Con il lapis* #29: Nella cenere dei giochi di Irene Sabetta

Nota e scelta di testi di Anna Maria Curci

 

Con il lapis* #29: Irene Sabetta, Nella cenere dei giochi. Prefazione di Maria Benedetta Cerro, La Vita Felice 2022

 

Il silenzio sorgivo

non è fatto di parole taciute

né di strategie mute.

Quando il canto del mattino

e le voci della sera

accompagnano i tuoi risvegli

e le tue veglie,

la passività del marinaio

nel mare in tempesta

e il volo dell’albatro

ignaro del marinaio

si parlano a mezz’aria

e dispiegano le rotte

dei naviganti

e di chi è rimasto a terra.

(p. 35)

 

La parola poetica nasce dal silenzio; dalla sosta e dalla sospensione scaturisce il moto che fa incontrare il pensiero del sogno e quello della veglia con il canto del mattino.

Il «silenzio sorgivo» genera, unisce, addita e dipana i percorsi di chi intraprende un viaggio sull’acqua e di chi resta sulla terraferma. Di questo silenzio sorgivo si nutre la poesia di Irene Sabetta nella raccolta Nella cenere dei giochi, che si apre all’incontro con il passato.

Tale incontro si configura come itinerario di esplorazione, giacché, come avverte l’autrice all’inizio del volume, «nessuno conosce/ il passato che lo aspetta». L’itinerario si snoda per il tramite del verso libero, che pur conosce e continua a saggiare, a mettere alla prova del canto le misure, più consuete nella tradizione poetica italiana, di quinari, settenari, endecasillabi. Il percorso si realizza per il tramite, inoltre, della prosa poetica che si manifesta qui come flusso di coscienza e fiume di memorie per immagini.

L’io lirico, che dedica il libro «ai miei morti e ai miei vivi», va tastando i frutti rigogliosi della propria infanzia, dell’infanzia della madre; va smuovendo la «cenere dei giochi» per cercare e «trovare un po’ d’ombretto», ornamento nella fanciullezza, sfumatura piena di senso per chi da quel passato riscoperto ripensa e ricostruisce l’oggi.

Rimestare nella cenere per plasmare una nuova vita alla poesia: non è casuale il riferimento a Eva e ad Adamo, in particolare nei componimenti che recano nel titolo i loro nomi, rispettivamente alle pagine 18 e 19 del libro: Eva è al condizionale presente e tratteggia le condizioni per il riequilibrio, la riconciliazione, la ricostruzione dopo la devastazione; Adamo contrappone agli errori, alle cadute passate, al conflitto permanente, smacco e scacco dell’umanità e della fede nel restare umani, il futuro semplice della rinascita, del rovesciamento dei rapporti millenari di potere

Il tragitto seguito dalla poesia di Irene Sabetta giunge in questa raccolta, come ben mette in evidenza Maria Benedetta Cerro nell’ampia prefazione, a un’opera – canto, racconto, memoria dei luoghi e delle cose, nei luoghi e nelle cose – che mostra unità e organicità. Ha la consapevolezza della necessità della resa dei conti con la matrice-radice linguistica (e plurilingue!) dell’espressione, come già era avvenuto nella plaquette Inconcludendo, ma qui la “addizione etica” che lì costituiva il fil rouge ha dato vita a un confronto con miti della letteratura di tutti i tempi, con la propria mitopoiesi, con la storia privata e con quella collettiva, che va ben oltre la schermaglia, il divertissement, il passaggio tra concetti per apparenti lapsus, allitterazioni e assonanze.  Se in Il mondo visto da vicino, la raccolta precedente a questa, l’esplorazione passava per viaggi attraverso continenti e per il contatto con altre biografie, altre culture, Nella cenere dei giochi disegna un viaggio nelle profondità dell’animo, ed è un viaggio che tocca i territori del sogno e che ai luoghi della ‘realtà’ dona sfaccettature nuove. È così che la Ciociaria dell’occupazione tedesca, la Ciociaria di un’infanzia lontana si avvicina a chi legge con i profumi, i colori e il sapore della polpa di pere e prugne, frutti di un giardino paradisiaco («perché quell’orto era il giardino dell’Eden era il regno dei peri e di prugni che davano pere e prugne e la vendemmia era una festa i tedeschi non sono poi così cattivi sono gentiluomini a volte», in Iris, p. 24), prossimo, familiare, da un lato, e, dall’altro, trasfigurato nel ricordo. Nel viaggio interiore, le calli di Venezia, i ponti, i canali, il «Campo de la Bragora», sembrano perfino confinare con la storica «via Civita Farnese che parte in montagna e finisce al mare» (Iris, p. 25), voluta e fatta costruire dai Borboni (fu Ferdinando II a chiamarla così) per collegare il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontificio, sì che pare delinearsi un misterioso legame tra nord, centro e sud: nature, contrade e vicende diverse che si mettono in cammino l’una in direzione dell’altra.  Roma, l’Eur, periferia nella realtà e, nel sogno, centro di Roma, centro del mondo, viaggia a sua volta per movimento onirico, si alza e cammina, risorge come poesia, si inonda di luce («la casa era Roma/ e Roma abitava la casa/ inondata di luce/ e del nostro acuto piacere di starci, / mia madre ed io.» (Eur, p. 31) e diventa dimora, parola, madre.

 

Anna Maria Curci

 

*Con il lapis raccoglie annotazioni a margine su volumi di versi e invita alla lettura della raccolta a partire da un testo individuato come particolarmente significativo.