dove nera svaniva anche l’attesa…
ma tu continua a non temere il salto
che mi inselva oltre il limite concesso,
ora che dal Lete pura risorgi
Sebastiano
(martire mi affacciavo
al supplizio sdegnoso di ogni ingiuria)
a volte penso di essere un involucro
cavo dove trova rifugio l’uomo
che non sarò ancora
da Circostanze
presto verrò da te, ma senza fiori;
non petali: parole da annaffiare –
e se ancora rivoglio non il bacio –
ché espansivo tu non sei mai stato –
ma gli occhi lucidi a guardarmi fissi,
a dirmi la fierezza d’esser padre,
è perché sono l’orfano che cerca
ogni risposta a questo tuo silenzio
Quod genus hoc hominum? (Aen. i 538)
suona un’ora non tarda e già risuona
di secoli passati sotto assedio
è questa un’ansia di attesa di corpi
riversi su altri corpi sotto le onde –
le navi che da là salpano da secoli
hanno mutato la forma con la merce
voi dite che sia giusto abbandonarli
lasciare al largo quei legni dal nulla
venuti per pietà nulla a perire –
suona e insiste quest’ora di rapaci
di voli a picco su vittime inermi
Fritz am Spinnrad
la poesia, amico mio, è la nostra voce:
(le trame sul telaio,
i versi all’arcolaio…)
di questo ci cibiamo, notte e giorno –
dici non sta più a noi
combattere incupirsi,
ma non son nuvole quelle che passano!
l’inconsistenza spesso ci attanaglia
di chi coi versi ingaggia la battaglia
Caravaggio
ora il gemito sborda, quasi slabbra
la coltre di polvere rissosa
tra le spire di luce si profila
l’immagine ricolma di terreno
amore e il santo non basta a salvare
il mandato –
————–l’uomo è il suo centro, il mondo:
il nero avvolto nella cupa macchia
Fabio Michieli, Dire. Interventi di Augusto De Molo e Gianfranco Fabbri, L’arcolaio 2019