Con il lapis* #17
Maria Laura Valente, La memoria del dolore. Prefazione di Sonia Caporossi, Edizioni Progetto Cultura, Le Gemme – Collezione di quaderni di poesia curata da Cinzia Marulli, 2022
non conosco la parola che stenografi il dolore
che coaguli in grafemi l’infezione dei pensieri
forse è nota di chiusura di volumi fuori stampa
un lessema desueto in idiomi che non parlo
resta vuota la casella, confessione non siglata
un silenzio raggrumato che ristagna tra le ossa
(p. 23)
Come dire il dolore che si patisce? Studiando le «domande e pseudodomande» menzionate da Ingeborg Bachmann nella prima delle sue Lezioni di Francoforte (in: Letteratura come utopia, traduzione di Vanda Perretta, cura editoriale di Renata Colorni, Adelphi 1993) questo mi pare un quesito ricorrente, se non addirittura uno dei quesiti a fondamento della scrittura poetica.
I sei versi, ciascuno formato da una coppia di ottonari, che formano uno dei testi contenuti in La memoria del dolore di Maria Laura Valente, articolano, argomentano, declinano il quesito, illustrando difficoltà, ostacoli, impedimenti all’impresa.
I muri che si oppongono al dire sono alti, a prima vista insormontabili, ma non conoscere la parola non induce la paralisi. L’inizio del terzo verso, con l’avverbio «forse», indica una pista da percorrere. Essa è caratterizzata dall’inusuale; non si tratta di moneta corrente, di locuzioni in uso, bensì, probabilmente, di una «nota di chiusura di volumi fuori stampa», di un «lessema desueto». Nelle macerie di altre mura, quelle crollate all’irrompere, subitaneo e violento, del dolore, tra i detriti e i frammenti si continua a cercare, tuttavia, di ricomporre un ordine, diverso da quello sconvolto dal trauma, dalla frattura, dallo strappo, eppure ancora tenacemente fiducioso delle coordinate architettoniche dell’opera poetica, edificio linguistico che si libera da «un silenzio raggrumato» e che sprigiona, a sua volta, combinazioni nuove. Il nuovo dire, la poesia, si va costruendo non da una mera sperimentazione linguistica, ma da un vero e proprio scatto, che muove dall’esperienza – qui dal «caos magmatico di una materia passionale» (Caporossi) verso la conoscenza. L’affermazione circa il sorgere della poesia da uno scatto conoscitivo, da una «spinta morale […] che tende alla conoscenza» (Bachmann) trova nella scrittura di Maria Laura Valente in La memoria del dolore una sua manifestazione sonora, significativa.
La cognizione del dolore non può allora che farsi parola che scombina e ricombina abbinamenti, costrutti, locuzioni. Ricrea la sintassi, riflettendo non solo sulle sue possibilità di combinazione, bensì anche su ogni lancinante fonema, su ogni sillaba che si incunea nella carne. La casa devastata dal dolore si fa nuova dimora solo attraverso la poesia, parola che ripercorre il danno, il guasto, lo strappo, la frantumazione, e cerca nuove collocazioni. In questo, le categorie grammaticali accolgono, traslando e trapassando, anche l’io. Il tempo e il modo del verbo (e del Verbo, come Logos, pensiero che «vuole raggiungere qualcosa con e attraverso il linguaggio», Bachmann) rendono, restituiscono lo scorrere del tempo cronologico e, insieme, rivestono, trasformando nella flessione e nella coniugazione, chi non può fare altro che vivere nel chronos, imparando – con uno slancio che sembra suggerire come ogni volta ciò si apprenda da capo – l’attesa del kairos.
Anna Maria Curci
*Con il lapis raccoglie brevi annotazioni a margine su volumi di versi e invita alla lettura dell’intera raccolta a partire da un componimento individuato come particolarmente significativo.